Lettera / San Giuseppe e la forza di essere padri oggi

di Cristiano Lugli

Oggi, 20 marzo 2023, la Chiesa cattolica celebra la festa di San Giuseppe, sposo di Maria e patrono universale della Chiesa. Notoriamente la festa di San Giuseppe ricorre il 19 marzo, ma quando cade in una domenica di Quaresima essa viene traslata, cioè spostata al giorno seguente.

Come ogni anno, anche questa volta abbiamo avuto notizia delle polemiche rispetto alla celebrazione della festa del papà, accezione oramai fastidiosa per chi vede nel padre un nemico della società stessa.

La distruzione della figura del padre parte da molto lontano, e oggi ne vediamo solo le conseguenze finali. A ben pensarci, per quanto si possa essere favorevoli alla festa del papà, siamo sicuri che la ricorrenza sia veramente indispensabile così com’è oggi?

Quale papà viene celebrato in queste ricorrenze? Che idea si ha del padre? E, soprattutto, chi è veramente il padre oggi?

La risposta è semplice: il padre è diventato un accessorio, una figura non ben definita, priva di autorevolezza.

Due i modelli di padre moderno: quello indifferente o più meno inesistente, e quello autoritario, incapace di esercitare il suo ministero con autorevolezza, ovvero con fortezza e carità.

Fortezza e carità: due delle più alte virtù che troviamo in san Giuseppe, unico e vero modello di paternità, unico vero modello di capofamiglia.

Giuseppe con la sua fortezza ha guidato la Santa Famiglia in mezzo alle difficoltà e alla persecuzione. Con la sua carità ha creduto a Maria, l’ha accompagnata e protetta. Aderendo al sommo e profondo mandato divino di padre putativo del Verbo Incarnato, ha cresciuto Gesù, educandolo ala vita e al lavoro.

Per comprendere meglio la figura di san Giuseppe anche come lavoratore e maestro nel campo professionale va ricordato che il termine artifex (colui che esercita un’arte) designava sia l’artista sia l’artigiano. L’arte non veniva separata dal mestiere, perché nella tradizione ciò che è realizzato in cnformità all’ordine merita d’esser considerato come un’opera d’arte a tutti gli effetti. E non già per un’interpretazione estetica fine a se stessa – come potrebbe intenderla la mentalità moderna – ma secondo l’accezione dell’arte quale “imitazione della natura nel suo modus operandi”, ovvero nel modo d’operare del Creatore, dal quale tutto dipende e al quale tutto si conforma, elevando il concetto di lavoro artigianale a una dimensione spirituale che pone il suo principio primo e ultimo in Dio. Più l’azione dell’artigiano, nel suo settore particolare, si fa simile a quella del Creatore, più la sua opera si integra nell’armonia del Creato. In ciò risiede la sapienza tradizionale, nel ricondurre ogni cosa a un ordine superiore, cioè a Dio.

Non a caso le arti antiche possedevano una propria tradizione sacra che mostrava la presenza di un’origine spirituale recondita. In ciò veniva espressa l’idea di una conoscenza esclusiva e “segreta” delle arti che il mastro (maestro qualificato nella conoscenza e nell’insegnamento di una determinata arte) trasmetteva all’apprendista. Da padre a figlio. Era sulla base di tali princìpi che l’artifex d’un tempo svolgeva rettamente la sua attività, fedele a un interesse in nessun modo alterato da motivi materiali e consapevole di occupare il grado gerarchico che gli apparteneva per vocazione. Creando, costruendo ed insegnando, egli concorreva effettivamente alla realizzazione del piano divino e viveva al contempo in ogni atto il valore di un rito.

Questo era sicuramente anche il rapporto padre-figlio fra san Giuseppe e Nostro Signore, rapporto di trasmissione di un’arte sacra.

Oggi tutto ciòo non esiste più: il padre è quello che lavora in azienda, che produce un reddito, che non lavora per vivere, ma vive per lavorare.

Snaturato dalla sua vocazione, questo padre è schiacciato dall’ingranaggio della produttività finalizzata al consumo, ed è sradicato dal focolare domestico di cui dovrebbe esserne custode.

Quante volte abbiamo sentito dire: “Mio padre è stata una bravissima persona, un grande e instancabile lavoratore”.

Siamo cresciuti in una società che ci ha mostrato la figura del padre modello  come quella del lavoratore instancabile. Tuttavia, se chiediamo “ma quante volte tuo padre ha giocato con te da bambino? Quante volte ha fatto i compiti con te? Quanto è stato presente nella tua vita?”, cala il silenzio. Un silenzio che ben rappresenta ciò che il padre è ormai da molti anni Un libro di Claudio Risé è intitolato Il padre. L’assente inaccettabile).

Che cosa dobbiamo fare nell’immediato noi, padri di famiglia, per essere degni di tale nome, degni di tale ministero e, soprattutto, per avere la forza di essere padri oggi, in mezzo ai lupi rapaci?

È indispensabile rimediare a ciò che hanno fatto credere fino ad ora, e cioè che il padre di famiglia deve essere quello che porta a casa il salario, anche se poi il suo non basta ed è indispensabile pure quello della moglie, il che riduce la famiglia a un agglomerato di singole unità disunite che si salutano al mattino e si ritrovano stanche morte alla sera.

E i figli? Beh, i figli siano affidati allo Stato, che provvederà a farne amebe indottrinate, obbedienti al pensiero e moderno.

Dobbiamo abbattere questi schemi, dobbiamo uscire da queste folli condizioni.

Padri di famiglia! Per l’esempio datoci da san Giuseppe, difendiamo le nostre mogli esaltandole nel loro ruolo di madri, di generatrici della vita, di angeli del focolare che non possono essere in alcun modo sradicate da esso. Difendiamo i nostri figli non consegnandoli allo Stato, quello Stato che, come scriveva Guareschi già settant’anni addietro, “fa le strade e fa camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e sempre più ci avvince nella matassa ormai inestricabile  delle sue leggi e dei suoi regolamenti, e sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria”

È nostro dovere proteggere i figli, preservarli da un veleno che non è affatto necessario, come vi dirà sovente qualcuno, “per farsi gli anticorpi perché tanto prima o poi dovranno scontrarsi col mondo”, poiché quello stesso veleno li avvelenerà di un avvelenamento irreversibile.

Cari padri di famiglia, per quanto difficile e per quanto nelle nostre possibilità, cerchiamo di ritagliarci il tempo per la nostra famiglia, perché quegli attimi, quei momenti, quei sorrisi dei nostri bambini e quelle necessità dei figli più grandi, a cui dobbiamo prestare ascolto e aiuto, nessuno ce li ridarà più.

A nessuno, in questo mondo così capovolto, interessa di noi, dei nostri figli, dell’amore per le nostre famiglie. Dobbiamo quindi essere noi gli sciocchi che si sentono in debito con questo mondo?

C’è in ballo tutto: la sovranità genitoriale, la sovranità biologica, la salvezza delle anime dei nostri figli e delle nostre mogli, da cui dipende anche la nostra salvezza, poiché di loro siamo responsabili e saremo chiamati a risponderne dinnanzi a Dio.

In fondo, cari padri di famiglia, al termine di questa vita conterà solo ciò che avremo fatto per Dio, che ci ha chiamati ad adempiere al meglio ai nostri doveri all’interno della famiglia.

San Giuseppe, modello assoluto di paternità, ci assista e ci ricolmi di quella virtù quantomai carente oggi: la fortezza.

Familiarum Columen, ora pro nobis!

 

 

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