Lettera da Aosta / A margine di un colloquio sul federalismo integrale
di Andrea Désandré
Una conferenza ospitata nella più prestigiosa delle sedi istituzionali e patrocinata da cariche pubbliche apicali è senz’altro il più prevedibile degli eventi immaginabili: relatori di alto profilo, moderatore qualificato, saluti rituali, lusinghe vicendevoli, uditorio composto e dibattito controllato. Protocolli cerimoniali tanto standardizzati quanto collaudati solitamente riescono nel loro principale intento, scongiurare cioè qualsiasi imprevisto. Gli dei però, ammoniva il corifeo delle Baccanti euripidee già 2500 anni fa, “ci creano tante sorprese: l’atteso non si compie, e all’inatteso un dio apre la porta”. Non che nel corso del recente colloquio sull’Héritage du Collège et l’actualité de la pensée fédéraliste, organizzato dalla Fondation Chanoux presso il Salone Ducale dell’Hôtel de Ville ad Aosta, l’atteso non si sia compiuto, anzi, tutto si è svolto nel pieno rispetto del canone di questi riti pubblici. Fino alla fine, quando improvvisamente il dio dell’imprevisto si è incarnato proprio nell’inibitore, o all’occorrenza gestore, dell’inaspettato, ossia il moderatore Etienne Andrione, già segretario generale della Fondation, il quale chiudendo brillantemente l’evento ha aperto la porta a diversi temi scottanti in genere ostracizzati dal dibattito pubblico benché di bruciante attualità.
Il destro gliel’ha offerto il primo relatore, il quale, ragionando sulla gestione governativa dell’emergenza sanitaria, ha presentato la vaccinazione di massa “militarizzata”, così l’ha definita, come un buon esempio di applicazione pragmatica del principio di sussidiarietà, cardine teorico-pratico attorno a cui dovrebbe ruotare un ordinamento federale capace di garantire l’autonomia effettiva degli organismi intermedi che collegano il cittadino al centro statuale. Predisposta da un’oligarchia europea autoreferenziale (ora sotto inchiesta per l’opacità delle trattative d’acquisto di vaccini sperimentali costati miliardi di euro), stabilita da un governo tecnico e messa in mano a un generale dell’esercito, la vaccinazione coatta è semmai sintomatica – ha fatto cortesemente notare il moderatore – di un sistema centralista in ottima salute, tanto potente da ridurre gli organi intermedi a mere cinghie di trasmissione del potere centrale. Potere pervasivo che, ertosi a padrone assoluto del discorso, impedisce la possibilità stessa del confronto ricorrendo sistematicamente alla censura in ogni ambito, sanitario, climatico o geopolitico che sia. Hanno diritto di parola solo i suoi portavoce, come quel Klaus Schwab, fondatore del Wef nonché teorico del globalismo transumanista, chiamato regolarmente – “on ne sait à quel titre”, chiosa Andrione – a catechizzare i grandi della terra in occasione dei G20, o come quell’Harari che lo ispira, fautore dell’uomo bionicamente “piratabile”, dell’uomo-Dio tecnologicamente ibridato con il non-umano.
Credo si debba essere grati, e molto, a chi ha finalmente rotto la scandalosa congiura del silenzio orchestrata dai salotti buoni della cultura e del giornalismo al fine di tabuizzare temi potenzialmente esplosivi. Vaccinazione forzata in primis, nel nostro Paese perfetto esempio non di sussidiarietà, bensì di violento esercizio centralista del potere in spregio a qualsivoglia autodeterminazione, a partire da quella personale, fondamento primo di ogni dottrina federalista. Uno Stato che, in nome dello scientismo elevato a credo ufficiale, pretende di penetrare nel corpo tramite un ago, pena la perdita del diritto al lavoro e l’esclusione dal consorzio sociale; uno Stato che impone inoculazioni sperimentali di dubbia efficacia e di certa pericolosità facendo leva sulla paura (“chi non si vaccina muore”, Draghi), minacciando (“datemi i nomi dei non vaccinati”, Figliuolo), fiancheggiando i propagatori d’odio (“campi di sterminio per chi non si vaccina”, Gigantino; “mi divertirei a vederli morire come mosche”, Scanzi; “vanno sfamati col piombo”, Cazzola, eccetera) e reprimendo le manifestazioni di dissenso (ci siamo forse scordati gli idranti di Trieste?); uno Stato che zittisce chiunque sollevi dubbi o chieda elementari assunzioni di responsabilità (come conciliare l’obbligo con il deresponsabilizzante “consenso informato”?); ebbene, un tale Stato tutto è fuorché uno Stato di diritto fondato sui diritti inalienabili della persona. E questo Stato inqualificabile (d’eccezione? autoritario? dispotico?) si è manifestato ieri appena, non nella lontana era dei totalitarismi. Perciò urge riaprire seriamente la riflessione sulla concezione filosofica ancor prima che giuridico-politica più volte evocata durante il colloquio: il personalismo, di cui il fondatore-mentore del Collège universitarie d’Études fédéralistes Alexandre Marc è stato un autorevole caposcuola. Si tratta di un’importante corrente, di matrice cattolica, del pensiero federalista incentrata sulla persona, intesa come entità metafisicamente determinata intangibile dai poteri di questo mondo. L’uomo, afferma Marc nei suoi vertiginosi Fondements du fédéralisme personnaliste, è un “essere eccentrico”, un “altrove”, “un être toujours au-delà de lui-même”; essenza umana ed esistenza dunque non coincidono, cionondimeno sono in stretto rapporto: “l’existence humaine est le lieu sacré de la réalisation de l’essence”. Porre le fondamenta dell’edificio costituzionale in quel luogo sacro che è la persona significa costituire un ordine ascendente che legittima e limita il potere dal basso, significa insomma invertire la sua classica dinamica discendente, dall’alto, dal centro verso la periferia. Quanto questa inversione sia urgente lo si può dedurre non solo dal nostro recentissimo passato, ma pure dalle inquietanti prospettive aperte dagli ideologi del transumanesimo: il rischio, sempre più concreto, è che l’uomo diventi la periferia.