di Alessandro Staderini Busà
È l’unica statua che raffiguri un samurai in Italia. Si trova a Civitavecchia, sul lungomare, a memoria di quando il giapponese vi sbarcò alla volta della Città Eterna. Lo sguardo sottile, katana e wakizashi (spada lunga e spada corta) ai fianchi, fronte rasata e coda di cavallo alla nuca, baffi presi in prestito alla moda europea. Il periodo in cui s’inquadra la vicenda è il Seicento, tempo del primo grande contatto fra Occidente e Sol Levante. La statua invece è opera del secondo Novecento, quando il porto di Roma si gemellò col suo corrispettivo orientale Ishinomaki, da cui il giapponese era salpato.
A circa un secolo dalla scoperta delle Americhe, la nazione spagnola è la regina dei mari, non ancora spodestata da Inghilterra e Olanda. L’aver stabilito la provincia di Nuova Spagna (attuale Messico) ha permesso al navigatore e frate Andrés de Urdaneta di avviare la colonizzazione di quelle Filippine che, prendendo nome da re Filippo II, sono divenute centro di irradiamento per i commerci con la Cina. Se infatti le vie oceaniche che, circumnavigando l’Africa, legano l’Europa all’Estremo Oriente sono battute dai portoghesi, quelle che ad Ovest tagliano il Pacifico sono cosa degli spagnoli. Le relazioni fra occidentali e giapponesi in realtà iniziano per caso, quando alcune navi dirette allo scalo di Macao finiscono per naufragare sulle coste dell’arcipelago. In un tempo in cui l’aspetto politico e quello economico non possono scindersi da quello religioso – almeno finché la prima democrazia moderna non stamperà Dio sullo “sterco del diavolo” – la scoperta di una remota ed evoluta civiltà pone la necessità dell’evangelizzazione. A partire da 1549, con la benedizione del romano Pontefice Alessandro Farnese e dietro l’esempio del pioniere missionario Francisco Xavier, arrivano in Giappone gesuiti, francescani, domenicani. Appena poche decine di anni e i cattolici hanno già saputo erigere quaranta chiese, conquistando anime. Lo si deve a un’indefessa opera di predicazione. Ma anche a una predisposizione particolare del tessuto sociale nipponico, per cui l’individualità non esiste, e tutto si risolve nell’appartenenza collettiva. Ciò spiega, da un lato, le estreme conseguenze della fedeltà fra il feudatario (daimyō) ed i suoi samurai (equivalente orientale dei nostri cavalieri medievali) costretti, secondo il loro codice d’onore, al suicidio dell’harakiri oppure all’esilio, in caso di morte del signore. Ma spiega anche, dall’altro, come la conversione di un singolo daimyō guadagni, alla nuova fede, le masse umane di un’intera regione. Diecimila, ad esempio, i sudditi che, in sol colpo, si fanno cristiani quando il signore di Amakusa ottiene proprio da Xavier di venire battezzato.
Nel Cinquecento, il Giappone sta attraversando una fase di anarchia, in cui la lotta per il controllo delle tre isole Kyushu, Onshu e Shikoku, si consuma fra dodici nobili casati. Per molti signori l’appartenenza religiosa è uno strumento di strategia politica: aspetto che se il popolo non può considerare, il piano divino sa orchestrare. Sengoku, ovvero un “paese in guerra” è ciò che si apre agli occhi di Alessandro Valignano, lì giunto come osservatore apostolico. Un viaggio, il suo, dal quale riporterà a Roma, per essere ricevuti dal Papa, quattro figli dell’aristocrazia dagli occhi a mandorla: evento di maggior rilevanza nell’Europa del 1585. Ormai, il paese si avvia ad aggiungersi alla lista degli stati cattolici, in quel frangente storico che ha visto definirsi, senza soluzione, la scissione coi protestanti. Presso la corte di Kyoto, capitale imperiale prima del trasferimento a Tokyo, la moda impone abiti alla maniera europea e fra i nobili è d’uso portare al collo il rosario. Quando il secolo va concludendosi, sono trecentomila i kirishitan (cristiani) che conta la comunità di Cipango: questo il nome che, mutuato da Marco Polo, gli occidentali usano per l’antico Giappone. In un contesto di forze politiche, come detto, tanto delicato, il potere centrale dello Shōgun – governatore per conto dell’Imperatore – è una foglia al vento. Fomentato, questi, da una fetta di nobiltà che guarda alla presenza cattolica come cavallo di Troia per una conquista straniera, di punto in bianco è decretato un ordine di arresto per tutti i cristiani, europei e giapponesi: culminerà nella crocefissione di ventisei di loro sulla collina Nishizaka, a Nagasaki, durante l’inverno 1597. Sono i cosiddetti “santi martiri giapponesi” di cui porta il nome una chiesa a pochi metri dal mare, sempre a Civitavecchia. Sono san Paolo Miki e compagni, dei quali questa settimana ricorre la memoria.
Quella della crocifissione è, fra le varietà di sentenze capitali, la più onorevole in quanto la stessa di Cristo, ma anche la più rapida, poiché dopo essere inchiodati al legno si viene passati a fil di lancia, qualora non si abiuri. Altrimenti è prevista una morte lenta, alla maniera orientale. Bolliti vivi nelle acque termali. Segati in due con strumenti di bambù. Immersi in acque ghiacciate. Appesi per le gambe con la testa dentro un pozzo di escrementi. Arsi con indosso il tradizionale mantello di foglie dei contadini, intriso di olio di lampada. Questa è l’opzione più scenografica che si possa allestire, poiché il condannato è legato solo per le mani, libero di correre di qua e di là, disperato, nel buio della notte. La chiamano mino odori (“danza del mino”) e sancisce la comunanza fra il paganesimo romano della damnatio ad bestias e quello shinto, ugualmente estranei a quel concetto di pietà che il mondo non avrebbe conosciuto senza la discesa del Figlio di Dio. La situazione va quindi ridisegnandosi, alcuni anni più tardi, grazie al naufragio di un galeone spagnolo che, imbarcando un capitano particolarmente abile nell’arte diplomatica, porta alla firma di un trattato col quale gli spagnoli ottengono di installare un’industria sul suolo giapponese. I nipponici, dal canto loro, decidono allora di organizzare un’ambasciata alla corte di Filippo III, a sugellare l’alleanza. Lo Shōgun dà incarico al daimyō di Sendai di costruire per l’occasione una nave. Questi pone a capo della missione il suo samurai più fidato, tale Hasekura Tsunenaga, all’epoca quarantenne. È lui l’uomo della statua di Civitavecchia. Samurai deriva dal verbo “saburau”, che significa letteralmente “servire”, e Hasekura si dedica alle direttive ricevute, h 24 diremmo oggi. Salpa, alla volta della Nuova Spagna, con dodici samurai di Sendai, dieci dello Shōgun, quaranta fra spagnoli e portoghesi, e poi centoventi tra marinai, servitori, mercanti. Dopo la visita ai territori americani, il samurai prosegue alla volta dell’Europa. Nel gennaio 1615 è a Madrid, dove incontra il re, ed è battezzato. A ottobre sbarca a Civitavecchia. Vi resta ben due settimane, accolto con calore sia dalle autorità che dai cittadini. Non soltanto l’aspetto fisico e l’abbigliamento dei giapponesi sono a colpire. Scrivono, stupefatte, le cronache dell’epoca che “non toccano mai il cibo con le mani, ma usano due sottili bacchette che tengono con tre dita”, e “si soffiano il naso in soffici fogli setosi della grandezza di una mano, che non usano mai due volte”, e “le loro spade tagliano così bene che possono tagliare un sottile foglio di carta appoggiandovelo sul bordo e soffiandoci sopra”. Al Pontefice Paolo V, Hasekura Tsunenaga consegna una lettera imperiale, decorata in oro, con la richiesta per l’invio di nuovi evangelizzatori nella sua terra natia. Un incontro storico capace di segnare un vero punto di svolta, tanto per i fatti di fede, che per la geopolitica internazionale dei secoli a venire. Si tratta, oltretutto, della prima delegazione di provenienza orientale ad entrare ufficialmente nella Caput Mundi, ed ancor oggi è conservato, presso il Museo della città di Sendai, il documento con cui il Senato di Roma conferiva al samurai in missione la cittadinanza onoraria. È il 1616 quando riparte per il Giappone, dove giunge nell’estate 1620. Dopo tutti quegli anni di viaggio, però, la situazione non è più la stessa. Si è imposto il casato Tokugawa che, unificati i feudi delle quattro isole, ha messo le mani sulla carica di Shōgun, tenendo in scacco l’autorità dell’Imperatore. Il nuovo corso politico giapponese vedrà, per i prossimi due secoli e mezzo, una feroce opposizione non solo a Roma, ma anche la chiusura delle relazioni commerciali e diplomatiche con qualsiasi nazione occidentale. Il Cristianesimo ha introdotto qualcosa di mai sperimentato prima nella società nipponica, e chi ora detiene il potere ne teme gli effetti. I capisaldi di cieca subordinazione verso qualsiasi ordine provenga dall’alto, anche il più disumano ed immorale, sono a rischio per quel concetto ben sintetizzato dall’Apostolo Pietro: “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”. È ciò che può, ad esempio, far replicare un samurai al proprio daimyō con parole mai ascoltate prima. “In qualunque altra cosa io obbedirei, ma non posso accettare alcun ordine che si opponga alla mia salvezza eterna”: quelle di Zaisho Shichiemon al signore Hangou Mitsuhisa. Le stesse, le ultime, di migliaia di altri che, similmente, pagheranno col sacrificio estremo un nuovo concetto di disciplina, di lotta, di onore. Nulla si sa invece di quanto fu di Hasukura Tsunenaga che, passando a miglior vita solo due anni dopo la conclusione della sua missione, lascia l’incognita di come sia potuto morire. Alcuni dicono da martire, alcuni da rinnegato, altri da clandestino. È infatti iniziata l’epopea dei kakure kirishitan. Ovvero quei “cristiani nascosti” che – nobili, samurai, contadini – camuffando i propri simboli e celebrando segretamente i riti cattolici, resisteranno alle maglie della persecuzione più metodica e capillare. Fino all’incontro con i primi visitatori stranieri, ormai a fine Ottocento, quando la Provvidenza avrà spazzato via i carnefici e il Giappone riaperto le porte al mondo intero.