Ricordo / Quelle due ore con il cardinale Ratzinger. Per conto di Montanelli
Anni Ottanta del secolo scorso. Il cardinale bavarese Joseph Ratzinger, incoercibile prefetto dell’ex Sant’Uffizio (divenuto Congregazione per la dottrina della fede), riceve, su mandato di Indro Montanelli, il giornalista Giorgio Torelli del Giornale. Che molti anni dopo, sulla Gazzetta di Parma, ricorda così quel singolare incontro.
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di Giorgio Torelli
Approdato a Roma con un jet del primo mattino, avrei incontrato, conosciuto e ammirato dal vero l’allora cardinale Joseph Ratzinger nel severo palazzo del già Sant’Uffizio, divenuto – Lui stesso governandone le diritture – Congregazione per la Dottrina della Fede. Freddino e trasparente l’Inverno romano visto dalle superne finestre di un salone pontificio, dove Sua Eminenza ed io – soli per quasi due ore – dialogammo, delineandosi una franchezza quasi confidenziale. Per accettare l’incontro, l’Eminente, quell’oggi in semplice talare senza neppure uno sprazzo di porpora, aveva desiderato procurarsi un’idea dell’inviato del Giornale, sfogliando un mio libro per accorta sollecitudine del mallevadore di gran nome, molto autorevole nella Santa Sede. Lui stesso, amichevolmente, aveva tessuto la possibilità della lunga conversazione, altrettanto auspicata da Montanelli, fondatore e direttore del quotidiano di battaglia, nato dalla sua rivalsa verso il Corriere, troppo ideologicamente sterzato. Era con Indro che, dalla fondazione de Il Giornale, facevo l’inviato, il columnist e il ritrattista. E l’esclusivo rendez-vous con l’austero eppur sorridente Ratzinger stava a cuore anche a Montanelli, mai veramente remoto dalla fede segretamente desiderata e tuttavia mai veramente cercata, non per impulso ma per verifica. Indro era persuaso della papabilità di Ratzinger. Al dialogo, avremmo dedicato un’intera pagina. A me, tenerne il ritmo. Quadrilatero il cortile dell’accigliato palazzo, dove il cardinale era giunto da casa, camminando a passo svelto e reggendo una borsa avvocatizia di documenti. Viveva con la sorella Maria ed era appena rientrato da New York. Su invito dei luterani, tra insulti, ovazioni, proteste quasi violente e interminabili applausi, aveva preso la parola nella chiesa di San Pietro, dentro l’informatica Manhattan. Ascoltandolo, uno scrittore l’aveva definito “Mai aggressivo, senz’altro inflessibile e tuttavia blando, diplomatico, buono e senza dichiarazioni di guerra”.
Nella sala pontificia, dove l’attendevo, si schiuse la porta imbottita e foderata in scarlatto. Ecco il cardinale che porge la mano. La stringo e vedo i capelli bianchi di un coetaneo, nato bavarese il 16 aprile 1927. Gli occhi professionali m’indagano, senza tirare conclusioni affrettate. So di star passando l’esame di ammissione. È senz’altro singolare che chi deve tenere il polso della Chiesa cattolica stia ricevendo un giornalista senza che il tema del parlarsi abbia avuto un preventivo costrutto. Ratzinger siede su un divano rococò rosso e oro, ogni quando carezzandosi la croce pettorale. E a me viene assegnata una poltrona da ritratto episcopale. Il tappetto sussurra arabeschi e un orologio da consolle farà il controcanto in pillole argentine alla bronzea metrica delle vicinissime campane di San Pietro. Dal recinto di un quadro d’epoca, un san Francesco in saio bigio figge lo sguardo al cielo. Nel chiuso del palazzo, ho facoltà di dire quel che mi venga.
Esordisco: “Signor cardinale, ognuno che sia famoso vive con un’etichetta in questa stessa Roma. Per dire, il ministro Andreotti è il diavolo con le orecchie a punta (l’Eminenza lascia slacciarsi il tollerante sorriso di un attimo), mentre lei è diventato il cerbero germanico della Chiesa, il mastino restauratore col collare a punte d’acciaio. Che ne è del giovane teologo d’avanguardia – l’allora don Ratzinger – che scosse il Concilio Vaticano II con l’audacia delle sue interpretazioni?”.
Non fa una piega. E si appresta ad accompagnare le tornite proposizioni con il gestire della mano destra, quasi a rilegare d’aria le parole. Precisa: “Avevo una funzione diversa, al Concilio. Ero professore nella diocesi del cardinale di Colonia, educavo i suoi giovani preti. Il cardinale Frings cercava il mio pensiero. L’ho dunque aiutato con opinioni che, in quel tempo, potevano apparire avanguardiste. Non mi attenevo alla linea neoscolastica. Ero piuttosto ispirato dallo studio della Scrittura e dai Padri della Chiesa. Intendevo rendere presenti tutte le possibilità che offre la grande tradizione a chi viva il momento di oggi e le sfide che ci sono lanciate”. Avevano ragione a New York. L’Eminente Joseph non fa sconti, ma sofficemente. Si espone con suadenza. Sembra proporre, non codificare. Ma l’occhio è sempre lì, con il fucile a cannocchiale. Ti tiene sotto tiro, vieni ingigantito, intuisco che l’alzo è regolato.
Incalzo: “E oggi, signor prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede?”. Riparte la voce: “Oggi, il mio compito è di essere custode della fede. E penso che anche quella del custode sia una funzione necessaria. Abbiamo un immenso tesoro da difendere. Lo si deve sviluppare, mai seppellire. Preoccupandoci, però – lei conviene, non è vero? – che il bene ricevuto della Rivelazione non venga mai falsificato. In questo senso, le mie intenzioni e il mio impegno sono gli stessi degli anni del Concilio”.
Ritocco: “Cioè, Eminenza?”. Joseph: “Aiutare l’uomo d’oggi a vedere e comprendere la grande possibilità di una vita veramente umana per come ce la offre il Vangelo”. Aggiungo: “Davvero Lei crede, signor cardinale, che l’uomo d’oggi voglia farsi aiutare? O non pensa, piuttosto, che i cattolici siano accerchiati, tenuti a bada e stimati guastafeste?”. Dispiega mentalmente la carta delle operazioni: “La situazione ha aspetti molto diversi. Le persone che hanno fatto la completa esperienza di una vita atea sentono anche il vuoto di un’esistenza a cui Dio non parla più. E avvertono il desiderio di nuove risposte. Colgo di continuo questa sete di risposte soddisfacenti, specie nella nostra generazione”. Temo di non aver capito bene: “Ha detto ‘nostra generazione’, Eminenza?”. Ribadisce didattico: “L’ho detto. È così. Nel mondo tecnico ed economico c’è sete d’infinito, c’è ansia di certezze che vadano oltre – per così dire – l’ideologia borghese. Ammetto, però, che si è distesa un’aria di sospetto contro il cattolico com’è. E contro la Chiesa com’è”.
Indago: “Quale sospetto?”. Joseph: “Il sospetto che forse, alle origini, il nostro era un grande messaggio. E che poi, nella istituzione, tutto è stato macinato. Nostro compito sarebbe spalancare l’istituzione. E far capire che la Chiesa rimane la fonte da dove può sprizzare l’acqua fresca della verità”.
E parliamo, parliamo. Di tutto e anche di più. Mentre mi pare che, animandosi, sia pure col filtro, l’appassionata indole bavarese del cardinale, figlio di un sottufficiale dei gendarmi e di una cuoca, prevalga sulla prudente metrica curiale. Il suo schioppo da Schütze si abbassa. Intuisco che, lentamente, mentre gli orologi storici delle consolles sgretolano i quarti d’ora, si instauri tra un cattolico di fila arrivato in aereo e uno stanziale cattolico di Nomenclatura (a cui devono tremare le vene ai polsi per l’onore fatto a croce che gli tocca) un parlare amabile da concittadini del Regno. Dico schietto: “Si afferma che falliremo”. L’Eminente mi corregge: “È una tentazione. Se vediamo i risultati delle nostre attività, ci domandiamo ‘Come potremo mai contagiare il mondo?’. Mi creda: mettiamo troppo l’accento sulle pianificazioni. La fede non risulta da strutture. È sempre un avvenimento fresco tra persone. C’è la forza dello Spirito Santo”.
E via e ancora via, dicendo e dicendo, chiedendo e rispondendo. Guardo bene quest’uomo di sessantun anni, che guadagna poco più di due milioni al mese, offrendo ai poveri i diritti d’autore dei suoi libri, vivendo alla buona con la sorella nubile e pagando al Vaticano l’affitto dell’appartamento. È stato cooptato ai vertici per mente, carattere, cultura, coscienza, stile. Penso a chi sarebbe il doktor Ratzinger nell’industria, nella finanza, nella politica, se avesse scelto di parteciparvi. Rifletto sul successo laico di cui potrebbe far sfoggio. Non credo che le potenze di questo mondo allineino molti uomini di punta superiori a un dimesso Ratzinger. Chi lo vede giornalmente da vicino è garante della sua statura. E tuttavia, ecco il pensatore poliglotta compromettersi senza riserve col Vangelo. Ed esprimersi in parole mai spoglie dello Spirito Santo, che non si vede, ma si evoca per sottomettergli ogni intento e confidargli le speranze. Sembra non aver mai fine tutto quel che dal repertorio della saggezza consacrata mi vien detto e quasi rivelato. Ben altro che una pagina di giornale mi gioverebbe per riferirlo così come mi affascina ascoltandone il richiamo.
Mi seduce il particolare che un siffatto protagonista di vertice dell’Annuncio, la sera, tranquillo in casa, sieda al pianoforte con il gatto sulle ginocchia e interpreti Mozart. Su quel nostro scorrere di parole, ecco un bel momento imporsi il tremor delle vetrate. Era ormai mezzogiorno romano e, per tradizione quotidiana, una salve di cannone lo segnala dal Gianicolo, incoraggiando il dindondan di tutti i campanili di Roma Caput Mundi.
Ma tu guarda. Quanto del suo tempo evangelico il porporato Joseph ha dedicato a un giornalista dell’altrettanto porporato, ma laico, Montanelli di Fucecchio. Propongo, permettendomelo: “Eminenza, vorrei recitare l’Angelus insieme a lei”. Come lo ricordo: aveva abbozzato la finta di stupirsene, rilasciandomi un diploma recitato con l’accento germanico: “Oooh! Un ciornalista feramente katolico!”. E con la mano, dove balenava l’anello episcopale, era parso arginare la mia impudenza, mentre scandivo: “E mi permetta, Eminenza: oggi, ho avuto il privilegio di accertare che ci sono ancora cardinali che credono in Dio”. “Ah! Kvesta è krossa!”, balenò, concedendomi l’indulgenza plenaria di un fraterno quanto paterno sorriso. Ci salutammo così.
Dialogando, l’avevo anche immaginato soldato diciottenne della Wehrmacht, quando negli ultimi mesi di guerra portava l’elmetto nibelungo e il cinturone, proprio lui futuro Papa, con la scritta blasfema di hitleriano sussiego: “Gott mit uns“, Dio è con noi. Gli avevo chiesto: “Eminenza, toccò anche a lei tenere infilata negli stivali quelle bombe a manico di lancio per essere prontamente scagliate con destrezza?”. Aveva confermato, ripensandosi prigioniero degli Americani, là dove, a recinti spinati da gregge, i vinti erano ammassati dai vincitori, sapeva ben Dio ignari che a una di quelle uniformi si sarebbe sovrapposto l’augusto mantello di Papa regnante.
Non avrei più rivisto il cardinale che, in coscienza, sopraffatto dal logorio del papato, quel certo giorno che sappiamo tutti, se ne spogliò, a suo avviso per il bene stesso della Chiesa di Cristo. Nel televisore di casa (anche il video sicuramente frastornato per quanto doveva trasmettere) ci accorò vedere Joseph esercitare il nuovo diritto di appartarsi nella fedeltà. Si argentò l’elicottero di papa Joseph rinunziante mentre sorvolava nell’addio senza ritorno i ruderi del Colosseo.
Fonte: La Gazzetta di Parma, 2 gennaio 2023