L’ex priore di Bose Enzo Bianchi ha rilasciato alcune autoapologetiche interviste in cui ha dato l’annuncio che a giugno si trasferirà ad Albiano d’Ivrea, alla cascina Camadio, la “Casa della madia”, sorta ad opera dei suoi influenti amici – in primis l’ex sindaco di Torino Valentino Castellani – dove lo raggiungeranno poi sodali che hanno lasciato con lui la fondazione sulla Serra. Richiesto di cosa rimanga di quell’esperienza ha risposto che oggi Bose non è più quella di prima e molte persone se ne sono andate dopo che lui è venuto via nel 2017, concludendo infine con suavis malitia: «Il problema è che nessuno è più entrato…». Con il nuovo priore, Sabino Chialà, i rapporti sono cordiali ma inesistenti: «Ho chiesto più volte la riconciliazione ma non l’ha mai voluta». In un’altra dichiarazione, l’ex priore si spinge oltre e ci fa sapere che non riesce ancora a darsi ragione dell’«enigma di persone vicinissime a me che hanno consumato un vero e proprio tradimento nei miei confronti senza motivo, perché c’era un accordo. Salvo una doppiezza mantenuta per anni, c’era quasi un’amicizia, oltre che una fraternità». Infine, in un’altra intervista, Bianchi ci dà nuove valutazioni parlando ancora del suo «addio forzato a Bose»: «Mi sono sentito tradito da alcuni confratelli e poi non ho avuto spiegazioni, mai ho saputo esattamente le imputazioni, se non molto generali e soffro per il provvedimento che ha colpito gli altri tre confratelli, perché capisco che io come fondatore presente potevo dare dei problemi, ma loro sono vittime di un’ingiustizia vergognosa. È stato un accanimento». Sul passato non ha rimorsi e non riesce ad imputarsi «errori o peccati così gravi da giustificare il trattamento che ho subito».
Ancora di più – come per altri casi – quello di Bose si sta rivelando un mistero sempre più fitto perché le vere domande che nessuno rivolge mai ad Enzo Bianchi – impegnato ad erigere per se stesso un monumento aere perennius – sono semplici: 1) cosa sia successo veramente all’interno della comunità da provocare una tale irreparabile rottura; 2) quale sia il contenuto del provvedimento pontificio relativo al suo allontanamento. A tal proposito, il rapporto dell’ex priore con papa Francesco – l’autore del provvedimento che ha disposto il suo allontanamento – è addirittura «ottimo», perché il Santo Padre «ha capito tutta la situazione», gli ha scritto una bellissima lettera, si interessa di lui e gli manda spesso i suoi saluti pieni di affetto.
Come per il caso Rupnik, attendiamo e attenderemo ancora a lungo per conoscere come sono andate veramente le cose sulla Serra d’Ivrea e questo mentre, poco più in basso, la cascina di Albiano, «luogo di ospitalità, di scambi, di incontri e di studi» si porrà, inevitabilmente con le premesse di cui sopra, come una diretta concorrente del monastero guidato dal priore Chialà al quale – pur rivolgendosi allo stesso milieu cattolico progressista ma con meno potenti appoggi – la “nuova Bose” taglierà l’erba sotto i piedi.
Nella stessa intervista, un piccolo posto viene riservato anche alla “fede” tout court dove l’ex priore ci fa sapere che lui non perde tempo «a questionare su Dio o ad annunciare Dio» di cui «non sappiamo nulla, nessuno l’ha mai visto e resta inconoscibile» concludendo infine: «Basta Gesù Cristo che mi porterà a Lui. Oltre Gesù Cristo non vado». Viene così operato un grande balzo in avanti (o indietro) e superato anche il Grund Axiom rahneriano – la Trinità economica o la Trinità immanente e viceversa – per ridurre Gesù Cristo ad una narrazione o descrizione di Dio e spingerLo fuori dal mondo e dalla storia che Egli stesso ha creato, visitato e rinnovato nell’Incarnazione, Morte e Risurrezione del Figlio, che è vero Dio e vero Uomo, che è la Presenza tangibile del Mistero in mezzo a noi, in un modo così radicale da poter e dover dire, con quella certezza che viene dalla fede: Dominus Jesus, Gesù è il Signore Dio. Una Presenza che si prolunga nella bimillenaria compagnia dell’unico Soggetto-Chiesa, specialmente nell’annuncio del Vangelo e nella celebrazione dei Sacramenti. Ma la risposta migliore ai teoremi di Enzo Bianchi e alle sue disfatte non viene poi dalla tanto deprecata dottrina, ma dal Vangelo stesso: «Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre? Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?» (Gv 14, 9-10).
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Se Enzo Bianchi non sa più dire Dio, Derio Olivero non sa più dire Cristo. Un significativo esempio di quale sia la teologia insegnata e imparata a Fossano – che celebra tra pochi giorni i cinquant’anni del suo Studio – ce la fornisce proprio il vescovo di Pinerolo che ha pubblicato una lettera su L’eco del Chisone dove racconta di un incontro avuto, mentre faceva la spesa, con un fedele il quale – senza tanti ossequi – gli ha rivolto una domanda spiazzante e cioè perché egli parli sempre di tutto ma mai di cristianesimo e quindi di Cristo. Questo episodio sta a dimostrare che anche a Pinerolo ci sono ancora cattolici non obnubilati dalle assurdità della “nuova Chiesa”.
Dopo aver riflettuto, la risposta di monsignor vescovo è una melassa teista-moralistica-terapeutica dove si finge di non avere risposte ai grandi dilemmi della vita per poter condividere le domande di tutti senza dire subito, come ci si aspetterebbe da un successore degli Apostoli, che la risposta è una e una sola: Gesù Cristo unico e necessario Salvatore, centro del cosmo e della storia.
Nella nostra confusa condizione di esseri smarriti in un mondo sempre meno umano, un vescovo che dovrebbe – per mandato divino – evangelizzare e cioè proclamare opportune et importune le investigabiles divitias Christi, si limita invece a dire che occorre «credere nella vita» e quindi è sufficiente un po’ di entusiasmo adolescenziale o di «distrazione senile». Ma per stare nella vita, con tutta la sua drammatica durezza, non è forse oggi urgente e più che mai necessario incontrare Cristo! E poi quale vita? Solo quella terrena, con il fiato corto di qualche decennio, o anche quella eterna che solo Lui può dare?
In questa epifania della fede debole e umile, alla fine della lettera, Sua Eccellenza, parla di una «Presenza», ma non si comprende bene se essa abbia un volto o meno, perché delle presenze anonime di rahenriana memoria, non sappiamo cosa farcene ma sappiamo bene dove portano. In quella lettera c’è tutto il dramma della Chiesa post conciliare che, come disse don Luigi Giussani, «non sa più dire Cristo agli uomini».
Fonte: lospiffero.com