Dibattito / Sulla Babele cattolica. E la necessità di ripensare tutto ciò che è uscito dal Vaticano II
di don Mattia Tanel
Gentile Valli,
un dibattito sull’ingannevole fascinazione esercitata su troppi cattolici dalla sedicente “ortodossia” orientale è in sé buono e opportuno, data la tentazione reale, per molti nostri fratelli nella fede, di “farla finita” con l’unica Chiesa fondata da Gesù Cristo facendosi seguaci di un’antica empietà quale quella di Fozio e di Michele Cerulario.
È sufficiente, però, esaminare alla luce della dottrina cattolica tradizionale la maggior parte dei contributi apparsi su Duc in altum negli ultimi giorni per comprendere che nessuna opera chiarificatrice può essere utilmente svolta se non andando alle radici della crisi dottrinale che la Chiesa di Cristo, che è la (e non “sussiste nella”) Chiesa cattolica una ed indivisa in se stessa, sta vivendo.
Confesso di aver sperimentato, nel leggere i contributi di Gulisano, Ghirardi e altri, una sensazione di sgomento. Rispetto all’approssimazione che traspare da tali interventi, come rispetto all’incapacità di distinguere tra aspetto oggettivo e aspetto soggettivo dell’appartenenza a una confessione eretica e scismatica (per cui sì, un C.S. Lewis è stato eretico e scismatico e come tale va considerato, benché non sia illecito sperare nella sua buona fede e quindi nella sua salvezza), viene voglia di abbandonare il dibattito e rifugiarsi sul serio, come il povero Alessandro Gnocchi al quale invece nessuna “salvifica” ignoranza può essere riconosciuta, in qualche ideale monastero dove ritrovare una pace del cuore tutta e solo soggettiva.
Gli incessanti scandali dottrinali propalati nella Chiesa cattolica dai settàri che ne occupano attualmente i vertici, la prassi liturgica e pastorale conseguente a 60 anni di sfacelo postconciliare, le dissensioni profonde tra gli stessi cattolici che a tale sfacelo desiderebbero porre rimedio, costituiscono davvero quel “dilagare dell’iniquità” a causa del quale “si raffredderà l’amore di molti” (Mt 24,12), propiziando le forme più gravi di defezione come appunto il passaggio all’eresia e allo scisma orientale, o almeno quel fondamentale indifferentismo religioso di “cattolici” che di tali defezioni più non si preoccupano. Né sembra possibile, in un contesto simile, percepire con San Giosafat l’urgenza dell’apostolato esercitato nei confronti di quei cristiani che sono, sì, nati senza colpa nell’errore, ma che non possono perseverare in esso senza che la loro salvezza sia dubbia: la buona fede iniziale può essere, infatti, persa con un semplice atto di consapevolezza.
È opportuno e doveroso sottolineare le incongruenze e le infedeltà al Vangelo e alla Tradizione apostolica presenti nella teologia e nella prassi “ortodossa”, come ha fatto su Duc in altum don Andrea Mancinella con particolare riferimento, nell’ultimo suo contributo, al secolare divorzismo di questi eredi spirituali del fariseismo giudaico, i quali nell’ormai più che millenaria polemica con i “latini” hanno sempre ostentato un’apparenza di rigore su aspetti disciplinari secondari quando non del tutto futili per spesso tradire esigenze ben più sostanziali della dottrina e della morale evangelica.
Tuttavia, come accennavo, ogni discorso apologetico mostrerebbe le corde se, da parte nostra, non avessimo il coraggio di affondare la scure nella nostra stessa carne. La situazione reale della Chiesa cattolica, la mancanza di una chiara reazione pubblica da parte dei membri della Gerarchia a tutti i livelli agli errori dottrinali e morali e alle aberrazioni liturgiche e disciplinari presenti nel cattolicesimo attuale, e non da ultimo l’assenza di una diffusa tensione ascetica e spirituale nei fedeli e nei sacerdoti cattolici almeno in Occidente, fanno sì che ogni discorso chiarificatore rischi di collassare di fronte alla contraddizione che la dottrina e la prassi reali – ripeto – della Chiesa cattolica di oggi offrono allo sguardo di qualsiasi osservatore, tanto interno che esterno.
Mi limito a sottolineare in questo breve contributo, che intende integrare la pur giusta prospettiva di don Mancinella sul divorzismo bizantino, la contraddizione presente a livello della prassi matrimoniale “cattolica” degli ultimi decenni. Mi riferisco a quello che – ben prima di Amoris laetitia – è il divorzismo paludato che Giovanni Paolo II ha introdotto nel cattolicesimo attraverso la riforma dei processi di nullità matrimoniale avvenuta soprattutto con il canone 1095 del Codice di Diritto Canonico del 1983.
Con tale canone, privo di precedenti nella legislazione canonica e oggettivamente incompatibile con lo stesso diritto naturale, il Papa polacco ha aggirato il problema rappresentato dal dogma dell’indissolubilità matrimoniale (principio che è stato da lui stesso, a parole, strenuamente mantenuto) introducendo per la dichiarazione di nullità motivazioni talmente vaghe e inconsistenti da rendere possibile la dissoluzione di (quasi) tutti i matrimoni sacramentali per i quali venga presentata istanza, appunto, di nullità.
Il canone 1095 è stato negli ultimi trent’anni quel “passe-partout” che ha consentito e consente, in un’infinità di casi, di dichiarare nulli matrimoni sacramentali perfettamente validi di fronte a Dio.
Potrà non sembrare “opportuno” metterlo nero su bianco, ma abbiamo ormai tutti capito che buona parte di queste nullità sono in realtà divorzi. Così come abbiamo tutti capito che buona parte dei nuovi matrimoni religiosi che ne conseguono sono adultèri legalizzati, per quanto a tale riguardo la responsabilità morale non ricada presumibilmente sui nuovi “coniugi” ma sui loro ingannatori in clergyman.
La mentalità divorzista ingenerata nei fedeli dall’estrema facilità di eludere l’indissolubilità del vincolo matrimoniale per cause fittizie come “immaturità” e simili è certamente uno degli scandali più gravi di cui i Pontefici e la Gerarchia post-conciliari dovranno rispondere a Dio, oltre a rappresentare il necessario preludio all’evacuazione esplicita degli obblighi connessi all’indissolubilità matrimoniale operata da Papa Francesco con Amoris laetitia.
Il divorzismo appare in questa luce come una delle manifestazioni perenni del corrompersi della fede cristiana, e fa il paio in ciò con l’insofferenza verso il celibato sacerdotale. Possiamo persino apprezzare in tale dinamica una scheggia di mistero. Quando la fedeltà della Chiesa-Sposa verso Cristo-Sposo scompare o diminuisce, anche le fedeltà particolari vengono meno: la fedeltà (e la fecondità) degli sposi cristiani, la fedeltà dei sacerdoti al loro amore esclusivo alle anime.
Avviene così che proprio il divorzismo, piaga storica della sedicente ortodossia orientale, pur nell’indifferenza generale rappresenti una delle molteplici e “necessarie” linee di continuità che uniscono i Pontificati di Wojtyla-Ratzinger a quello di Papa Francesco, al quale va riconosciuto almeno il pregio di non procedere larvatamente come i suoi predecessori nella sua opera di distruzione del cattolicesimo.
Solo la Fraternità San Pio X, che io sappia, avverte apertamente i fedeli del pericolo di inganno rappresentato dagli attuali processi di nullità matrimoniali. Sarebbe auspicabile che a tale flebile voce se ne aggiungessero altre: a meno che Vescovi e Cardinali “conservatori” non si pongano come ideale da riconquistare lo status quo ante Bergoglio, cioè una situazione di totale devastazione della fede, della dottrina e della disciplina ecclesiastica.
Concludo ribadendo ciò che notavo all’inizio: nell’agostiniana regio dissimilitudinis offerta ai nostri occhi dallo stato attuale della Santa Chiesa, nessuna apologia della fede cattolica risulta più possibile e credibile – anche nei confronti degli stessi eretici e scismatici orientali, che sono anime da conquistare alla Verità piena – se non a partire da un ripensamento sistematico della dottrina, della disciplina e della liturgia scaturite dal tragico Concilio ecumenico Vaticano II e dai devastanti pontificati che lo hanno seguito.
O questo, o la “Babele cattolica” di cui persino il nostro dibattito è, a suo modo e nel suo piccolo, una sconvolgente testimonianza. Una Babele in cui alcuni plaudono francamente allo scisma o alla scelta scismatica di un ex cattolico, mentre tra i loro avversatori qualcuno afferma senza ambagi di cooperare formalmente con l’identico scisma versando ad esso l’8×1000. Un dibattito in cui molti si rifanno alla disgiunzione conciliare (resa ancora più esplicita nella Dominus Iesus) tra “Chiesa di Cristo” e “Chiesa cattolica”, senza apparentemente rendersi conto che è proprio tale disgiunzione a rendere impensabile la nozione e il peccato stesso di scisma, mentre “la voce del buon senso” si trova in buona parte rappresentata da don Francesco Ricossa, il quale appoggia il proprio sedevacantismo a sua volta scismatico su una concezione dell’infallibilità papale respinta un secolo e mezzo fa dal Concilio Vaticano I.
1962-1965: “Là il Signore confuse la lingua di tutta la terra e di là il Signore li disperse su tutta la terra”.
Che nella terra di Dio, la Santa Chiesa cattolica, si torni a parlare “una sola lingua e le stesse parole”.