di Alessandra Alessandrini
Gentile Aldo Maria Valli,
mentre le scrivo mi fa compagnia un’immagine di Papa Benedetto XVI.
Posto di profilo e con le mani giunte, sorride con quell’espressione che spesso ha accompagnato il suo pontificato; la stessa che, seppur definita dai media poco empatica, toccava e scrutava i cuori di chi sapeva leggere in quello sguardo una profonda paternità.
Sono passati solo dieci giorni da quel funerale. Ed io, come tanti, ero lì, nella fitta nebbia che ha colto di sorpresa la Città Eterna.
Nonostante sia trascorso poco tempo, nel mio cuore sento ancora il bisogno di far decantare quanto abbiamo vissuto: il disorientamento di una liturgia che si percepiva “improvvisata”, confusa, contaminata e a tratti contraddittoria, figlia di una Chiesa che ha manifestato la sua amnesia già decenni fa, ma che lo scorso 5 gennaio si è palesata con una sfrontatezza disarmante.
Una Chiesa che, a mio avviso, si è declinata in quella piazza con due “eserciti”: uno caratterizzato da chi teneva tra le mani il proprio smartphone in preda all’ansia di registrare ogni singolo istante con video, foto, dirette Facebook, videochiamate con parenti lontani che erano ancora in pigiama, storie Instagram e selfie all’ultimo grido; e un altro che, alla Babele circostante, preferiva il silenzio dei sacerdoti in talare e il Santo Rosario sfoderato e afferrato dai fedeli come unica arma contro il caos dilagante.
“Che significato diamo al sacrificio di Cristo? E, quindi, che senso diamo alla morte di un uomo che, checché se ne dica, è stato un grande Papa?”
Queste erano alcune delle domande che mi attraversavano mentre vedevo l’alternarsi di quei due mondi e che, immediatamente, hanno rispolverato vecchi ricordi datati aprile 2005.
Ero adolescente quando, partendo dal mio paesino di provincia, con alcuni amici prendemmo il treno dalla stazione di Carsoli per arrivare a Roma, desiderosi di far visita alla salma di Giovanni Paolo II.
Di quella giornata non ricordo solo il caldo e l’interminabile folla che dominava ogni angolo della Capitale, ma anche la semplicità con cui, rimanendo sotto al sole rovente in attesa di entrare a San Pietro, ci unimmo alle preghiere che venivano intonate dalle persone a noi vicine e che pian pianino, come un piccolo ruscello di montagna che scendendo a valle dilata i propri argini, si estesero a macchia d’olio e animarono la piazza. Inoltre, non posso dimenticare il senso di unità che, iscrivendosi nei nostri cuori, respirammo durante il ritorno a casa e nei mesi successivi: un’unità non poliedrica e multiforme, ma vera, solida, che mette ordine e che non confonde poiché porta un solo volto, quello di Cristo e non del mondo.
Questa fotografia in bianco e nero si faceva spazio in me con un dispiacere e una nostalgia ancor più tangibili proprio mentre ascoltavo l’omelia di Papa Francesco.
In quel momento mi sono sentita vuota, liquida, senza radici, disorientata, sola, orfana; come se la nebbia che investiva l’immensa cupola di San Pietro fosse, in realtà, non solo lo specchio del mio cuore, ma anche degli sguardi silenziosi che io e i miei amici ci scambiavamo, speranzosi che il tutto avrebbe preso una piega diversa, forse più solenne.
In effetti, un raggio di sole ci fu, ma solo qualche ora dopo, quando un caro amico, sacerdote in talare ci ha chiamato invitandoci a pranzare con lui e altri due presbiteri nella trattoria bavarese dove spesso andava il cardinal Ratzinger.
Che balsamo al cuore entrare in quel luogo e vederne la clientela: in ogni tavolo c’erano gruppi di giovani e di adulti con almeno tre preti in talare, tra cui anche un vescovo e un cardinale.
Lì ho finalmente respirato quel “piccolo resto” che, nonostante la sofferenza della triste circostanza, è stato in grado di trasformare il disorientamento interiore e la nebbia fitta della mattina in un accogliente focolare dove il cibo che arrivava caldo sulla tavola veniva benedetto in italiano, in spagnolo, in inglese, in tedesco o in polacco, facendo memoria della Bellezza della vita e della morte vissute con Cristo.
È grazie a quel momento di profonda condivisione che il ritorno a Verona è stato traghettato dalla consapevolezza più matura che la Chiesa, anche se sembra abbia perso la tradizione dei Padri, sta già ripartendo dalla semplicità di una lotta silenziosa, orante; proprio come fecero in Vandea nel XVIII secolo.
Una consapevolezza, la mia e quella di molti altri cattolici, che mi permette di affiancare al ricordo di quel lontano aprile 2005 un’immagine dai colori vividi raffigurante un gruppo di amici con la corona del Rosario in tasca e con tre sacerdoti in talare, con su scritto “Roma, 5 gennaio 2023. Grazie Benedetto XVI”.
Questa è la Chiesa eterna, davanti alla quale gli inferi non prevarranno.
Caro Benedetto, so che adesso dal Purgatorio o dal Paradiso stai già intercedendo per questa schiera di fedeli che sta chiedendo al Signore la grazia di una fede coraggiosa, capace di lottare per la Verità, nunc et semper.
Benedetto XVI, ora pro nobis.