Lettera / Sul dovere di ricordare gli italiani deportati per lavorare nelle fabbriche naziste

Caro Valli,

il 27 gennaio, giorno della memoria, abbiamo commemorato le vittime dell’olocausto. Mi lasci dire però che secondo me dovremmo fare qualcosa per ricordare tutte le vittime della guerra, in particolare i tanti italiani che dopo l’8 settembre furono rastrellati e deportati in Germania per lavorare come schiavi nell’industria bellica del Terzo Reich.

Uno dei deportati fu mio padre. Appena arruolato dall’esercito, fu prelevato e portato via. Viaggiò con altri disgraziati sui treni merci, subendo un trattamento non molto diverso da quello degli ebrei: violenza, gelo, fame, zero igiene.

Mio padre non parlò mai apertamente di quel periodo. Il dolore e le atrocità subite lo spinsero al silenzio e al consumo di alcol. Si salvò in modo rocambolesco perché era giovane e sano. Ma quando una volta mi mostrò il suo tesserino non lo riconobbi in quel giovane dal viso scavato e con gli occhi di fuori.

Quanti hanno fatto questa esperienza disumana! Quanti sono morti! Di questi fantasmi però, a quanto mi risulta, quasi nessuno parla, ed è per questo che mi sembra giusto ricordarli.

Vedendo i demoni che attanagliavano mio padre, e che lo spingevano a rifugiarsi nell’alcol, ho capito che la guerra è il male e non termina con la fine dei combattimenti. Dura molto più a lungo. Produce lutti e pianti che si prolungano nel tempo. Il male che la guerra porta con sé si trasmette alle generazioni successive.

Mio padre non si riprese mai da quell’esperienza traumatica. Gli ho voluto un gran bene, ma non posso nascondere la sua assenza in famiglia, con tutte le conseguenze che ne derivarono.

Daniele

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