di Aurelio Porfiri
In questi giorni ho seguito su Netflix una serie coreana intitolata Fede e menzogne. In otto documentari vengono raccontate le storie vere di abusi da parte di “leader religiosi” di ispirazione cristiana ai danni dei loro fedeli. Quello che viene riportato è agghiacciante ma ciò che più mi ha colpito è come uomini e donne all’apparenza del tutto ordinari riuscissero a ottenere da coloro che li seguivano un’obbedienza cieca.
Tratto comune in tutte le storie è la pretesa dei leader di essere Dio stesso. Certo, vicende di manipolazione psicologica e di abusi mediante la religione non le troviamo solitamente in Corea e purtroppo esistono anche nella Chiesa cattolica, come la cronaca ci ricorda. Ma assistere a questi eventi ci fa comprendere come occorra stare sempre ben attenti per capire che cosa la fede non deve essere.
Per noi cattolici in realtà il problema, al livello di leadership, non dovrebbe mai porsi, grazie alla garanzia della Scrittura e della tradizione. Il leader terreno della Chiesa, il papa, non è il capo della Chiesa, che è Cristo. Al papa un tempo venivano cantate, alla sua entrata in San Pietro, le parole che Gesù disse al pescatore di Galilea, Tu es Petrus. Gli viene detto “Tu sei Pietro”, non Dio o Gesù Cristo. Tu sei il successore dell’apostolo che Gesù scelse per guidare la Chiesa, non per sostituirsi a Lui. Sei il successore non di un grande sapiente, ma di un umile pescatore, di colui che dopo aver passato tanto tempo accanto al Signore e aver ricevuto un così grande compito non poté fare a meno di rinnegarlo. Questo equivale a un colossale bagno di umiltà per ogni papa nel corso dei secoli ed è anche un avvertimento per i fedeli, perché combattano la tentazione di “divinizzare” il papa.
Gli stessi titoli che la tradizione riserva al papa, servus servorum Dei, vicario di Cristo, successore di Pietro, ne indicano certamente l’alta funzione, ma nello stesso tempo ricordano come non sia lui l’oggetto ultimo della nostra devozione. Dobbiamo seguirlo nella misura in cui egli ci porta a Cristo. E questo vale per ogni papa. Se un papa un giorno ci chiedesse di non credere alla risurrezione, dovremmo seguirlo? Certamente no. Questo protegge lui da manie di grandezza e protegge noi dallo sbagliare l’oggetto della nostra fede.
Henri de Lubac nella sua Meditazione sulla Chiesa affermava: “No: se Gesù Cristo non è la sua ricchezza, la Chiesa è miserabile. La Chiesa è sterile se lo Spirito di Gesù Cristo non la feconda. Il suo edificio crolla se Gesù Cristo non ne è l’Architetto, e se il suo Spirito non è il cemento che tiene insieme le pietre vive con cui è costruito. È senza bellezza, se non rispecchia l’unica bellezza del Volto di Gesù Cristo, e se non è l’Albero la cui radice è la Passione di Gesù Cristo. La scienza di cui si vanta è falsa; è falsa la sapienza che l’adorna, se non convergono l’una e l’altra in Gesù Cristo, e se la sua luce non è una «luce illuminata» che tutta viene da Gesù Cristo, essa tiene immersi nelle tenebre di morte. È menzogna tutta la sua dottrina, se essa non annuncia la verità che è Gesù Cristo. È vana tutta la sua gloria, se essa non la fa consistere nell’umiltà di Gesù Cristo. Il suo nome stesso ci è indifferente, se non evoca subito il solo Nome dato agli uomini per la loro salvezza. Non rappresenta nulla per noi, se essa non è per noi il sacramento, il segno efficace di Gesù Cristo”.
Credo che parole del teologo gesuita ci dicano molto. Tutti, il papa, i cardinali, i vescovi, i fedeli, siamo giudicati alla luce della Scrittura e della tradizione e dobbiamo confrontarci continuamente con l’ammonimento di san Paolo (Galati 1, 8): “Se anche noi stessi o un angelo dal cielo vi predicasse un vangelo diverso da quello che vi abbiamo predicato, sia anatema!”.
Purtroppo le tentazioni divinizzatorie sono segno di un’epoca in cui fatalmente si è smarrito il senso dello spirituale e ci si riferisce unicamente al materiale.