La verità, vi prego, sulla guerra in Ucraina
di Michela Di Mieri
Caro Valli,
nonostante sia stata sommamente accorta nel rifuggire il più possibile dalla kermesse organizzata in occasione del primo anniversario dell’ingresso delle truppe russe nel territorio ucraino, qualche stralcio dell’eroico Zelensky in color kaki e di Putin il Terribile, con corollario di babuske che abbracciano gli invincibili soldati ucraini, mi ha inevitabilmente raggiunta, rinnovando in me un’irrefrenabile repulsione e ribellione rispetto a una macchina della propaganda in confronto alla quale l’Istituto Luce era informazione libera e critica.
Non sono un’esperta di geopolitica, ho solo una laurea in Storia e seguo con sempre crescente interesse, nel senso etimologico del termine, questa epocale vicenda. Non sono, quindi, un’addetta ai lavori, ma mi sono decisa a scriverle, usando il suo meritevolissimo blog come cassa di risonanza, perché sono convinta che sia moralmente doveroso dare il proprio contributo, benché minimo, per spostare il dibattito dal piano del sentimentalismo o del tifo da stadio a suon di stupidi slogan a quello del ragionamento, ovvero dell’analisi, della ricerca delle cause, per capire gli effetti, come una questione così cruciale per il mondo intero richiederebbe.
La misura di tale estrema necessità la dà questo aneddoto, raccontato in un’intervista rilasciata dal professor Luciano Canfora, storico e filologo, sul Riformista: “L’altro ieri ho incontrato un tizio per la strada, che mi ferma e mi dice: ‘Professore, ma lei cosa pensa di quel pazzo di Putin?’ ‘Qualche altra responsabilità c’è anche dall’altra parte’, gli rispondo. ‘Ah, -dice – ma allora lei la pensa come me’. Questo è un episodio emblematico. Siamo arrivati all’autocensura per timore di scoprirsi”. Allora, dato che qui stiamo trastullandoci con la Terza guerra mondiale, ben vengano i discorsi seriosi, le analisi lucide e razionali, e lo dico da donna, cioè da quella parte del cielo che ha la cura e la custodia inscritte nel DNA, perché altri strumenti per uscire da questo sommo incubo, soprannaturale a parte, francamente non ne vedo. Anche a questo serve il cervello donatoci dal Padreterno. Da qui il mio modesto contributo: e, se susciterà un vespaio, bene; se verrò tacciata di filoputinismo, bene; se qualche parruccone mi ingiungerà di pensare a fare le tagliatelle, meglio. Stia tranquillo che non le trascurerò.
Dopo questa premessa, ecco le mie considerazioni in merito al conflitto.
Questa non è una guerra dell’Ucraina contro la Russia, ma, ahinoi, è una guerra della Nato contro la Russia per interposta Ucraina, usata con scaltro cinismo come carne da macello e terreno di scontro, e in cui la posta in gioco è niente meno che la creazione di un nuovo assetto geopolitico globale. In sostanza, da un mondo bipolare, basato sull’equilibrio della Guerra fredda tra gli Usa e l’Urss e le loro rispettive sfere di influenza, si è passati a uno monopolare, in cui gli Stati Uniti cercano di imporre un loro dominio assoluto ed esclusivo sul resto del pianeta, anche e soprattutto – per quanto concerne l’area geografica qui presa in esame – inglobando sistematicamente nell’Alleanza atlantica (difensiva sulla carta, ma offensiva nei fatti), una dopo l’altra, le varie nazioni precedentemente aderenti al Patto di Varsavia. Questo avanzamento sempre più a Est, come si può evincere osservando una qualsiasi cartina dell’allargamento della Nato nell’Europa orientale e balcanica, inizia già all’indomani del disfacimento dell’Urss e getta la sua ombra fino alle porte della grande Russia, in Ucraina, la “Terra di confine”, come dice il nome stesso, per la Russia la sua storica zona cuscinetto e distanza difensiva di sicurezza da eventuali aggressori esterni, essendo priva di barriere naturali, come mari o catene montuose. L’Ucraina, sin dai tempi di Pietro il Grande è la prima ineludibile tappa di quella dottrina della profondità strategica che è il cuore della politica di difesa della Russia. Per poter penetrare efficacemente in quello che gli Stati Uniti, a parti inverse, definirebbero il loro “giardino di casa”, gli Usa e la Nato si sono serviti della sua parte occidentale, cioè quella parte del paese che ha sempre guardato a Occidente.
Ma a questo punto del discorso è necessario prendersi una pausa dai nostri giorni e tornare indietro, cercando, a grandi linee, di fornire una foto della composita struttura della Terra di confine slava, senza la quale non si possono capire le devastanti lacerazioni che stanno alla base del conflitto.
L’Ucraina, infatti, non esiste. Non come la conosciamo e ce la fanno conoscere. Questa nostra Ucraina è il frutto di pasticci politici, come è spesso destino delle terre di confine, di crocevia storici fatti di contese tra le varie potenze che di volta in volta si affacciano su quel lembo di terra. Molto per sommi capi, si può riassumere osservando che di Ucraine ne esistono quantomeno due, se non tre o quattro (ma rimaniamo sul semplice) e che il confine naturale che le divide coincide grosso modo con il fiume Dnepr, che bagna quella Kiev su cui è sorta la Rus’ cristiana. A Est del grande fiume è slavia, ortodossa, ben piantata nella steppa, russofona, con il cuore a Mosca. A Ovest la situazione è più frastagliata, meno omogenea: qui le influenze sono lituano-polacche e soprattutto austroungariche, specie nelle regioni della Bucovina e della Galizia, con Leopoli (Lemberg in tedesco, Lviv in ucraino), centro propulsore di quel sentimento nazionale ucraino, con una propria lingua e letteratura, che guarda all’Europa occidentale, dalla forte presenza cattolica, in cui il sentimento antirusso è parte costitutiva della propria identità.
A questo bisogna aggiungere che, nel periodo dell’Unione Sovietica, la Repubblica socialista di Ucraina altro non era che una propaggine dell’Urss, motivo per cui i vertici sovietici si sono sentiti liberi di tracciarne i confini in modo alquanto arbitrario – prassi, che, per inciso, non dovrebbe essere aliena ai Paesi occidentali, i quali hanno inventato gli Stati di mezza Africa e di parte del Medio Oriente in base al medesimo modus operandi. E dunque la Crimea, russa tanto quanto la Toscana è italiana, fu gentilmente regalata dal segretario ucraino del Pcus Nikita Krusciov all’Ucraina nel 1954, per commemorare i trecento anni dal trattato di Pereyaslav, nel quale fu sancita l’alleanza tra i cosacchi ucraini e Mosca, in funzione anti-polacca, così da rinsaldare il sentimento di unità tra “popoli fratelli”. La regione del Donbass, invece, letteralmente “bacino del Don”, entra a far parte dell’impero russo già nel Seicento; con il suo crollo e la rivoluzione bolscevica, diventerà parte della Repubblica Socialista d’Ucraina, quindi, de facto, parte integrante dell’Urss e molto più organicamente legato alla Russia che al resto dell’Ucraina. Seguendo la stessa ratio in quell’epoca in cui i confini interni all’Urss non contavano nulla, il Nagorno Karabach fu unito all’Azerbaigian, gettando le basi di un novo, irrisolto, devastante conflitto. Nel lontano 1990 Aleksandr Solženicyn, un testimone e un profeta, ricordava che russi e ucraini erano popoli fratelli, che avevano troppo in comune per accettare una dolorosa e artificiale separazione: ma, con tutto ciò, affermava anche, senza mezzi termini, che non potevano essere considerati parte dell’Ucraina territori da sempre russi, come, appunto, la Crimea e il Donbass. Territori che sono, al di là dei percorsi storici, regioni strategiche per la Russia: il primo dota il gigante continentale di un importante sbocco sul mare, il Mar d’Azov; il secondo è il principale distretto manifatturiero del Paese e un polo siderurgico, industriale e produttivo di grandissima importanza, con un sottosuolo ricchissimo di materie prime.
Questo è il quadro dal quale bisogna necessariamente partire, perché qui si trova l’origine di quella profonda faglia interna e antica nella quale ai nostri giorni si è infilata l’Alleanza atlantica, per impulso e sotto la guida della sua leadership angloamericana; l’obiettivo è far pendere il pendolo dell’Ucraina definitivamente verso Occidente, con il chiaro scopo di indebolire una Russia in netta ripresa, dopo gli anni durissimi che seguirono il crollo dell’Unione Sovietica, e per nulla prona ai desiderata dell’unico gallo rimasto nel pollaio.
E allora mettiamoci il naso e gli occhi, in quella faglia.
Siamo ai tempi di Euromaidan, è il novembre del 2013, e sul palco che sovrasta la piazza, in mezzo alla folla, ad inneggiare alla rivolta contro il legittimo governo del presidente Victor Yanukovic, reo di non voler firmare un accordo economico tra l’Unione europea e l’Ucraina (in quanto avrebbe significato un chiaro schieramento ad Occidente, a scapito dei profondi e storici legami con la Russia), vediamo alternarsi i rappresentanti dei partiti di opposizione ucraini agli europarlamentari, che distribuiscono biscotti ai manifestanti, tra cui l’italiano in quota al Partito Democratico Gianni Pittella, e, tra gli altri, il senatore americano John McCain.
Adesso allarghiamo la visuale ai lati della grande piazza, e vedremo i cani da guardia del golpe (perché di questo si è trattato), chiaramente impossibile senza la deterrenza delle armi. Ma c’era l’esercito regolare, allora, la polizia? No. Quegli organi rimanevano fedeli al governo legittimo. Erano altre le formazioni militari che presidiavano la piazza e facevano in modo che tutto avvenisse secondo piani ben prestabiliti altrove. E questo è confermato candidamente, a dimostrazione dell’atteggiamento spudorato col quale gli Stati Uniti si sentono legittimati a spostare le pedine sullo scacchiere mondiale a loro completo piacimento, dalle affermazioni di Victoria Nuland, assistente segretario di Stato per gli affari europei ed eurasiatici degli Usa, che in una conferenza del 13 dicembre 2013 affermò che i cinque miliardi di dollari investiti dagli Usa in Ucraina dal lontano 1991 erano un investimento volto “a darle un futuro che si merita” . La signora e l’amministrazione per la quale lavorava avevano, evidentemente, ben chiara la dottrina del cancelliere Otto von Bismarck relativa all’indebolimento della Russia, secondo il quale “la forza della Russia può essere insidiata soltanto mediante la sua separazione dall’Ucraina”. Lezione imparata a pieni voti e attuata cinicamente da subito, a fumi ancora caldi dell’Unione Sovietica. Ma l’operazione si presentava comunque complessa: dividere un paese dal suo naturale fratello non è un’impresa scontata. Allora si guarda a Ovest, dove il sentimento antirusso è strutturale, e da lì si troverà il modo per allontanare dalla Russia l’intero paese.
Ovviamente, c’è bisogno di una forza armata, coercitiva, ben organizzata e addestrata, che coordini le azioni, che mantenga l’ordine nel caos creato ad hoc, che terrorizzi i recalcitranti e li convinca con la forza a sottostare al nuovo ordine delle cose. E, dunque, torniamo nella piazza di cui sopra. E notiamo dei battaglioni, dei guerriglieri inquadrati in centurie, facenti parte di vere e proprie strutture militari, armati, equipaggiati, facilmente riconoscibili dalle uniformi. Sono i battaglioni di Pravyj Sektor, di Azov e di Svoboda, che urlano il grido di battaglia Slava Ucraini – Heroyam slava (Gloria all’Ucraina – Gloria agli eroi). Sono neonazisti. Si ispirano alla figura di Stepan Bandera (1909-1959), capo dell’organizzazione dei nazionalisti ucraini e alleato di Hitler durante la Seconda guerra mondiale e ora assurto al rango di eroe della patria, con tanto di statue e busti disseminati nelle pubbliche piazze e panegirici sui libri di scuola. Sono pagani, ripetono i riti e le modalità di reclutamento e addestramento delle SS di Himmler; sono razzisti, nel senso biologico del termine, ma al posto dell’ebreo la razza da eliminare dalla faccia della terra è quella russa. Sono dell’Ovest, il cui cuore nazionalista è ad Ivano-Frankvost. Odiano i russi come solo coloro che sono imbevuti di una ideologia nazista sanno odiare. Sono soldati nazisti. E come tali si comportano. Non fanno parte dell’esercito regolare, ma sono meglio armati, meglio addestrati, meglio motivati, hanno un grande seguito tra le giovani generazioni dell’ovest. A loro il ruolo di testa d’ariete, mastini, autori impuniti di pogrom, di massacri, spedizioni punitive.
Se il lettore pensa che io esageri, lo invito ad andarsi a cercare in rete qualche spot patriottico ucraino a tema antirusso. Poi ne riparliamo.
Senza ombra di dubbio, un odio tanto feroce e belluino viene alimentato anche dal ricordo dell’Holodomor, il genocidio per procurata fame programmato da Stalin tra il 1932 e il 1933, che falcidiò circa 4 milioni di contadini ucraini, – di cui la metà bambini- ai quali aveva deciso di “spezzare la schiena”, in quanto non entusiasti di aderire alla collettivizzazione forzata delle terre e di diventare da piccoli proprietari terrieri a braccianti nei kolchoz. Bisogna dire che lo sterminio dei kulaki fu transnazionale: sorte non migliore subirono quelli russi o appartenenti ad altre minoranze. Ma l’Ucraina, il “granaio dell’Urss”, doveva per forza aderire ed essere piegata.
Torniamo nel 2013. La rivoluzione di Maidan si allarga a macchia d’olio. Siamo a novembre. Passa dicembre, poi gennaio. Il presidente Yanukovic media, tenta di resistere, si sovrappongono gli incontri internazionali con i capi di stato europei per tentare di trovare una soluzione diplomatica alla crisi. Ma la sorte del Paese è, in realtà, già stata decisa. Nelle strade la polizia e l’esercito faticano a mantenere l’ordine. Si sente sempre più parlare l’ucraino, anche da chi fino al giorno prima aveva parlato russo, sventolano ovunque bandiere giallo blu. A febbraio, la resa. Yanukovic lascia, abbandona il paese. Al suo posto viene installato Petro Porosenko. Da quel momento inizia la guerra in Donbass.
Perché là ci sono, come si diceva, genti di etnia russa, che non intendono affatto vivere in un paese in cui la propria identità è considerata la feccia da estirpare dai sacri confini nazionali, a suon di decreti legge, tra cui, da subito, la revisione dei programmi scolastici, che prevedono la rimozione dell’insegnamento della lingua e della letteratura russa e la revisione della storia che li riguarda.
E questa gente, dunque, reagisce, con un’organizzazione uguale e contraria a quella di Kiev, ma senza sponsor occidentali. Nasce la Contromaidan, di cui nei nostri paesi praticamente nessuno ha mai neppure sentito parlare.
Ora i fatti si susseguono in modo concitato, in un botta e risposta che aumenta la tensione e fa deflagrare uno scontro il cui fuoco covava sotto la cenere della defunta Unione sovietica.
Alla “conciliante” risposta del Presidente di mandare l’esercito ucraino a “dialogare pacificamente” con le regioni “terroriste”, il Donbass reagisce attraverso la creazione delle milizie popolari e l’indizione di un referendum, da cui sarebbero nate le Repubbliche autonome di Lugansk e di Donestk (aprile 2014) e la richiesta alla Russia di farsi garante di un processo di pacificazione.
E’ la guerra. Una guerra che travalica il fronte e le trincee, ma che ha chiaramente come obiettivo la popolazione, per fiaccarne la volontà, in piena ottica terrorista, per spingerla a capitolare o ad andarsene, persino con un malcelato e deliberato intento di genocidio. Sono note le parole pronunciate all’alba della carneficina, dal presidente Porošenko: “Perché noi avremo il lavoro, loro no! Perché noi avremo le pensioni, loro no! Perché noi avremo i sussidi per bambini, persone e pensionati e loro no! I nostri figli andranno negli asili e nelle scuole, i loro vivranno nelle cantine! Perché non sanno fare niente. Così e solo così vinceremo questa guerra!”.
E poi arriva il 2 maggio. Odessa. All’interno della Casa dei sindacati ci sono i delegati dei manifestanti filorussi giunti nella città per protestare contro le politiche del nuovo governo, lì rifugiatisi per sfuggire alla violenza brutale dei battaglioni neonazisti. Ma sono nazisti, appunto, e fanno bene il loro mestiere. Per stanare i delegati, appiccano il fuoco all’edificio. Non appena qualche disgraziato cerca scampo gettandosi dalla finestra, viene massacrato di botte e finito con un colpo di pistola. Le donne, prima di seguire la stessa fine, vengono stuprate. Arriva la polizia, ma sta a guardare, quando non partecipa; niente e nessuno si frappone tra i carnefici e le loro vittime. Si contarono 43 morti, innumerevoli feriti e, di fatto, nessun colpevole: nessuna inchiesta, nessun processo, tutto regolare, tutto insabbiato. Colpirne uno per educarne cento. Non era così?
Da allora il re è più nudo di un verme, per chiunque abbia l’onestà intellettuale di guardare, da allora solo la monotonia di una guerra civile devastante. Da allora cadono le bombe su quel martoriato territorio, e, come aveva preannunciato Porošenko, i bambini fanno scuola nei sotterranei, e lì giocano, vivono, e da lì risalgono solo quando il frastuono dell’artiglieria ucraina si tace, per guardare ancora la luce del sole e respirare aria fresca. Da allora le case, i villaggi, gli ospedali, le scuole, tutti obiettivi squisitamente civili, sono tiro a segno dell’esercito ucraino. È in questi anni che a Donestk, un tempo la città delle rose, viene inaugurato il Viale degli Angeli, una strada in cui sorge un memoriale ricolmo di pupazzi e bambole, dedicato ai tanti bambini uccisi dal fuoco ucraino. Il tutto, nell’indifferenza, nel silenzio, nel disinteresse dell’Occidente. Perché, nell’ipocrita doppia morale di questa brutta storia, ci sono due specie di vittime: quelle ucraine, funzionali alla narrazione, su cui ci si fionda come avvoltoi e di cui non ci lesinano immagini dal grande impatto emotivo né la costante conta dei civili colpiti; poi quelle del Donbass, ora anche della Federazione Russa (penso a Daria Dugina o a Fedor, il piccolo che, pur ferito gravemente, è riuscito a salvare due coetanee nell’attentato di pochi giorni fa dei terroristi ucraini di Bryansk), che, colpevoli di far vacillare l’intero impianto narrativo, non vengono neppure menzionate dai grandi mezzi di comunicazione. Dal 2014 al 2022 sono stati stimati oltre diecimila morti, da entrambe le parti.
La Russia brontola. Qualche cosa bisogna pur far finta di fare. E allora si muove la diplomazia e vengono partoriti i famosi Accordi di Minsk (5 settembre 2014), sotto il patrocinio dell’allora cancelliera tedesca Angela Merkel e il primo ministro francese François Hollande. Il testo è perfetto, prevede, tra le altre, l’immediato cessate il fuoco, il monitoraggio dell’Osce del rispetto delle clausole, il riconoscimento agli oblast’ dell’Ucraina orientale di uno status che potremmo equiparare a quello delle nostre regioni a statuto speciale. Peccato che da Kiev non sia mai stata data attuazione all’art. 11 in materia di autonomia regionale (incagliatosi nell’art. 133, mai riformato, della costituzione ucraina). Ma soprattutto, che tali accordi siano stati nulla più che una farsa, un modo per preparare la guerra contro la Russia, con calma e senza essere troppo disturbati. Quando il presidente Putin taccia gli occidentali di essere gente bugiarda, infida e di cattiva volontà, come dargli torto, dopo le pubbliche e sconcertanti affermazioni di poche settimane or sono della signora Merkel e del suo collega Hollande, in cui ammettono senza reticenza che gli Accordi di Minsk sono serviti solo per dare il tempo all’esercito ucraino di rimettersi in forze, ovvero di essere addestrato ed armato fino ai denti?
Passano gli anni, il conflitto prosegue nella sostanziale indifferenza dell’Occidente, gli Accordi di Minsk sono carta straccia e si comincia a parlare di un possibile ingresso dell’Ucraina nella Nato.
Un anno fa, il 24 febbraio 2022, la Federazione Russa rompe gli indugi e varca il confine ucraino. Ma non scoppia nessuna guerra. Semplicemente, la guerra a bassa intensità si trasforma in alta, e il mondo si sveglia e si accorge della sua esistenza.
Da allora, gli avvenimenti sono noti a tutti, tranne che in Donbass si continua a morire quotidianamente a causa degli attacchi ucraini su obiettivi civili, con la differenza che questa volta le armi sono targate Usa, Italia, Repubblica Ceca, Francia, Regno Unito etc., e i combattenti, armati e ben preparati, addestrati da esperti militari dell’Alleanza, sono in buona parte mercenari. Naturalmente, nelle trincee intorno a Bakhmut ci sono anche tanti ragazzi e uomini, strappati, letteralmente, alle loro famiglie, alle loro vite, magari mentre erano in casa, o per la strada, caricati su furgoni militari e spediti al fronte a morire per la gloria dell’Ucraina. Intanto l’eroe Zelensky posa per Vogue e appare sugli schermi di ogni consesso politico internazionale con il costume da comandante in capo color kaki, la barba ben curata e l’aria fatale dell’ora che scoccò. Solo che questa volta ci siamo dentro fino al collo. E non nel senso che ce ne occupiamo, per cercare una pace giusta, quindi vera e duratura, che si fondi sulla storia e le differenze etniche, linguistiche, culturali delle varie anime di cui è composta la Terra di confine, ma per sostenere in modo cieco, folle e criminale una politica che ci porterà inevitabilmente a un conflitto frontale e aperto con la Federazione Russa.
Sento già il ritornello: “Tra l’aggressore e l’aggredito, il secondo ha sempre torto e bisogna schierarsi a fianco del primo”. E qui lascio la parola al grande Franco Cardini, che in un suo editoriale della fine di gennaio, a tal proposito, commenta, dopo aver passato in rassegna le varie aggressioni sferrate dall’Occidente nell’ultimo ventennio e passate sotto eufemismi quali “intervento umanitario” ed “esportazione della democrazia”: “E venite ora a scandalizzarvi per l’aggressione russa all’Ucraina, sepolcri imbiancati? Tenete sempre presente che quando ci sono un aggressore e un aggredito ci sono a monte di entrambi anche un provocatore e un provocato: a funzioni inverse, perché il provocatore agisce con la precisa volontà di venire aggredito”.
Non so se Mosca sia la Terza Roma. Da cattolica, però, guardo alla Russia come a una possibile risposta contro la decadenza morale, il nichilismo culturale, il sovvertimento antropologico e il caos esistenziale credo ormai irreversibili in cui il nostro Occidente si è inabissato. A questi mali la Chiesa di Roma, per i mille e uno motivi che non è qui il caso di ripercorrere, non è più in grado di contrapporsi come katechon, e forse neppure vuole. Quello che, però, so è che i militari russi combattono sotto stendardi con l’effigie del Cristo Pantocrator, che in Russia si costruiscono chiese, le parrocchie crescono, i monasteri sono pieni di giovani uomini e donne e che a nessuno salta in mente di sfrattare la Liturgia dal Cielo per farla rovinare sulla Terra, perché bisogna blandire il mondo. Questo mi basta, con buona pace di quei nostri sinceri cattolici, anche fini studiosi e molto più colti della sottoscritta, che equiparano i russi di oggi ai Visigoti di Alarico e definiscono la Chiesa russa eretica, scismatica e priva dell’azione della Grazia. Quello che so è che, se un domani vedessi sbucare all’orizzonte della Grande Pianura un gruppo di soldati con la Z sull’uniforme e il vessillo del Cristo, ortodossi o non ortodossi, un bel piatto di tagliatelle con il ragù non glielo toglierebbe nessuno.
Che l’Onnipotente ci protegga e abbia misericordia di noi.
____________________
Michela Di Mieri è autrice del libro Mi sono innamorata dell’eterno. Storia di un ritorno a casa, Chorabooks 2022