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Dottrina della scoperta / Un documento pontificio superficiale e fuorviante

di Stefano Fontana

Il 30 marzo scorso è stato pubblicato un documento di due dicasteri pontifici, quello della cultura/educazione e quello dello sviluppo umano integrale sulla violenza esercitata nei confronti degli indigeni mediante l’esproprio delle loro terre, l’eliminazione delle loro culture, la negazione dei loro diritti. Il breve documento è soprattutto focalizzato sulla cosiddetta “dottrina della scoperta”, secondo la quale la giurisprudenza dell’Ottocento legittimava l’esproprio delle terre abitate dagli indigeni da parte della potenza che le scopriva, però non può evitare di toccare, direttamente o meno, l’intero quadro dell’evangelizzazione delle nuove terre, soprattutto americane, condannando le politiche coloniali e di assimilazione e precisando che la “dottrina della scoperta non fa parte dell’insegnamento della Chiesa cattolica”.

Toccare in un solo punto una problematica tanto complessa e lanciare come un sasso nello stagno accuse, anche se velate, su temi così delicati contiene il pericolo di tralasciare qualcosa di importante con la conseguente accusa di parzialità. Credo che questo sia il caso anche del documento in questione, anche perché sembra che il suo intento sia prevalentemente pastorale, teso a promuovere un atteggiamento della Chiesa improntato “all’ascolto dei popoli indigeni” e al loro accompagnamento, con il pericolo di una condanna implicita e senza appello del passato.

Tra i vari aspetti del documento bisognosi di chiarimenti vorrei soffermami qui sull’idea secondo cui tutte le culture sono uguali e nessuna può dirsi superiore alle altre. Il documento esprime questo concetto con le parole di Francesco: “Mai più la comunità cristiana potrà lasciarsi contagiare dall’idea che una cultura sia superiore alle altre”.

Giovanni Paolo II ci aveva insegnato, fin dal suo discorso all’Unesco appena eletto papa, che le culture sono vie diverse che conducono alla natura umana. Con questo egli dava un criterio naturale – appunto la natura umana – per valutare le culture sia nella loro totalità sia su singoli loro aspetti particolari. Quindi ci possono essere culture che non rispecchiano le esigenze della natura umana e che su singoli punti possono considerarsi arretrate rispetto ad altre che invece lo fanno. È impossibile, data la situazione decaduta dell’umanità, che una cultura rispecchi completamente tutte le esigenze della natura umana al punto da poterla considerare “superiore” alle altre in questo senso. Ma è anche possibile che una cultura possa fornire alle altre qualcosa che esse non hanno e che questo non debba essere rubricato come assimilazionismo o colonialismo culturale. Questo va ammesso proprio per fondare in senso corretto il dialogo tra le culture.

Sempre Giovanni Paolo II ci aveva anche insegnato che la cultura di una nazione nasce dalla risposta al principale problema, il problema di Dio. Ciò significa che sulla base della risposta che viene data a questo problema le culture si differenziano perché rispondono in forme più o meno adeguate alla natura di Dio. Se da un lato questa prospettiva assegna una grande importanza alle religioni come matrici di cultura, dall’altra non considera le culture a matrice religiosa tutte uguali. Qui al criterio della natura umana si aggiunge quello della risposta al problema di Dio, che a sua volta influisce anche sul precedente: in cosa consista la natura umana dipende da chi è Dio. Una cultura atea non può essere messa sullo stesso piano di una cultura teista e una cultura pagana sullo stesso piano di una cultura che ha alla base una visione trascendente e personale di Dio.

La questione delle culture è di grande importanza per il loro rapporto con il cristianesimo. Se le culture sono tutte uguali, allora, come dice il documento che stiamo esaminando, bisogna semplicemente rispettarle. In questa prospettiva si deve negare che quella della Chiesa cattolica sia pure essa una cultura, bisogna negare che questa cultura abbia una funzione di “purificazione” delle culture e bisogna negare che nelle culture primitive ci siano elementi da purificare. Siccome tradizionalmente questi elementi guidavano la “inculturazione” del cristianesimo bisogna cambiare questo concetto e trasformarlo nella forma dell’accoglienza e dell’accompagnamento.

Però Ratzinger/Benedetto XVI ha più volte affermato che anche quella della Chiesa è una cultura e il cristiano deve sapere che, entrando in essa, entra in una cultura, dato che il Corpo di Cristo nella storia non può starne senza. Ha poi ricordato che le culture dei popoli indigeni erano colme di convinzioni e di pratiche che schiavizzavano l’uomo e che il compito del cristianesimo era di “purificarle” liberandole da questi orrori. Infine, Benedetto XVI diceva che l’inculturazione non significava prendere le culture indigene così come sono e pensare di trovare in esse spunti per rivedere la fede cristiana.

Del resto, è proprio l’evangelizzazione delle Americhe [vedi QUI] a dimostrare che le culture non sono tutte uguali. C’è una grande differenza tra l’evangelizzazione dell’America latina e quella dell’America settentrionale, guidate l’una dal cattolicesimo e l’altra dal protestantesimo: “A differenza di Francia e Inghilterra, a differenza del colono nordamericano che non si preoccupava dell’evangelizzazione degli indigeni ma, al contrario, li considerava esseri inferiori e non esitava a sterminarli, la missione evangelizzatrice della Spagna, che bandì il cannibalismo, l’incesto e la poligamia, e altri vizi radicati in queste società precolombiane, era più missionaria che conquistatrice, più morale che mercantile e più generosa che ambiziosa” (Daniel Passaniti).

Fonte: vanthuanobservatory.com

 

Aldo Maria Valli:
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