di Aurelio Porfiri
Ho letto con interesse l’articolo di Roberto de Mattei su Corrispondenza Romana, dal titolo La triste apostasia di Alessandro Gnocchi, in cui il professore commenta, anche con dolore, la conversione del giornalista cattolico tradizionalista Alessandro Gnocchi alla chiesa ortodossa russa. Come ho avuto modo di dire in precedenza, anch’io, come il professor de Mattei, penso che la conversione ad altre denominazioni cristiane non sia la soluzione alla crisi devastante che stiamo vivendo. Capisco che lo smarrimento in cui siamo immersi ci esponga a tentazioni, ma la soluzione non è nel cercare strade alternative che non affrontano la questione più importante, ovvero quella della verità.
In Giovanni 16, 12-15, viene detto: “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando però verrà lo Spirito di verità, egli vi guiderà alla verità tutta intera, perché non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annunzierà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà del mio e ve l’annunzierà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà del mio e ve l’annunzierà”. Se crediamo nella continuità della successione apostolica nella Chiesa, dobbiamo anche credere che questo spirito, in modi che a noi ora sembrano misteriosi, continua a operare nell’unica Chiesa di Cristo, che possiede la verità tutta intera, la verità assoluta, pur se in molti casi sembra voler scegliere la via della menzogna. Se si rifiuta tutto, meglio scegliere il niente. In questo caso ci troviamo di fronte alla vertigine di una scelta radicale, bianco o nero, tutto o niente. Le mezze verità non sono assolute e c’è molta più nobiltà in un rifiuto che in una scappatoia, per quanto la soluzione possa essere perseguita i motivi più nobili.
Il professor de Mattei a un certo punto del suo articolo afferma: “Un terremoto che distrugge una città o una regione, come quello terribile della Turchia, ci impressiona profondamente, ma molto di più dovrebbe atterrirci la rovina di un’anima in seguito alla perdita della grazia. Lo diciamo ad alta voce. Il lezzo della religione moscovita ci disgusta, il profumo di Roma, Cattedra di Verità e Madre delle Genti, ci inebria. Proviamo però grande pena per Alessandro Gnocchi e per tutti coloro che sono tentati dallo scisma e dall’eresia, anche a causa degli errori e dei peccati delle supreme autorità della Chiesa. Ci troviamo di fronte a un dramma che esige la riflessione e la preghiera. Nessuno, a cominciare da chi scrive, può ritenersi al riparo da tali rovinose cadute”. E in conclusione del suo articolo invoca giustamente la perseveranza finale. Ecco, io questa perseveranza finale la vedo in pericolo in molti che cercano di rimanere cattolici in una situazione in cui chi custodisce la verità sembra non curarsene. Il grande Romano Amerio giustamente disse: “E qui conviene formulare la legge stessa della conservazione storica della Chiesa, legge che è insieme il criterio supremo della sua apologetica. La Chiesa è fondata sul Verbo incarnato, cioè su una verità divina rivelata. Certo le sono date anche le energie sufficienti a pareggiare la propria vita a quella verità: che la virtù sia possibile in ogni momento è un dogma di fede. La Chiesa però non va perduta nel caso che non pareggiasse la verità, ma nel caso che perdesse la verità. La Chiesa peregrinante è da sé stessa, per così dire, condannata alla defezione pratica e alla penitenza: oggi la si dice in atto di continua conversione. Ma essa si perde non quando le umane infermità la mettono in contraddizione (questa contraddizione è inerente allo stato peregrinale), ma solo quando la corruzione pratica si alza tanto da intaccare il dogma e da formulare in proposizioni teoretiche le depravazioni che si trovano nella vita”. Questo mi sembra il nostro dramma oggi: rendersi conto che da troppi decenni la Chiesa vive un oblio di sé stessa e molti, con tutta la buona volontà, non sanno che fare. La crisi del tradizionalismo cattolico evocata dal professor de Mattei è reale e parte da una constatazione abbastanza ovvia: il tradizionalismo è uno stato di attesa. Uno che si dice, per esempio, cattolico carismatico o cattolico dell’Opus Dei vive una particolare declinazione dell’essere cattolico, più o meno valida. Ma il cattolico che diviene tradizionalista lo fa in attesa che la Chiesa ritrovi sé stessa: non è una declinazione della cattolicità, è l’annuncio del deperimento. E visto che sembra che questo stato di oblio continui a peggiorare, il tradizionalista cattolico si sente intrappolato in uno stato all’interno del quale oramai dispera di poter liberarsi, in quanto la Madre continua a vagare lontano mentre i figli sempre più perdono sé stessi.