di Aurelio Porfiri
Da qualche tempo è in corso su Duc in altum un dibattito molto interessante riguardante coloro che, per le difficoltà note a tutti, decidono di convertisti alla Chiesa ortodossa, un passo che è stato fatto, non solo in Italia, anche da persone in passato molto impegnate in ambito cattolico.
La prima reazione, istintiva, è di comprensione. La Chiesa cattolica vive una crisi delle più pericolose, proprio perché rifiuta di ammetterla. Anzi, ciò che è oggettiva decadenza viene a volte presentato come elemento di crescita. Sebbene sia ormai chiaro che, malgrado gli sforzi in senso progressista degli ultimi decenni, la Chiesa continua a perdere fedeli, si vuole curare il malato con lo stesso veleno che lo ha fatto ammalare. Ne consegue che per alcuni la soluzione di convertirsi a un’altra denominazione cristiana (nei casi migliori) appare del tutto sensata. Anch’io, quando seguo alcune liturgie anglicane caratterizzate da ottima musica sacra di alto livello, mi sento esplodere dentro God save the King con un moto di gratitudine. Ma c’è un problema, ed è quello della verità.
Aderire a una religione significa aderire a valori che discendono da una verità, non da un’opinione. E la verità cattolica non è soltanto significativa, ma è assoluta. Rifiutandola, pur con tutte le buone ragioni, si aderisce a quello che non è vero. Io credo quindi che la scelta non sia fra il cattolicesimo e le altre religioni, come se fossimo al banco del supermercato: la scelta è fra credere in una verità assoluta o non crederci. E, se non ci si crede, trovo l’ateo molto più coerente di chi cerca la verità assoluta dove non può trovarla. Non intendo dire che nelle altre confessioni cristiane non ci siano cose buone ed elementi di santificazione. Tuttavia, tra le mezze verità e la verità tutta intera, cosa dovremmo scegliere?
Capisco bene che stare nell’attuale Chiesa cattolica comporta una grande sofferenza. Sono sicuro che tutte le degnissime persone che hanno scelto di abbandonarla lo hanno fatto perché non sopportavano di vederla ridotta nello stato in cui è oramai da vari decenni. Ripeto: lo capisco, perché provo anch’io quel dolore e quella sofferenza bruciante che ogni giorno mi fanno pensare che sarebbe meglio non avere niente a che fare con la religione.
Poi però, quando sono lì per chiudermi la porta alle spalle, non posso fare a meno di pensare alla questione della verità, del vero e del falso, e così accetto di essere in croce. Perché so che è comunque meglio morire per la verità che vivere per la menzogna.