Caro Valli,
tempo fa ho letto che l’architettura sacra dovrebbe suscitare in chi la vive “l’urgente bisogno di togliersi il cappello”.
Ora, sia l’immagine del progetto che lei pubblica nell’articolo Architettura sacra / Il premio pontificio e quel senso di negazione [qui], sia – per fare un altro esempio più datato e famigerato – la cappella dell’adorazione del nuovo cosiddetto santuario di San Giovanni Rotondo, mi pare suscitino quello di coprirsi il volto, eventualmente col medesimo cappello.
Nel caso del progetto milionario di Renzo Piano, oltre alla scoperta e parziale rimozione di simboli massonici, c’è stata anche quella assai ecologica del riciclo: era infatti un vecchia bozza di stazione ferroviaria!
In questo caso chissà, magari si trattava di un parcheggio riservato ad auto elettriche con relative colonnine oppure di un recinto per maiali che, oltre al richiamo alla variante nipponica della favola di Pinocchio, sono anche utilissimi per ulteriori produzioni artistiche come quella di Innsbruck.
Però, vedendo l’immagine, quello che mi è balzato alla mente è stato uno strano parallelo con la comunione sulla mano o in bocca, e cerco di spiegarlo.
Il vescovo di Ravenna, quando ancora abitavo lì, era monsignor Verucchi e ricordo che mi colpì quando, in occasione mi pare della messa per il decimo anno di episcopato in piazza San Francesco, disse prima della distribuzione delle particole: “In questa festa non vi obbligo, ma vi chiedo per favore: la comunione fatela in bocca”.
Io allora ero proprio al di fuori della questione, ma quelle parole mi sono rimaste nel cuore e penso, oggi che ricevo l’Eucaristia sulla bocca, di avere capito cosa intendesse il vescovo: è questione di intimità.
Nella festa bella e sentita di un vescovo molto amato dalla sua città si era diffusa tra noi l’intima gioia della comunione tra il gregge e il suo pastore, ed era bello conservarla anche attraverso quel gesto.
La comunione sulla mano è possibile e, come scrive su Duc in altum il signor Colattini [qui], può essere indifferentemente preferita dalla sensibilità di qualcuno, ma non è oggettivamente indifferente.
Così come non è affatto indifferente lo spazio liturgico: basti vedere dove viene celebrata la messa al sinodo tedesco (sorvolando sul come). Ometto l’aggettivo santa per costernata provocazione.
Perciò anche sprofondare in queste strutture asettiche e macabre non può essere considerato indifferente e anzi, se riflettono una qualche forma di comunione, c’è da chiedersi con chi questa sia.
Nicolò Raggi
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Caro Valli,
ho letto il suo breve commento [qui] relativo al premio pontificio assegnato all’adeguamento dello spazio liturgico della Cappella della Fondazione Santi Francesco d’Assisi e Caterina da Siena a Roma.
Non mi stupisco di tale premio: da anni, regolarmente, i progetti che vincono i concorsi della Cei per la realizzazione delle nuove chiese non rappresentano più il sacro ma il vuoto. manca qualsiasi afflato per ciò che deve essere una chiesa.
Il discrimine sostanziale tra l’edifico chiesa dei cattolici e tutte le altre espressioni del sacro è la Presenza reale; ecco, se non si crede che tutto deve ruotare intorno a questa Presenza, che tutto debba essere fatto a maggior gloria di Dio, allora si cade in un esercizio formale che deve essere giustificato e raccontato da “chiacchiere”, vuote come il vuoto che descrivono.
Non si discute la qualità compositiva ed estetica (che però a volte è veramente desolante) ma l’errore di fondo nell’affrontare il progetto dello spazio sacro. Viene da chiedersi se chi pensa queste “cose” crede a qualcosa e, se crede, in cosa o a cosa crede.
Forse bisognerebbe ripartire da qui: a chi si affidano i progetti degli spazi liturgici? A persone che non avvertono il timore e la responsabilità nell’accingersi a edificare per Dio?
Lettera firmata
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