Necessità della Passione di Gesù. Spiegata da san Tommaso
di Cristiano Lugli
In questi sacri giorni che accompagnano la settimana santa tutte le letture della Santa Messa sono orientate a farci meditare sulla Passione di Cristo: dalla lettura della Passione secondo san Matteo nella domenica delle palme, passando per il lunedì santo con la cena di Betania, proseguendo nei due sacri giorni successivi con la Passione secondo san Marco e san Luca. Tutto unito dalle letture dei profeti Geremia e Isaia, ad annunciare i patimenti e le sofferenze che avrebbero portato Gesù Cristo all’estremo sacrificio della Croce.
La liturgia ci mette dunque davanti a tutti i dolori della Passione: dal tradimento di Giuda alla cattura; dall’orto degli ulivi fino al sinedrio; da Pilato alle percosse e alle burle dei soldati; dalle botte, dagli sputi, dalla flagellazione, dalla corona di spine fino alla salita del Calvario, con ben tre dolorosissime cadute, con gli spasimi della sua santa madre Maria. E ancora: dai chiodi sulle mani e sui piedi, allo strazio dell’elevazione della Croce che, come spiega san Tommaso, «purifica anche l’aria» (Somma Teologica, III, 46,4). In ultimo, la morte, la lancia nel costato e la deposizione.
Eppure, descritto così, così brevemente, il racconto della Passione di Cristo non rende l’idea di ciò che Gesù ha veramente patito per noi.
Ciò che sappiamo, ciò che noi immaginiamo, non è davvero niente a confronto di ogni singola cosa che Egli ha sofferto in quelle seppur “poche” ore che lo hanno portato alla morte. Strazio del corpo, strazio del cuore, strazio dell’anima.
Sempre san Tommaso d’Aquino spiega che «il suo dolore superò ogni dolore di qualsiasi penitente: sia perché deriva da una maggiore carità e sapienza, virtù che accrescono direttamente il dolore della contrizione, sia perché egli soffriva simultaneamente per i peccati di tutti, secondo le parole del profeta [Is 53,4]: “Si è veramente addossato i nostri dolori”» (S. T. III, q. 46, a.6 ad 4).
È allora lecito chiedersi, in questi giorni che ci assorbono nelle meditazioni sulle sofferenze di Nostro Signore, se esse furono davvero così necessarie e indispensabili.
Tutti, nessuno escluso, anche alla luce della più profonda Fede, hanno il diritto di chiedersi: perché? Perché Dio, per salvarci, ha permesso queste atroci sofferenze nella persona di suo Figlio? Non poteva salvarci diversamente?
Per rispondere a queste umane domande, è necessario farsi aiutare proprio da san Tommaso d’Aquino, che già in precedenza abbiamo chiamato in causa.
Ebbene sì, Dio avrebbe assolutamente potuto salvarci in altro modo, essendo Egli onnipotente e quindi non vincolato a qualsivoglia circostanza o restrizione.
Tuttavia, spiega san Tommaso, la Passione di Cristo fu il modo più conveniente perché era quello che offriva più vantaggi:
- Porta l’uomo a riamare Dio per l’infinito Amore che Egli, con la sua immolazione, gli dimostra. Lo provoca, dunque, a riamarlo e ad amarlo maggiormente;
- Mostra nella pazienza delle sofferenze di Cristo l’esempio di ogni virtù;
- Stimola l’uomo a mantenersi lontano dal peccato a ragione del prezzo pagato con la sofferenza di Cristo: «Siete stati comprati a caro prezzo: glorificate e portate Dio nel vostro corpo» (1 Cor 6,20).
- Riscatta l’uomo perché, come a causa di un uomo (Adamo), l’uomo aveva meritato la morte, per i meriti di Gesù uomo – vero uomo -, è stata vinta la morte;
- Viene così meritata per l’uomo la grazia della giustificazione e la gloria della beatitudine
Sempre nella Somma (III, 46,4), il teologo ci sprona a comprendere quanto in particolare la morte in Croce di Gesù sia stata conveniente al massimo grado, perché:
- È l’esempio assoluto di virtù;
- Era il modo più conveniente per soddisfare il peccato di Adamo;
- Prepara per noi la scala per il Cielo;
- Il simbolo della Croce abbraccia tutto il mondo;
- Risponde a molte figure dell’Antico Testamento: l’Arca di Noè, il bastone di Mosè, l’Arca dell’Alleanza
La Passione di Gesù fu inoltre consona sia alla giustizia di Dio, che alla sua infinita misericordia, nel primo caso perché, mediante le sue sofferenze Cristo soddisfece per il peccato del genere umano, liberando così l’uomo in virtù della sua stessa giustizia; nel secondo caso perché, non essendo l’uomo in grado di soddisfare da sé per i peccati di tutta la natura umana, Dio gli diede come redentore il proprio Figlio: «Tutti sono giustificati gratuitamente per la grazia di lui, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù, che Dio ha posto quale propiziatore per mezzo della fede in lui» (Rm 3,25).
I suoi patimenti avvennero poi nella città di Gerusalemme, e ciò, commenta sempre il Dottore Angelico, fu convenientissimo.
Gerusalemme era infatti la città prescelta da Dio per i sacrifici dell’antica Legge, figura di quell’unico sacrificio in cui Cristo «offri se stesso per noi, oblazione e sacrificio a Dio, profumo di soave odore» (Ef. V., 2). Una volta per tutte, il sacrificio supremo, che supera e si sostituisce a tutti gli altri.
Eppure questo estremo sacrificio, quello della Croce, si compie fuori dalle mura della città, sul Calvario. San Giovanni Crisostomo attribuisce questo fatto alla ragione per cui Cristo «non moriva soltanto per quella città, ma divenendo offerta del mondo intero a Dio, il lavacro di rigenerazione per l’umanità».
Non dentro il tempio ebraico, dunque, e neppure in Gerusalemme, ma fuori: sotto il cielo, sul Calvario, davanti al mondo intero.
E quel Sangue, quel preziosissimo sangue che gronda dalle piaghe di Gesù, fu quanto mai necessario per sanare quello stesso mondo da Dio creato, gemente da secoli sotto il peso della stessa maledizione divina: «Maledetta la terra del tuo lavoro » (Gen. 3, 17), e che ora assiste all’immolazione del Figlio dell’Uomo. Grazie a quel Sangue, grazie alla somma convenienza di quei patimenti che umanamente ci paiono inspiegabili, il mondo creato ora è di nuovo fatto puro per il beneficio inestimabile di quel lavacro rosso che scorre a fiumi tra le miserie delle creature.
Quel Dio sospeso fra la terra d il cielo, quel ponte, quella scala che santifica l’aere, diviene anche simbolo e realtà del Creatore che si riconcilia con il creato: «Pacificans per sanguinem crucis Eius sive quae in terris sive quae in coelis sunt» (Col. 1, 20).
Guardiamo a quei patimenti necessari, a quei dolori necessari, a quella cruenta morte necessaria, non come spettatori esterni, per quanto dispiaciuti, ma come beneficiari di quel fine ottenuto con un mezzo così doloroso quale la morte di Croce a cui Cristo si è fatto, fino all’ultimo respiro, obbediente.
Viviamo «configurati alle sofferenze e alla morte di Cristo» (Fil 3,10) poiché, come ricorda sempre san Paolo, «se siamo figli Dio, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, purché partecipiamo alla sua passione per partecipare anche alla sua gloria» (Rm 8,17).
Cristiano Lugli