Radaelli / “Vi spiego il modernismo di Ratzinger. E perché bisogna guardarlo in faccia”
Cari amici di Duc in altum, torna a scrivere Enrico Maria Radaelli. E torna con il suo stile, che certamente non è né morbido né accomodante. Si tratta anzi di un contributo che sostiene tesi forti, in modo assai tranchant. Se il blog lo sottopone alla vostra attenzione non è per fomentare polemiche (come se non ce ne fossero già a sufficienza) ma per fornire elementi di valutazione. Ogni volta che pubblico scritti di Radaelli ricevo poi attacchi durissimi, i quali però sono sempre sotto forma di affermazioni apodittiche. Non chiedo di non criticare Radaelli. Chiedo di farlo opponendo alle sue argomentazioni altre argomentazioni.
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Manifesto per il trionfo del Vangelo di Cristo. L’errore sostanziale è la sola e unica causa d’invalidità della rinuncia di Benedetto XVI. Dunque va condannato. Cosa aspettate?
di Enrico Maria Radaelli
Dico a voi chierici, dico a voi vescovi, dico a voi arcivescovi, dico a voi prefetti e dico infine a voi, eminentissimi cardinali di Santa Romana Chiesa, sì: cosa aspettate? Siete tutti modernisti come fu tragicamente modernista l’ultimo Papa di Santa Romana Chiesa, disgraziatamente spirato il 31 gennaio 2022 senza che nessuno abbia mai avuto modo di convincerlo dei gravi errori abbracciati e poi tenuti per tutta la sua lunga vita?
Il modernismo di Ratzinger: un errore di gioventù?
Quando, ancora nel 2018, tentai per la seconda volta di far avere a Benedetto XVI il mio Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro, che tanto da vicino e tanto gravemente lo riguardava, rilevando nell’insegnamento da lui dato fin dal 1967-68, ossia fin dall’epoca della sua docenza all’Università di Tubinga, quello che a mio avviso si appalesava come un grave, pericolosissimo, ma anche purtroppo nascostissimo allontanamento dalla dottrina cattolica, monsignor Georg Gänswein mi fece sapere, in un bigliettino, che le pagine scritte dal professor monsignor Joseph Aloisius Ratzinger in quel tempo lontano, intitolate Introduzione al cristianesimo, erano da considerarsi ormai semplici “errori di gioventù” di un serio e rigoroso Pastore poi rinsavito dal Modernismo. Dunque era inutile che tanto mi dannassi per riportare il suo Superiore sui binari dell’ortodossia, giacché vi ci si era già rimesso da solo, se pur se ne fosse allontanato. Cosa, a suo dire, tutta da dimostrare.
Ma questa opinione, oggi largamente diffusa, partecipata sia da studiosi come Estefania Acosta, Alexis Bugnolo, Andrea Cionci, Roberto de Mattei, Stefano Fontana, don Alessandro Maria Minutella, Alberto Paura, John Salza, Robert Siscoe, Stefano Violi e tanti altri, come pure dalla schiacciante maggioranza degli anche più eminenti Ecclesiastici, tranne pochi ed eroici Vescovi come René Henry Gracida e Jan Pawel Lenga, è stata in almeno cinque occasioni decisamente smentita dallo stesso Joseph Aloisius Ratzinger.
In primo luogo perché Joseph Aloisius Ratzinger non ha mai fatto ritirare quel suo molto ereticale libro che si è detto dalle librerie di tutto il mondo, dove è tutt’ora venduto come uno dei più solidi long seller a impianto dottrinale. Ora, un cattolico che si rispetti, anzi un professore di Teologia fondamentale, e anche monsignore, e persino ex perito conciliare al seguito del cardinale primate di Germania, la prima cosa che fa allorché si rende poi conto di aver insegnato e propalato dottrine eretiche, o perlomeno pericolose e prossime all’eresia, è far ritirare ogni propria pubblicazione in cui vengono espresse tali dottrine nocive, e ciò compiere anche accompagnando la cosa con pubbliche e chiare manifestazioni di pentimento e di biasimo per il peccaminoso, scandaloso e grave operato fin lì compiuto. Ora, tutto ciò il futuro Papa Ratzinger non l’ha mai fatto. E non l’ha mai fatto perché non si è mai pentito degli insegnamenti che cominciò a somministrare al mondo cinquant’anni fa.
E il finissimo professore di Teologia fondamentale non se ne è mai pentito perché in quei tumultuosi anni di Tubinga si era inventato un palindromo “salvavita” che più perfettamente e innocentemente hegeliano non avrebbe potuto. Eccolo: Se il credente può vivere la sua fede unicamente e sempre librandosi sull’oceano del nulla, della tentazione e del dubbio, trovandosi assegnato il mare dell’incertezza come unico luogo possibile della sua fede, però, reciprocamente, nemmeno l’incredulo va immaginato immune dal processo dialettico, ossia come semplicemente una persona priva di fed » (Introduzione al cristianesimo, p. 37), sintetizzato poi dal molto più spiccio cardinal Martini nella celebre formula: «Ciascuno di noi ha in sé un credente e un non-credente, che si interrogano a vicenda», sicché: cos’hanno mai da pentirsi un bravo cristiano che avrebbe in sé un perfetto non-cristiano o un altrettanto bravo non-cristiano che avrebbe in sé un egualmente perfetto cristiano, che per giunta si interrogherebbero a vicenda? Nulla hanno da pentirsi, assolutamente nulla, perché non poteva esservi esclusione più perfetta del male che metterlo nel cuore del bene, e viceversa, in un’infinita ribaltante e ribaltata hegeliana matrioska, pronta a invertirsi nel proprio opposto, secondo le necessità, come si ribalta il celebre modulo tesi-antitesi-sintesi.
Ora, così stando le cose, non si può affatto concludere che il Nostro se ne sia mai pentito. E qui veniamo infatti alla seconda occasione, e poi, a seguire, a tutte le altre.
In secondo luogo perché nel 2000, già da tempo in veste di cardinale prefetto della sacra Congregazione per la dottrina della fede, l’eminentissimo chierico, lungi da intenzioni di ritrattazione o di abiura, anzi!, non si pentì affatto di vergare un Saggio introduttivo alla nuova edizione 2000 del libro, intitolando le trenta nuove paginette «Introduzione al Cristianesimo», ieri, oggi, domani, e si noti qui quanto il cardinale ci tenesse, con quei tre aggettivi temporali, specie col terzo, a segnalare che tutte quelle antiche sue paginette, da lui lì novellamente introdotte, saranno da accogliere per sempre, quasi eternizzandole, esplicitamente dichiarando poi, a p. 24, che «l’orientamento di fondo era, a mio avviso, corretto. Da qui il mio coraggio oggi di porre ancora una volta il libro nelle mani del lettore». Sufficit?
In terzo luogo, poi, perché nel 2016, quando Papa Benedetto XVI, ormai giunto, diciamo così, al “papato emerito”, rilasciando un’intervista a padre Jacques Servais s.j. per l’Osservatore Romano, dirà: «Quando Anselmo – il grande sant’Anselmo d’Aosta, vescovo di Canterbury, dottore della Chiesa – dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno», ossia difficilmente accettabile da lui, così delineando e nascostamente ribadendo la dorsale teologica della dottrina della Redenzione da lui elaborata ai tempi di Introduzione, una gentile, incruenta, amorevole Redenziuncola, per l’appunto assolutamente accettabile, essa sì, «dall’uomo moderno», ossia da lui stesso.
In quarto luogo, poi, perché nel 2019, dopo ormai più di cinquant’anni dalla stesura del libro, nei celebri Appunti pubblicati su Klerusblatt, Benedetto XVI darà mostra di meravigliarsi oltremodo per quanto venuto a sapere avvenisse in diversi seminari nordamericani: «Forse vale la pena – dice – accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco». E quali eran mai quei suoi libri «non idonei al sacerdozio» che «venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco», se non, in prima fila, proprio il suo ormai fin troppo celeberrimo Introduzione al cristianesimo?
In quinto luogo, infine, perché nel 2022, a pochi mesi dal suo finale Exitus che tutti attende, volle venisse preparato una specie di testamento spirituale, Che cos’è il cristianesimo, ora appena uscito, in cui (v. pp. 89-92) conferma la distanza del suo pensiero da quello che, a proposito di Redenzione, aveva cinquant’anni prima attribuito al povero sant’Anselmo, il quale santo dottore della Chiesa, in realtà, fu solo un ottimo sistematizzatore della dottrina insegnata da sempre sul centrale argomento dalla Chiesa di sempre, a cominciare dal Nuovo Testamento, come illustrato nel mio Al cuore di Ratzinger.
Davanti a tali insistite e ostinate prese di posizione a difesa di pagine decisamente, gravemente e scandalosamente ereticali – diciotto eresie, di cui quindici già anatemizzate, non sono un casuale e fortuito incidente di percorso –, c’è ancora qualcuno che vuole ostinarsi a parlare di “peccati di gioventù”?
Si chiede, e lo si chiede pressantemente: vogliamo guardarla in faccia, una buona volta, la realtà? Siamo tutti modernisti, qui?
Stando così le cose, a questo punto, allora, enuncerò parole di estrema gravità. Sì: lasciate che vi dica che la Chiesa che ci circonda, in larghissima maggioranza trasformatasi in Chiesa modernista, ossia in una Chiesa tragicamente, pervicacemente ereticale, anche grazie alla sinfonica e suadente dottrina modernista insegnata e propalata dall’amatissimo Joseph Ratzinger, è oggi una specie di Gran Marionetta nelle mani dei pupari del mondo cui la Chiesa stessa si è abbandonata con le decisioni prese dalla sciagurata maggioranza modernista dei suoi molto vili e traditori Pastori di sessant’anni fa.
Questa è la terrificante realtà che si è andata formando e che ci trasciniamo dal peccaminosissimo e mai abbastanza abiurato Concilio ecumenico Vaticano II, senza che i suoi Pastori più alti, e parlo dei suoi vescovi, cardinali e Papi, veri dissennati cinghiali scorazzanti nella Vigna del Signore, Vigna però del tutto felice di essere selvaggiamente abbrutita e distrutta da quei cinghiali, abbiano voluto vedere che in questi ultimi sventurati sessant’anni che ci separano dall’ereticale e infelice evento, i fili e i tiranti con cui veniva mossa e che tutt’ora muovono la misera Gran Marionetta son proprio loro e soltanto loro: sono i suoi monsignori, i suoi professori, i suoi vescovi, i suoi cardinali e i suoi Papi. Tutti, dal primo all’ultimo, tranne quelli che pubblicamente se ne son tirati fuori, per esempio, al tempo, l’eroico monsignor Marcel Lefebvre, e oggi l’altrettanto eroico monsignor René Henry Gracida, che ha anche redatto una potente Prefazione al mio libro, oltre al già detto monsignor Jan Pawel Lenga.
Dove vogliamo mettere il professor Ratzinger – Papa Benedetto? Fate voi. E che Dio abbia pietà di tutti noi! Ripeto: io ho tentato quattro volte, in tutti i modi, di avvicinarlo, essendo il mio primo obiettivo quello di farlo riflettere su ciò che ho ritenuto subito, in coscienza, essere la più perversa e pericolosa dottrina contro Cristo, l’ultima volta quattro mesi fa. Mi hanno sempre fermato, tutte e quattro le volte. Cosa potevo fare di più?
Ecco perché il munus non è e non può essere un ministerium e il ministerium non è e non può essere un munus
E ora veniamo a chiarire un punto decisivo: tutti i molti studiosi e altissimi chierici sopra nominati sostengono che Papa Benedetto non avrebbe mai rinunciato al munus, ma unicamente al ministerium, nella convinzione che per munus la Chiesa intenderebbe “essere Papa” e per ministerium intenderebbe invece “fare il Papa”, esercitare cioè il ruolo dato dal munus, di cui in ogni caso ministerium non potrebbe mai essere sinonimo.
Ora, dice l’Apostolo: «Se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anàtema » (Gal 1,8). Ossia: non c’è maggioranza che tenga: se si predica un vangelo diverso da quello originario, quel nuovo vangelo è anatemizzato senza pietà. Punto. È la parola che comanda, quella Parola discesa dal cielo e poi colà risalita, non il parlante umano: «se anche noi stessi» vuol dire “se anche la maggioranza più schiacciante della Chiesa, ovvero tutti noi quanti siamo!”. E chi sostiene che allorché un insegnamento è dato dalla maggioranza più schiacciante della Chiesa è infallibile e indefettibile, picchia senza pietà contro il qui presente Gal 1,8. Aripunto.
Infatti noi dobbiamo attenerci strettamente e unicamente al CIC, al Codex Iuris Canonici, il Codice che, con l’imprimatur del sigillo papale, dal 1917, poi con le opportune modifiche apportate da Giovanni Paolo II nel 1983, ha messo ordine nelle disposizioni canoniche che nei secoli precedenti governavano l’elezione papale.
Ora, cosa differenzia un Papa da un vescovo, cioè Pietro dagli altri apostoli? Ossia: cosa ha dato Gesù al solo Pietro e cosa invece a tutti gli apostoli, Pietro compreso, in quanto apostolo? Al solo Pietro Gesù ha dato il proprio specialissimo munus vicario, che è a dire il proprio specialissimo e universale potere legale, giurisprudenziale, di Dominus su tutto e su tutti; agli apostoli poi, Pietro compreso, ma solo in quanto anch’egli apostolo, il Signore, partecipandoli del proprio divino sacerdozio, ha dato il potere sacramentale, il ministerium in sacris, “nelle cose sacre”, che li ha abilitati a compiere miracoli come la transustanziazione e ogni altro miracolo capace di conferire i sacramenti: il carattere del battesimo, il perdono dei peccati e via dicendo, oltre poi a ogni altro compito sacro, quali l’insegnamento evangelico, la preghiera e il governo spirituale dei popoli.
Posto poi che anche tale potere sacramentale deve essere regolato in un insieme armonico e pacifico in quell’unico corpo che è la Chiesa, anche gli apostoli, e da essi poi i vescovi e ogni altro ordine sacerdotale, fedeli compresi, tale ministerium viene regolato da tre munera, plurale di munus: il munus regendi, il munus docendi e il munus sanctificandi, iniziali minuscole, che permettono ai loro possessori di compiere ogni cosa nell’ambito giurisprudenziale della Chiesa stabilito dal maiuscolo Munus dei Papi che legalmente si sono succeduti nella sua storia.
Ecco perché nei Canoni 331-5, inerenti al Romano Pontefice e alla sua somma potestà giurisdizionale, il CIC utilizza il termine Munus, che io maiuscolizzo per distinguerlo dalla potestà analoga esercitata dai vescovi, tenuta in minuscolo perché è alla prima soggiacente. Invece, allorché nei Canoni 232-64, inerenti ai ministri sacri, o chierici, il CIC si occupa dei loro poteri sacramentali, usa il termine ministerium, l’ufficio sacro che conferisce loro il potere in sacris, regolato dai tre anzidetti munera.
Dunque, il munus (maiuscolo e minuscolo che sia) e il ministerium, sono le due emanazioni dei due poteri di Nostro Signore: il primo è l’emanazione del suo potere giuridico di Rex, di Dominus, di Pantocrator; il secondo è l’emanazione del suo potere sacramentale di Sacerdos, di Agnus Dei, di Filius Patris obœdiens. Essi sono come due raggi, e non si possono assolutamente confondere tra loro, né tantomeno si può ritenere che l’uno sia “essere qualcuno” e l’altro sia il “fare di quel tal qualcuno”: niente di più errato!
Ciascuno di essi è, per dirla metafisicamente, un “essere in atto”, un “ente agente in quanto è proprio quell’ente”: Pietro, il portatore del Munus maiuscolo, è un Re, un Dominus, che regna su tutti i Principes/Sacerdotes del suo Regno, ciascuno dei quali, a propria volta, con i propri munera in minuscolo, governa sulla propria Diocesi, o Abbazia, rispondendo dei propri atti al Re, al Dominus; questi, però, per essere tale, dev’essere anche Sacerdos, il capo dei Sacerdotes, come Pietro era l’apostolo a capo degli apostoli, perché solo i Sacerdotes, gli apostoli, possono essere eletti Re, Dominus, allorché la Sede Romana viene a essere vacante, o per la morte del Re, o per la sua rinuncia, o per impedimento totale della Sede; se il Re, il Dominus, vuole rinunciare al proprio Munus di Re, depone la sua carica di Re, di Dominus, mantenendo ovviamente il suo status eterno di Sacerdos, di apostolo, di cui perde i tre munera, che decadono con la decadenza del suo scettro regale.
Domanda: dall’11 febbraio del 2013 la Santa Sede è stata o non è stata totalmente impedita?
E ora veniamo all’ipotesi della Sede impedita, realtà già verificatasi nella storia, se pur molto raramente. Per chi sostiene quest’ipotesi la differenza tra un Papa rinunciatario e un Papa impedito sarebbe che il primo rinuncerebbe al Munus, e con ciò perderebbe automaticamente il ministerium, mentre il secondo conserverebbe il Munus ma, a causa della prigionia cui sarebbe sottoposto, perderebbe il ministerium, cosa che sarebbe proprio ciò che, nell’ipotesi, sarebbe avvenuto a Benedetto XVI.
Ma non è così, perché il ministerium, a motivo del suo carattere sacramentale sopra visto, è e non può essere che eterno: una volta acquisito, non lo si perde più, e allorché un uomo viene eletto Papa, se non è stato ancora consacrato vescovo, e vescovo precisamente di Roma, deve venirne consacrato, acquisendo così non solo il sacro ministerium, ma precisamente quello sulla Chiesa di Roma e da lì governare la Chiesa universale.
Benedetto XVI non si è mai trovato in “Sede totalmente impedita” perché, nei suoi quasi dieci anni di rinuncia nulla, non solo ha ricevuto e ha comunicato con migliaia di persone, ma, anche ammettendo l’inverosimile ipotesi di una comunicazione cifrata, con tale accorgimento avrebbe comunque comunicato con l’esterno, entrambi fatti che però in ogni caso contrastano col Canone 412, il quale, a proposito della Sede vescovile – e la Santa Sede è in primo luogo una Sede vescovile –, precisa che si intende per “Sede totalmente impedita” quella Sede ove «il vescovo diocesano è totalmente impedito di esercitare l’ufficio pastorale nella sua diocesi a motivo di prigionia, confino, esilio o inabilità, non essendo in grado di comunicare nemmeno per lettera con i suoi diocesani ». Nemmeno per lettera! Altro che andirivieni di prelati, fedeli, intervistatori vari, biografi eccetera.
Certo, si può obiettare che, sotto minaccia di uccisione o sotto ricatto, si potrebbe essere costretti a fingere e dunque a comportarsi in pubblico come se si fosse liberi mentre non lo si è, sicché non si sta comunicando anche se, per esempio, si fosse costretti a inviare lettere ai diocesani. L’obiezione ci si augura che venga raccolta, così da elaborare dei Canoni che ne possano prevedere la soluzione. Tuttavia posso affermare con una certa sicurezza che nella storia della Chiesa nessuno studioso, a mia conoscenza, ha mai rilevato che sia avvenuto qualcosa che potesse suggerire si fosse realizzato qualcosa del genere.
L’impedimento totale invece fu inflitto per sempio al povero Papa san Ponziano, il quale, allorché, nel 335, per ordine dell’imperatore Massimino fu deportato nelle terrificanti miniere di Sardegna, e comprendendo che da quel momento non avrebbe più potuto governare la Chiesa, prima che avvenisse l’ineluttabile, come difatti avvenne, rinunciò al Munus, affinché si potesse nominare un nuovo Papa che potesse in tutta libertà prendere in mano il governo della Chiesa, tra l’altro in tempi di forte e feroce persecuzione, nei quali dunque tale necessità si faceva ancora più imperiosa.
Per avere una Sede totalmente impedita ci vuole dunque la prigionia, aut similia, come recita giustamente il CIC, e difatti i Papi Pio VII davanti ai soprusi di Napoleone e Pio XII davanti a quelli nazifascisti avevano preparato le loro brave Rinunce, se i già gravi eventi che li stringevano fossero precipitati in prigionia aut similia.
La tutta eretica invenzione di “Papa emerito”, frutto diretto dell’errore sostanziale di Benedetto XVI
A questo punto possiamo prendere in considerazione la questione del “Papa emerito”, questione con la quale il molto e molto absconditus modernista hegeliano Papa Benedetto XVI, anche se nessuno lo dice, anche se nessuno ne parla, va direttamente a picchiare contro le Leggi divine, contro la Norma normans su cui si fonda la Chiesa, nel nostro caso la Legge che nasce da Mt 16,18, che stabilisce che Pietro, il Papa, il Dominus vicario, è e sempre sarà uno e uno solo alla volta.
A tal proposito, è bene analizzare le due possibili opzioni in cui possiamo suddividere il significato da dare al termine “emerito”:
– la prima opzione, per il Devoto-Oli, è quella «di persona che, non esercitando più il proprio ufficio, ne gode tuttavia il grado e gli onori», e qui il dizionario menziona esplicitamente, tra i casi più esemplari, quello del «titolo conferito agli ecclesiastici usciti di carica con onore», e questo è infatti il significato con cui è stato utilizzato l’aggettivo “emerito” nel caso dei vescovi che, per raggiunti limiti d’età o per altre cause previste dal medesimo CIC, lasciano il governo della loro diocesi, o abbazia, o congregazione religiosa, quel governo permesso loro dai tre munera visti sopra, pur dovendo mantenere il ministerium eterno ricevuto con la loro consacrazione a chierici, e sottolineo dovendo, perché, come visto, il potere propriamente sacramentale, producendo esso il carattere sacerdotale, dunque miracolistico, del Cristo, produce qualcosa che nemmeno il peccato può cancellare; sicché essi possono essere a buon diritto chiamati “vescovi emeriti” con ciò sottintendendo “vescovi che, a causa del carattere sacramentale loro impresso, meritano di essere vescovi”, “vescovi che hanno il diritto di essere vescovi sempre per detto carattere”, “vescovi insigni (idem come sopra)”, “vescovi degni (idem come sopra)”, e persino vescovi per eccellenza (idem come sopra)”, giacché, pur avendo riconsegnato i tre munera del comando vescovile, in forza della loro consacrazione rimarranno vescovi in eterno;
– la seconda opzione data dal Devoto-Oli è quella «di persona insigne, degna, egregia, illustre, meritevole», alla quale si può assegnare l’aggettivo “emerito” perché esso è particolarmente adatto a rimarcarne in grado eminente una certa realtà, che essa sia positiva o negativa, sicché, secondo tale accezione, si può dire che una tal persona è un emerito studioso, un emerito osservatore della realtà, ma anche, scherzosamente, un emerito fannullone, o un emerito furfante. Non è possibile però applicare questa opzione a Benedetto XVI come conseguenza della sua rinuncia, per due motivi: 1), perché la qualifica che ne riceverebbe lo designerebbe “ancora più Papa di quando non era Papa emerito, ma semplicemente Papa”; 2), perché l’aggettivo, nella dizione che dovrebbe così indicarlo, come visto, dovrebbe precedere, e non seguire il sostantivo, così da dire “l’emerito Papa”, due fatti, questi, che non raffigurano affatto il fine prefissosi da Papa Benedetto.
Ora, potendo scegliere, comunque, tra due possibilità, Papa Benedetto avrebbe dovuto specificare chiaramente qual era il senso prescelto, specie se davvero voleva differenziarsi dalla scelta fatta dalla Chiesa a proposito dei vescovi.
E la cosa infatti si era fatta parecchio complicata: come si fa a sostenere di aver rinunciato a un se pur fantasioso ed ereticale “papato attivo” se poi si proclama a tutto il mondo che da quel momento si vuole esser chiamati “Papa che merita di essere Papa”, “Papa che ha diritto di essere Papa”, “Papa insigne”, “Papa degno”, o persino “Papa per eccellenza”, ovvero di essere visto, riconosciuto e connotato, dopo una rinuncia a essere Papa, essere, se pur in una fantasiosa ed ereticale qualità di “Papa passivo”, “oggi più Papa ancora di quando si era Papa attivo”?
Dunque l’aggettivo “emerito” è in ogni caso improprio, per cui inutilizzabile, qualsivoglia fosse stato l’obiettivo di Papa Benedetto, e inapplicabile al suo status di rinunciante al Munus papale. Egli doveva rinunciare a tale singolarissimo Munus e tornare a essere vescovo dell’ultima diocesi che gli era stata affidata prima di essere eletto alla massima carica ecclesiastica e dunque a vescovo di Roma, la diocesi di Velletri-Segni e Ostia.
O Dio, Signore degli eserciti, vieni: vinci la tua battaglia, noi siamo con te, perché amiamo solo te, obbediamo solo a te!
Dunque, per concludere, quella dell’errore sostanziale non è una teoria, non è una fanfaluca, un fantasioso costrutto mentale, un’idea fissa di un povero e ostinato filosofastro-filosofante astrattamente rimasto nell’empireo di alte speculazioni filosofiche, ma è solo la più cristallina e brutale evidenza che possiamo avere della realtà che ci troviamo di fronte: è la sciagurata e molto scandalosa, gravissima se pur nascostissima eresia cui dobbiamo dare un nome, e il suo nome, purtroppo, è Ratzingerismo, l’eresia che ha determinato la rinuncia di Papa Benedetto XVI nel modo inaccettabile, esso sì del tutto fantasioso e irragionevole, in cui è stata da lui elaborata.
E a questo punto va dunque detto che non è assolutamente importante che nessun cattolico sarà mai disposto a imbracciare la spada e a dar battaglia per difendere un Papa che non solo è ormai morto, ma non è stato per niente lungimirante, e anzi è stato modernista come nessun altro, e per giunta lo è stato pure di nascosto, e di nascosto in primo luogo a se stesso, perché nel Regno del Logos, che è a dire nel Regno dei precetti di Dio, non sono le opinioni degli uomini che valgono, ma la realtà, e la realtà, a sua volta, vale in quanto è governata dai precetti di Dio. Tutto il resto è pura anarchia. Peggio: è lo stato più entropico, disordinato, ossia infernale, diabolico, che si possa avere nell’umanità.
Ovviamente, non sto parlando di tutti quei milioni di bravi cattolici che in buona fede hanno di Papa Benedetto un’altissima stima e ne seguono gli insegnamenti con la convinzione di seguire in essi una dottrina santa, meritevole di essere seguita proprio perché insegnata da chi ritengono un grande Dottore della Chiesa: a costoro sia tutto il mio rispetto, e anche il mio apprezzamento per la serietà e la forza che hanno per cercare di irrobustire in ogni modo la propria fede.
Io sto parlando a tutti coloro che, in questi tragici tempi della Chiesa, sanno che la Fede è attaccata da ogni parte, come in poche altre sue epoche, e dunque sono sempre pronti a essere vigili come la notturna sentinella di Isaia: «Custos, quid de nocte? Custos, quid de nocte?» (Is 21,15).
Se nella Chiesa c’è un errore sostanziale, vuol dire che nella Chiesa c’è disordine, ma se nella Chiesa c’è disordine vuol dire che c’è disordine nel Regno di Dio e se c’è disordine nel Regno di Dio vuol dire che gli uomini, cioè i cattolici, stanno disobbedendo alle Leggi di Dio, ma se noi cattolici stiamo disobbedendo alle Leggi di Dio vuol dire che non stiamo per niente amando Dio, ma stiamo amando noi stessi, stiamo amando l’idolo di noi stessi, posto che il Signore infinite volte ricorda: «Se mi amate, osserverete i miei comandamenti» (Gv 14,15). Non “i vostri comandamenti”, dice, ma «i miei».
Se noi cattolici obbediamo agli insegnamenti di un Papa più che agli insegnamenti di Dio, preferiamo cioè gli insegnamenti di un Papa ai comandamenti di Dio, siamo solo dei molto idolatri cattolici che amano quel Papa, e già non stiamo più amando Dio.
I molti e molto gravi sostanzialissimi errori perseguiti per tutta la vita dal povero Benedetto XVI, che il sottoscritto tentò ben quattro volte di raggiungere, ma invano, sono quanto di più fascinoso, attraente e molto persuadente un uomo avrebbe potuto immaginare per attrarre e convincere milioni di fedeli e di Pastori a girare le spalle a Dio senza farlo vedere a nessuno, e, quel che è più sicuro e convincente, nemmeno a se stessi: “Giungere a Dio – questa la mia sintesi che ho posto in esergo al mio libro – si può, ma col sorriso e senza drammi: niente peccato, niente sangue di Cristo per placare Dio Padre, niente Dio Padre che crudelmente lo esige, niente peccatori e dunque niente più Inferno”.
Oggi c’è chi dice che “nessun cattolico sarà mai disposto a imbracciare la spada e a dar battaglia per difendere un Papa che non solo è ormai morto, ma non è stato per niente lungimirante, e anzi è stato modernista come nessun altro, e per giunta lo è stato pure di nascosto, e di nascosto in primo luogo a se stesso”.
Ma la realtà è ben peggiore di quanto costoro dicano: la realtà è che sarà ben difficile che un qualche cattolico sia mai disposto a imbracciare la spada e a dar battaglia per abbandonare una dottrina così dolce e convincente come quella qui riassunta, inventata da Benedetto XVI quando nel 1968 insegnava, da Tubinga, quello che per cinquant’anni i cattolici di tutto il mondo attendevano d’imparare, così cibandosene finalmente senza ritegno, da allora, ossia da ben sessant’anni, felicemente addormentandosi nel tutto nuovo, morbido, gustosissimo e satollante vangelo. Ah, che pacchia! Che pace! Già, sì. E che orrore.
“O stolti Gàlati! Mi stupisco di come così presto e facilmente siate potuti passare da Colui che vi ha chiamati mediante la grazia a un vangelo diverso, per quanto possa parere così persuasivo, amorevole e suadente!”
Il vangelo insegnato da Benedetto XVI, da lui ben esposto in lungo e in largo in Introduzione al cristianesimo, e da lui poi, come si è visto, mai sconfessato, anzi più volte e ostinatamente fino alla fine ben ribadito, è il vangelo che l’ha portato a elaborare la Rinuncia che sappiamo, Rinuncia resa nulla ipso iure e da qui dunque invalida per i motivi visti sopra, causati proprio da quel suo perverso vangelo e compiutamente illustrati nel mio Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro.
I cattolici, oggi, che siano semplici fedeli o invece esimi prelati, accademici, monsignori, vescovi, arcivescovi, prefetti, o persino eminentissimi cardinali, come predico e in tutti i modi sollecito da anni, devono scegliere: o il vangelo di Cristo, o il vangelo di Benedetto.
Se sceglieranno il vangelo di Cristo, riconosceranno che i cardinali idonei, e che dunque a causa dell’età e del Papa legittimo che tali li ha creati sono riconosciuti atti a eleggere il Pontefice successore di Benedetto XVI, dovranno essere pronti, e solo loro, a riunirsi in un conclave convocato dal cardinale camerlengo, posto che anch’egli non provenga assolutamente dalle file spurie create dall’antipapa Jorge Mario Bergoglio.
Ci attendono tempi e con tutta probabilità anche anni di lotte, confusione e tribolazioni immani, ai quali direi che pochi sono preparati, tempi e anni quali quelli che la Chiesa dovette subire dal 1130 al 1138, allorché si fronteggiarono Papa e antipapa, e relative schiere, fino a che il grande san Bernardo non riuscì, con pazienza e fervore, con digiuni, buone ragioni e preghiere, per grazia di Dio e viva intercessione della Madre di Dio, a spezzare la spuria, infernale e illegittima linea di successione aperta dall’antipapa Anacleto II.
Difatti tale scelta di vangelo dovrà essere compiuta anche dall’arcivescovo e antipapa Jorge Mario Bergoglio, che dovrà riconoscere il suo stato spurio, l’invalidità della sua elezione, e, come lo sollecito nel mio libro a più riprese, sapersi fare da parte: come ai tempi di Papa Innocenzo II e dell’antipapa Vittore IV, è solo una questione di umiltà, di pura e santissima umiltà. Il vangelo di Cristo si sceglie solo per umiltà. Il vangelo di Benedetto si sceglie solo per convenienza. E cos’è la convenienza, se non un po’ di superbietta, mascherata e sorniona, di chi desidera tanto e soltanto vivere in tranquillità e pace, nascondendo a se stessi di amare così solo se stessi, e non amare per niente Dio e il Suo santo ma anche molto esigente vangelo?
Chiudo: chissà mai che i nostri miserabili sforzi e le nostre penitenti e perseveranti preghiere non portino, pian piano, a tali santi e benedetti risultati? Proviamoci almeno!
Voi: chierici, vescovi, arcivescovi, prefetti e eminentissimi Ccrdinali di Santa Romana Chiesa, di quella Chiesa apostolica che voi state da sessant’anni uccidendo, che voi state da sessant’anni soffocando, mollate la presa! Prendete in mano invece i Comandamenti di Cristo, il suo aureo e altissimo Vangelo, le sue santissime Leggi, e specialmente la sua inalterabile e divinissima dottrina! Che aspettate?
È solo così che lo amerete! Forza allora, e che la misericordiosa e santa Madre di Dio, la Fortissima, l’altissima Consigliera, vi gonfi il cuore di ardore! Sì: di ardore! Solo voi potete salvarla! Fatelo dunque. Che aspettate?
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Per richiedere il libro Al cuore di Ratzinger. È lui il Papa, non l’altro, Edizioni Aurea Domus, Milano 2022, 470 pagine, 50 euro, scrivere a: aureadomus.emr@gmail.com
L’autore comunica che farà avere il suo saggio in copia numerata a mano e con dedica personalizzata.