di R. P.
Caro Aldo Maria Valli,
scrivo dopo aver letto in Duc in altum l’articolo dello scorso 26 dicembre Le cause e gli effetti, di Fabio Battiston.
L’autore rileva come, al di là del nodo Bergoglio, maggior attenzione andrebbe ora posta agli effetti che tale accidente avrebbe provocato nel mondo cattolico: fedeli, clero, istituzioni.
Nella sua analisi infatti fa notare come ormai ci si trovi di fronte a un vero e proprio esercito pronto all’obbedienza al capo qualsiasi ne sia la volontà e l’espressione. Fa inoltre giustamente notare come Bergoglio non rappresenti che il prosieguo e, ad oggi, il termine ultimo di certo Concilio e post Concilio. Sono perfettamente d’accordo, anche se personalmente non me ne stupisco troppo.
Innanzi tutto l’anagrafe: i giovani del periodo conciliare sono gli ottantenni di oggi. Questo significa che intere generazioni sono cresciute nello “spirito del Concilio”, e se i ventenni di allora per la maggior parte non sembrano, complice il Sessantotto, essersi fatti troppi problemi rispetto alla direzione che la Chiesa aveva intrapreso, tutti quelli venuti dopo hanno trovato un percorso già segnato. E, ovviamente, sono un esercito.
Racconto di me stesso perché credo che, fino a un certo punto, la mia esperienza sia comune a quella di molti altri.
Nato poche settimane prima della fine del Vaticano II, ho conosciuto e per molti anni vissuto gli esiti di tale evento come l’unica espressione possibile della fede cattolica.
La mia famiglia da generazioni affidava l’educazione religiosa dei figli alle istituzioni cattoliche, e finché si trattò di vecchi parroci, catechisti preconciliari e qualche buon insegnante qualcosa di positivo si finiva sempre per cavarne.
Ma con la mia generazione cominciarono ad accadere cose nuove: ad esempio già dai primi anni Settanta vennero assegnati alla parrocchia alcuni preti operai. La figura del sacerdote cambiava, tra la curiosità e, mi sembra di ricordare, il compiacimento dei più. Solo le fasce più anziane della popolazione sembravano disapprovare, a loro volta disapprovate come retrograde e legate a qualcosa che non appariva più al passo con i tempi.
Già, i tempi. Al Concilio era seguito quello tsunami che fu il Sessantotto, il quale sembrava riprenderne, amplificandole e rendendole familiari, talune istanze, in primis quell’antropocentrismo che, per quanto in modi spesso subdoli, avrebbe segnato la formazione cristiana della mia generazione e di quelle a venire, sempre più umanistica, sempre meno cristiana, e men che meno cattolica.
A tal proposito ricordo le lezioni di catechismo dove anno per anno tutto diventava sempre più “percorso”, “cammino”, verso un Dio sempre meno divino, sempre più antropomorfo, una specie di amico invisibile del quale, al sopraggiungere dell’adolescenza, mi sarei stancato. Anche perché mi venne, sia pure in maniera embrionale, il sospetto che mi si volesse convincere dell’opportunità di cercare e trovare il divino dentro di me, cosa che, per la consapevolezza che man mano maturavo di me stesso e soprattutto per i mezzi che ci venivano forniti, mi appariva francamente complicata.
Di fatto ricordo che, ad esempio, dei Sacramenti non si parlava che di sfuggita e sono convinto di non essere stato il solo all’epoca a non averne capito molto. Eppure sono Grazia, potenza di Dio in azione.
Ad oggi mi chiedo come a nessuno sia potuto venire in mente di richiamare a noi ragazzi (e poi agli adulti) questa ed altre grandi verità cattoliche. Ce ne saremmo forse entusiasmati, saremmo forse stati orgogliosi della nostra religione, della nostra appartenenza alla Chiesa cattolica, anziché, come purtroppo spessissimo accadeva, vergognarcene.
Ma tant’è: il catechismo didascalico di san Pio X venne rapidamente sostituito da quelli che all’epoca si chiamavano audiovisivi, e a scuola l’ora settimanale di religione divenne a tutti gli effetti un’ora di ricreazione supplementare della quale nessuno si sognava di chiedere conto.
Con questo “bagaglio culturale” la domenica mattina mi recavo a Messa in parrocchia.
Inutile dire che di tutta la questione della fede questo era il principale tasto dolente. Assolvevo al precetto domenicale esclusivamente perché richiesto da mia madre. Fosse stato per me, non avrei esitato a rimanermene a letto. La domenica, come giorno di festa, non l’avevo proprio mai capita.
E non capivo il senso della Messa, anche se era chiaro che le due cose andavano insieme. Per me tutto si risolveva in qualcosa di penoso, senza capo né coda, in quella che ormai sempre più consideravo una giornata persa. Il sacerdote dall’altare sembrava voler comunicare qualcosa di non vero, del quale forse egli stesso dubitava. Del resto il dubbio, il mettere in discussione e, dentro e fuori della Chiesa, un certo spirito dissacratorio, sembravano talvolta la cifra che i preti offrivano per tutta la faccenda. Appena potei smisi di frequentare la Messa e quell’ambiente, la parrocchia di una cittadina che già dai primi anni Ottanta mostrava tutto il proprio abbandono a una mentalità consumistica, edonistica, dove il precetto domenicale era diventato del tutto facoltativo e apparentemente privo di importanza. E tutto questo durante il pontificato di un gigante della fede quale fu Giovanni Paolo II.
Anche l’ingresso, peraltro quasi del tutto casuale, in un noto gruppo cattolico, non cambiò sostanzialmente la mia condizione, ma anzi mi rese anche più critico e guardingo verso esperienze e persone che, come in questo caso, venivano usate per interessi che poco o nulla avevano a che fare con la fede. Dopo circa un anno lasciai quel gruppo per entrare in un altro (dove sarei rimasto per molti anni) cercando di mantenere l’abitudine ripresa grazie ad esso di frequentare la Messa, anche se la sensazione di vuoto che provavo era rimasta immutata, ma di ciò inizialmente accusavo me stesso, anche se per che cosa non lo sapevo nemmeno io.
Poi, come tante altre cose, anche la Messa non divenne altro che un’abitudine che non aveva alcuna apparente incidenza sulla mia vita, e finii con l’assuefarmi anche all’insoddisfazione di fondo che provavo e che nemmeno la famiglia che mi ero frattanto formato, e sulla quale riversavo tutte le mie attenzioni, riusciva a mitigare.
Ma Dio interviene nelle vite delle persone con la sua grazia, ed un giorno toccò a me. Quel giorno, pregando, compresi ad un tempo l’importanza e la grandezza della Chiesa e della preghiera e il ruolo che ogni singolo membro può avere nella Chiesa Corpo Mistico.
Ne fui sconvolto, esaltato e annichilito allo stesso tempo. In seguito continuai a ripetere a quanti incontravo che se avessimo sempre la grazia di questa consapevolezza passeremmo ore in preghiera durante il giorno. Ma perfino i membri del gruppo di preghiera cui appartenevo mi guardavano strano: o io non riuscivo a spiegarmi o loro non potevano o non volevano capire. Iniziai a vedere quale fosse lo stato della Chiesa e a soffrirne.
Decenni di prassi post conciliare in continua (ri)voluzione avevano lasciato un vero e proprio vuoto dottrinale, dogmatico, sacramentale. I fedeli seguivano i percorsi del mondo pedissequamente riproposti dalla gerarchia ecclesiastica. E io capivo di mancare della preparazione necessaria per prendermi cura almeno di me stesso. Non sapevo bene che fare, a chi rivolgermi. Poi un giorno mi ricordai qualcosa.
Ogni anno, fin da piccolissimo, i miei genitori mi rinnovavano quello che per me era il più bel regalo: mi lasciavano per un paio di mesi dai nonni, in campagna. Anarchia assoluta per tutta la settimana tranne la domenica mattina, quando mia nonna, vecchia catechista, mi rimetteva nei binari della civiltà prendendomi con sé per andare alla Messa: non la sua abituale, la prima, ma quella delle otto, la Messa del fanciullo.
La chiesa, piuttosto piccola, era sempre piena ad ogni funzione, e la Messa, sia pure novus ordo, era profondamente partecipata dai fedeli. Si potrebbe dire un’abitudine, una prassi, ma di ben altra natura rispetto alla post conciliare! Attraverso il ricordo percepii come quella potesse essere una via da percorrere, una prassi da contrapporre: ne ero affascinato.
Trascorse ancora del tempo e giunse la “pandemia” con tutto ciò che ne conseguì. Mentre il servizio d’ordine, con zelo degno di miglior causa, importunava i fedeli in preghiera circa i distanziamenti nonché l’uso del gel e della mascherina, il parroco, che già da tempo mi aveva stancato con il suo continuo sollecitare applausi con fare e tempismo da cronista sportivo, dall’ambone invocava ora l’arrivo dei vaccini.
La misura che si stava velocemente colmando straripò quando, fatto due più due, capii che la Chiesa si stava muovendo in sincronia con il governo nell’applicazione di misure che solo pochi mesi prima si sarebbero considerate apertamente in contrasto con il suo ministero.
Venni a sapere che a quaranta chilometri da casa c’era un priorato della fraternità San Pio X. Detto fatto, lasciai la parrocchia e da allora partecipo esclusivamente alla messa vetus ordo.
Il primo impatto fu una gioia, il ritorno a casa di un reduce. La prima cosa che mi venne in mente alla vista dell’altare, del Crocifisso, con le candele accese, sobrio e solenne allo stesso tempo, fu che la domenica aveva finalmente un senso. Sapevo che lì avrei ritrovato quella fede conosciuta in campagna da piccolo, e così fu.
E feci una scoperta amara. Riguardava il gruppo di preghiera al quale partecipavo da oltre trent’anni. Con l’entusiasmo del neo convertito parlai loro della mia scelta, ma la risposta, tra l’imbarazzato e lo stizzito, fu che papa Francesco aveva appena dichiarato che chi non accettava il Concilio si doveva considerare fuori della Chiesa. Più volte negli ultimi tempi avevo espresso perplessità circa il Concilio e ancor più circa il governo bergogliano, trovando talvolta conforto, più spesso indifferenza. Evidentemente mi si tollerava, ma stavolta dovevo aver passato il segno. Mi resi conto che uno dei tanti “non detto” era proprio l’adesione allo “spirito” conciliare, che veniva data per scontata. Non intendendo redimermi, fui “gentilmente” accompagnato alla porta.
Sorte non troppo diversa capii che mi sarebbe stata riservata anche in altri contesti, tanto da persone praticanti, particolarmente se legate alla vita parrocchiale, quanto dai non praticanti: facessi pure quel che volevo, ma tenendolo per me, senza importunare. Sapevo che per molti Bergoglio rappresentava un punto fermo, ma non pensavo che fosse tanto imprescindibile da non dover talvolta potersi mettere in discussione. Così sembra non essere: la chiesa uscita dal Vaticano II offre soluzioni comode per tutti, tace sul peccato e anzi, con Bergoglio, lo innalza a virtù, ma nello stesso tempo toglie ai fedeli i mezzi per meglio conoscere e vivere la propria fede che, in qualche caso, potrebbe portare a rotte di collisione con i poteri del mondo.
Ho sofferto a lungo per queste cose, finché non mi sono reso conto che, allo stato attuale, forse la sola cosa che conta è una testimonianza portata nell’umiltà di chi ha scelto di mettere Dio sopra ogni cosa, difficoltà, problemi, ma anche agi e opportunità. E non lo nascondo: già questo è un lavoraccio, almeno per chi, come me, era stato a lungo abituato al compromesso.
Mi scuso per la lunghezza e per l’inconcludenza di alcuni passaggi. Sono solo un camionista, affezionato lettore del blog Duc in altum, che da molti anni ha perso confidenza con l’uso della penna. Le riflessioni che qui ho proposto sono alcune di quelle che faccio tra me e me durante le trasferte più lunghe.