Il testamento spirituale di don Cyril Gordien. Tutto da leggere e meditare
Cari amici di Duc in altum, dopo la pubblicazione dell’articolo Sul testamento spirituale di Cyril Gordien, prete [lo trovate qui], alcuni lettori mi hanno chiesto di conoscere meglio don Cyril. Ho pensato allora di tradurre il suo testamento spirituale: una testimonianza bellissima.
Don Cyril Gordien è stato sepolto il 20 marzo, nella festa di san Giuseppe posticipata di un giorno perché il 19 era domenica, alla presenza di 220 sacerdoti e più di duemila fedeli nella chiesa di Saint-Pierre de Montrouge a Parigi. Monsignor Ulrich, arcivescovo di Parigi, ha presieduto la cerimonia e padre Guillaume de Menthière ha tenuto l’omelia forte e commovente. Il testamento spirituale di don Cyril è stato distribuito ai fedeli all’ingresso della chiesa.
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Testamento spirituale di don Cyril Gordien
“Come posso restituire al Signore tutto il bene che mi ha fatto? Alzerò il calice della salvezza, invocherò il nome del Signore»
Sal 115, 12
Ogni giorno, celebrando la Santa Messa, innalzo il calice del Preziosissimo Sangue del nostro Salvatore, e gli rendo grazie per questo dono immenso che mi ha fatto: essere sacerdote di Gesù Cristo, io, suo servo indegno.
Itinerario spirituale
È con un immenso atto di ringraziamento al Signore che vorrei iniziare queste poche righe di meditazione. Sì, rendo grazie al mio Dio per la fede che ho ricevuto nella mia infanzia, una fede solida e pura, una fede che non è mai venuta meno nonostante le tante prove della vita, una fede che i miei cari genitori hanno trasmesso nella fedeltà e nel vero amore per la Chiesa. Rendo grazie al Signore per la famiglia unita in cui sono nato e per tutto l’amore che i miei genitori e i miei fratelli mi hanno profuso. Ho avuto un’infanzia molto felice, segnata dall’esempio di mio padre, esempio di abnegazione nella sua professione di chirurgo e di fedeltà nella pratica religiosa.
Mio padre mi ha trasmesso il senso della fatica, il disgusto per la mollezza e la pigrizia, il rigore nel lavoro ben fatto e la forza di lottare. Ha sempre dimostrato grande coraggio nella difesa della vita e della fede, attraverso molteplici impegni, sia per tutte le questioni bioetiche, con la sua competenza di chirurgo, sia per difendere la scuola libera.
Mia madre mi ha trasmesso la sua dolcezza e la sua gioia di vivere, il suo senso del bello e il suo buon senso, la sua devozione fedele e la sua finezza nei rapporti. Anche lei ha sempre mostrato un immenso coraggio nel sostenere mio padre alla fine della sua vita, e poi nell’affrontare la sua nuova vita da vedova, così giovane, con i suoi figli a carico. Non si è mai arresa, spinta da una fede incrollabile. Ancora oggi affronta la mia malattia con il suo carattere ottimista e gioioso per andare avanti.
Rendo grazie al Signore per avermi chiamato al sacerdozio, io, suo servo indegno. Quando ho sentito questa chiamata nel profondo del mio cuore, mi ha riempito di una gioia indescrivibile, e insieme di un timore pieno di rispetto per il Signore: perché io, che mi sento così indegno e così incapace di assumermi un tale peso e un tale grande missione? Il mio cammino verso il sacerdozio, in seminario, è stato insieme gioioso e doloroso. Gioioso, per le grazie ricevute, che mi hanno sempre rafforzato nella mia vocazione, e per quanto ho ricevuto attraverso la formazione; doloroso anche per le prove e le sofferenze provenienti dalla Chiesa.
Non ho mai tradito le convinzioni che mi animavano, nonostante le inevitabili persecuzioni. Ho sempre resistito, lottato e lottato quando sentivo che la menzogna, la mediocrità o il male erano all’opera. Questo mi ha fatto guadagnare colpi ricevuti e prepotenza, ma non rimpiango questi contrasti vissuti con convinzione. La cosa più difficile è soffrire attraverso la Chiesa.
Papa San Giovanni Paolo II è stato il Papa della mia giovinezza. Gli ho voluto tanto bene, nell’esempio di forza e coraggio che ci ha dato. Fu lui a comunicarmi l’entusiasmo della fede e l’ardore apostolico. Con lui sono cresciuto nell’amore per la Chiesa e nella fedeltà al Magistero. La testimonianza della sua vita data fino alla fine, nella sofferenza accettata e offerta, nella celebrazione della Messa nonostante il dolore, mi ha travolto. È sempre su di Lui che mi appoggio oggi per celebrare la Messa. Quando mi mancano le forze, quando sono senza fiato, quando il mio corpo è dolorante, gli parlo e gli chiedo: “Beatissimo Padre, dammi la tua forza e il tuo coraggio per celebrare i santi misteri, come tu hai fatto fino alla fine in un dono totale”. Egli è stato per me il testimone della gioia della fede e dell’attaccamento a Cristo. Era per me l’esempio della preghiera in mezzo alle tribolazioni di questo mondo. Si è confrontato con le forze del male, affrontando con coraggio i due totalitarismi del ventesimo secolo che hanno causato milioni di morti. Ha resistito, ha lottato, ha abbattuto il muro di Berlino che stava schiacciando l’umanità. San Giovanni Paolo II è per me un gigante della fede, un santo eccezionale che continua a portarmi. Non dimenticherò mai quei momenti in cui ho avuto la gioia di incontrarlo. Per questo ho partecipato, nonostante tutti gli ostacoli, ai suoi funerali, alla sua beatificazione e poi alla sua canonizzazione.
Papa Benedetto XVI è stato il Papa del mio sacerdozio. Sono stato ordinato sacerdote il 25 giugno 2005, due mesi dopo la sua elezione. Mi ha sostenuto in modo straordinario all’inizio della mia vita di sacerdote con la profondità delle sue omelie, con le sue analisi rilevanti e profetiche sul nostro mondo, con le sue luminose riflessioni. L’esempio della sua umiltà e dolcezza mi ha toccato profondamente. Era un vero servo di Dio, desideroso di rafforzare la fede dei fedeli per la salvezza delle anime. Ha costantemente cercato di dare agli uomini l’accesso a Dio. Era un uomo di preghiera, radicato nella contemplazione del Dio vivente. Per quasi dieci anni, dopo la sua rinuncia, visse ritirato dal mondo, ma portandolo nella preghiera. Dalla sua morte lo invoco per la nostra Chiesa, che è in preda a una grave crisi. Egli è per me l’esempio di una vita donata al servizio della verità, dispiegando tutta la sua grande intelligenza per portare alla luce, in modo chiaro, le più alte verità della fede. Mi immergo sempre nei suoi scritti, nei suoi libri, nelle sue omelie, nei suoi discorsi con la gioia profonda di chi impara e comincia a capire meglio. La difesa e la trasmissione della fede, nella fedeltà alla Tradizione, erano la sua battaglia quotidiana. Posso testimoniare che mi ha rafforzato nella fede. Sono ancora commosso dal suo cuore di buon Pastore, soprattutto quando scrisse una lettera ai vescovi di tutto il mondo, in seguito agli attacchi suscitati dal suo gesto di comunione nel revocare la scomunica che gravava sui quattro vescovi della fraternità di San Pio X. Quella lettera è magnifica, è il suo cuore che parla.
Nella mia vita di uomo e di sacerdote ho conosciuto molte prove. La morte di Ingrid, mia cara amica d’infanzia, nell’agosto 1995, poi quella del mio caro padre nel marzo 1996, sono state per me un vero calvario segnato da un profondo dolore. Due persone che mi erano così vicine sono morte lo stesso anno a sette mesi di distanza. La vita va avanti, la fede rimane la mia forza. Avanzai negli studi e si intensificò la chiamata al sacerdozio. Entrai in seminario nel 1998 e fui ordinato sacerdote il 25 giugno 2005.
La mia prima missione è stata in Libano, un Paese che ho amato molto, nonostante le difficili condizioni in cui mi trovai. Ringrazio i carmelitani che mi hanno aperto le porte del loro convento e mi hanno accolto come un fratello. Ho scoperto un paese bellissimo, segnato dalla fede e dall’amore per la Francia. Poi sono stato inviato alla parrocchia di Santa Giovanna di Chantal, dove ho sperimentato la grande gioia di servire una comunità e una gioventù che amavo. Ho passato due anni in questa parrocchia, felice con i parrocchiani, e scontento di un prete che non sapeva come accogliermi come giovane prete.
Dopo altri due anni sono stato inviato alla cappella di Notre Dame du Saint Sacrement, in rue Cortambert. Il mio apostolato si è svolto interamente con i giovani, sia nei licei, dove ero cappellano, sia in cappella con tutte le attività offerte. Sono stati momenti felici e pieni di gioia in mezzo a tutti quei giovani assetati di una parola vera ed esigente. Purtroppo non sempre ho incontrato il sostegno atteso dai responsabili locali (comunità di suore, consiglio pastorale, ecc.), dovendo costantemente sperimentare blocchi nelle iniziative liturgiche e pastorali. Che battaglie!
Nel settembre 2013 sono stato assegnato a una parrocchia vicina, Notre Dame de l’Assomption. Fu allora che avvenne la vicenda del liceo Gerson, nell’aprile 2014, sulla quale non mi soffermerò [all’epoca alcuni insegnanti del liceo furono accusati di integralismo cattolico per aver parlato agli studenti di aborto difesa della vita, NdT]. Vorrei semplicemente confidare che questa vicenda è stata fomentata da genitori e insegnanti che non hanno sostenuto l’impulso religioso dispiegato dalla dirigenza. In questa lotta non siamo stati sostenuti né dalla leadership diocesana, che anzi ha alimentato la crisi, né dalla diocesi in generale. Non sono mai stato consultato per esprimere la mia opinione sul modo in cui percepivo le cose dall’interno. La crisi ci mise alla prova, ma la superammo grazie alla nostra unità e alle nostre convinzioni. In questa occasione vidi di nuovo come i nostri responsabili non si prendessero cura dei sacerdoti.
I sei anni trascorsi all’Assunzione sono stati anni di grande felicità: ero profondamente felice nelle missioni con i giovani, ed eravamo molto uniti con i sacerdoti, in un clima gioioso e fraterno. Sono stati anni di grazia. Ringrazio in modo particolare padre de Menthière che è stato per me un pastore modello e un amico. Vorrei qui dire quanto sia importante l’amicizia sacerdotale nella vita del sacerdote. Ho ottimi amici sacerdoti, fin dal seminario, e ci incontriamo regolarmente. Anche la Società sacerdotale della Santa Croce, di cui faccio parte, mi assicura il sostegno e l’amicizia di tanti sacerdoti.
Poi nel settembre 2019 stato nominato parroco della parrocchia di Saint Dominique, nel 14° arrondissement, quartiere che conoscevo bene, avendo vissuto lì per tre anni con mio nonno. Porte d’Orléans, prima parrocchia da parroco: si ama la propria parrocchia, ci si meraviglia, ci si dona. Mi sono subito impegnato nell’apostolato con i giovani, che mi sembrava un po’ trascurato. Forse ho intrapreso i cambiamenti necessari, soprattutto liturgici, troppo in fretta, senza prendermi il tempo necessario per spiegare.
Poi è arrivata la crisi del coronavirus. A marzo 2020, appena sei mesi dopo il mio arrivo, la vita si paralizzò. Mi ritrovai totalmente solo nel presbiterio e nella chiesa, essendo tutti andati a confinarsi altrove. Per me una cosa è ovvia: non posso celebrare la messa solo per me, rinchiudendomi per proteggermi. Non sono prete per me solo, privando i fedeli dei sacramenti. Decisi di lasciare la chiesa aperta tutto il giorno e di celebrare la messa in chiesa, esponendo il Santissimo Sacramento e mettendomi a disposizione per le confessioni. Non avvertii nessuno, ma i fedeli arrivarono da soli. Confermo pienamente questa scelta e non me ne pento. Alcuni, andati in vacanza in campagna, mi rimproveravano da lontano. Altri mi rimproverarono aspramente una volta tornati dal confino. È facile criticare quando trascorri diverse settimane al sole, fuori Parigi…
Questa crisi rivela un dramma del nostro tempo: vogliamo proteggere il nostro corpo per preservare la nostra vita, anche a scapito delle relazioni personali e dell’amore dato fino alla fine. Vogliamo salvare il corpo a spese dell’anima. Ma qual è il valore di una società che dà priorità assoluta alla salute del corpo, lasciando morire le persone in una spaventosa solitudine, privandole della presenza dei propri cari? Quanto vale una società che arriva a proibire l’adorazione del Signore? Come scrive il cardinale Sarah: “Nessuna autorità umana, governativa o ecclesiastica, può arrogarsi il diritto di impedire a Dio di radunare i suoi figli, di impedire la manifestazione della fede mediante il culto reso a Dio. (…) Pur prendendo le necessarie precauzioni contro il contagio, vescovi, sacerdoti e fedeli dovrebbero opporsi con tutta la loro forza a leggi sulla sicurezza sanitaria che non rispettano né Dio né la libertà di culto, perché tali leggi sono più micidiali del coronavirus” (1).
Sacerdoti di Gesù Cristo
Il sacerdozio è stato tutta la mia vita. Non mi sono mai pentito nemmeno per un momento di aver risposto di sì al Signore che mi ha colmato delle sue grazie attraverso il mio ministero. Che dono inestimabile essere sacerdote di Gesù Cristo! Che grazia ineffabile! Celebrare ogni giorno la Santa Messa era una gioia immensa. Mi rendo appena conto del dono che il Signore mi ha fatto di poter tenere nelle mie povere mani il suo corpo divino, e di prestargli la mia voce e la mia umanità ferita perché possa farsi presente sacramentalmente. Vado alla Santa Messa salendo il Golgota, consapevole che su questo colle si è svolto il dramma della salvezza. Raccolgo nel mio calice il sangue prezioso che sgorga dal cuore trafitto, questo sangue salvifico che già scorreva nel Getsemani.
Sono solo un piccolo vaso di creta il cui fragile essere è stato trasformato dalla grazia sacerdotale nel giorno della mia ordinazione. Non sono più lo stesso di prima: ormai il carattere sacerdotale impregna il mio corpo e la mia anima e mi rende capace di donare Dio agli uomini. Che mistero e che grazia! Diceva il Curato d’Ars: “Se il prete sapesse che cosa egli è, morirebbe”. Non sono sacerdote per me stesso, ma per le anime, per la loro salvezza. Quale fardello pesa sulle mie spalle: sono sacerdote per la salvezza delle anime a me affidate. Medito con umiltà le parole del buon e santo Curato d’Ars. Mi aiutano a cogliere la grandezza del sacerdozio che non mi appartiene: “Se non avessimo il sacramento dell’Ordine, non avremmo Nostro Signore. Chi l’ha messo lì nel tabernacolo? Il prete. Chi ha ricevuto la nostra anima quando è entrata nella vita? Il prete. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il prete. Chi la preparerà a comparire davanti a Dio, lavando quest’anima per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il prete, sempre il prete. E se quest’anima muore a causa del peccato, chi la rialzerà, chi le restituirà calma e pace? Di nuovo il prete. Dopo Dio, il sacerdote è tutto. Il prete si capirà bene solo in paradiso”.
Sono consapevole che il sacerdote deve stare dalla parte sia di Dio sia dell’uomo. È stato Papa Benedetto XVI che mi ha aiutato a capire meglio la missione del sacerdote come mediatore, durante una lectio divina che diede ai sacerdoti di Roma. Il sacerdote è un mediatore che apre agli uomini le porte della via verso Dio. Egli è come un ponte che collega l’uomo a Dio per dargli la vita vera, la vita eterna e condurlo alla vera luce. Il sacerdote deve essere il primo a stare dalla parte di Dio. Ciò significa che deve trascorrere del tempo alla presenza del Signore per stare con Lui. Il Signore ha scelto i suoi dodici apostoli perché dimorassero con lui e poi andassero a predicare. Per il sacerdote è assolutamente prioritario donarsi a Dio dedicandogli tempo: attraverso la messa quotidiana, la preghiera del breviario, la meditazione e la preghiera, la preghiera del rosario e tante altre devozioni che alimentano la vita interiore. Se un sacerdote non prega più, non può più portare frutto.
Arrivato come parroco nella mia parrocchia nel settembre 2019, ho avuto la sensazione che stessero accadendo tante cose belle, ma soprattutto in modo orizzontale. Anche se era presente una vera vita di preghiera, ho percepito che mancava una dimensione verticale, trascendente, una dimensione che permettesse di sostenere tutto per legare a Dio tutta la vita parrocchiale. Per questo ho avuto la convinzione che fosse necessario intraprendere l’adorazione permanente del Santissimo Sacramento. Senza l’immancabile sostegno di una fedele coppia di parrocchiani la cui fede è una roccia e il loro immancabile impegno, non ci sarei mai riuscito.
Quando abbiamo deciso di lanciare l’adorazione permanente nel novembre 2020, non avevo idea di quanto il diavolo si sarebbe infuriato per impedire che questo progetto si realizzasse. Tanti gli ostacoli, tra contingenze materiali, dubbi, preoccupazioni, ricerca di volontari impegnati, vincoli dovuti alla situazione sanitaria. Nonostante tutto, l’organizzazione si mise gradualmente in atto, e potemmo ragionevolmente prevedere il culto per quattro giorni e tre notti. Le fasce orarie serali e notturne si riempirono velocemente, poi gradualmente arrivarono le fasce orarie diurne. Dopo due settimane fu tutto pronto, la tavolata ben imbandita. Una data venne fissata: martedì 10 novembre. Fu allora che l’annuncio del coprifuoco arrivò come una mannaia, ma noi decidemmo di confermare tutto. Riuscimmo a iniziare l’adorazione come previsto, il 10 novembre. Da martedì alle 8 fino a venerdì alle 18:30, i fedeli si susseguivano e si alternavano per adorare il Signore Gesù nel suo Santissimo Sacramento. Come sacerdote, provai una gioia immensa nell’andare ad adorare nel cuore della notte silenziosa. Fui profondamente felice di vedere i fedeli andare a pregare in qualsiasi momento, dando vita così a una casa capace di irradiare l’amore di Dio. Mi stupirono i giovani, studenti delle scuole medie, superiori o universitari, che si iscrissero e vennero di sera, o subito dopo la lezione, zaino in spalla. Ammirai i padri che venivano di notte, o molto presto la mattina prima di recarsi al lavoro, o quelle mamme che portavano con sé i nipoti. Fui commosso dalle persone anziane che venivano fedelmente nelle ore più trafficate della giornata.
Tutti, di tutte le condizioni e di tutte le età, si mobilitarono per mettere Cristo al centro della propria vita, per adorarlo, pregarlo, affidargli le proprie intenzioni e sostenere la propria parrocchia. Sono convinto che questa è la fonte di tante grazie per tutti e per la vita parrocchiale, e che questa preghiera continua è la fonte della fecondità delle diverse attività pastorali. Con la Beata Vergine esclamo, col cuore colmo di riconoscenza: “L’anima mia magnifica il Signore, il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore!”. Sì, l’adorazione è al centro della vita del sacerdote. Devo passare del tempo davanti al Signore, davanti al tabernacolo. A Lui posso affidare i miei dolori e le mie gioie, aprirgli il mio cuore, parlargli come si parla a un caro amico, deporre tutto vicino al suo cuore, con la certezza che Lui c’è, che mi ascolta.
«Ti dirò – diceva san Josemaría Escrivá – che il tabernacolo è sempre stato per me come Betania, quel luogo tranquillo e pacifico che Cristo ha amato, dove possiamo raccontargli le nostre preoccupazioni, le nostre sofferenze, le nostre speranze e le nostre gioie, con la semplicità e la naturalezza con cui gli parlavano i suoi amici” (2).
San Papa Giovanni Paolo II ci ha mostrato l’esempio della devozione eucaristica. Mi permetto di citarlo in quella che è stata la sua ultima enciclica: “Il culto reso all’Eucaristia al di fuori della Messa ha un valore inestimabile nella vita della Chiesa. Questo culto è strettamente unito alla celebrazione del Sacrificio eucaristico. La presenza di Cristo sotto le sante specie conservate dopo la Messa – presenza che dura finché permangono le specie del pane e del vino – scaturisce dalla celebrazione del Sacrificio e tende alla comunione sacramentale e spirituale. Spetta ai pastori favorire, anche con la loro testimonianza personale, il culto eucaristico, in particolare l’esposizione del Santissimo Sacramento, nonché l’adorazione davanti a Cristo presente sotto le specie eucaristiche” (3).
Nella Santa Eucaristia “è il tesoro della Chiesa, il cuore del mondo, il pegno del fine a cui ogni uomo aspira, anche inconsapevolmente. Questo mistero è grande, certamente ci supera e mette alla prova le possibilità della nostra mente di andare oltre le apparenze. Qui i nostri sensi vengono meno – ‘visus, tactus, gustus in te fallitur’, come dice l’inno Adoro te devote –, ma ci basta solo la nostra fede, radicata nella parola di Cristo trasmessa dagli Apostoli (…) Ogni impegno di santità, ogni azione finalizzata al compimento della missione della Chiesa, ogni attuazione di progetti pastorali, deve attingere dal mistero eucaristico la forza necessaria ed essere orientata ad esso come al vertice. Nell’Eucaristia abbiamo Gesù, abbiamo il suo sacrificio di riscatto, abbiamo la sua risurrezione, abbiamo il dono dello Spirito Santo, abbiamo adorazione, obbedienza e amore verso il Padre. Se trascuriamo l’Eucaristia, come potremmo rimediare al nostro bisogno?” (4).
Se il sacerdote sta dalla parte di Dio, deve stare anche dalla parte dell’uomo. E lì misuro la mia povertà e le mie grandi debolezze. Il sacerdote deve sostenere, incoraggiare, esortare, consolare, curare con i sacramenti tutti coloro che gli sono affidati, senza distinzioni o preferenze. Tutto a tutti. L’umanità del sacerdote, ferito ma ristorato da Cristo, gli dà la capacità di simpatizzare con le sofferenze degli uomini. Nella lettera agli Ebrei (5), comprendiamo che la vera umanità non consiste nell’astrarre se stessi dalle sofferenze di questo mondo, ma al contrario nel potersi unire a esse per sopportarle nella compassione. Il sacerdote deve essere persona “capace di comprendere coloro che peccano per ignoranza o per errore, perché anch’egli è pieno di debolezza” (5, 2), a immagine di Cristo che, “durante i giorni della sua vita mortale, presentò, con alto grido e in lacrime, la sua preghiera e supplica a Dio che poteva salvarlo dalla morte; e, poiché si è sottomesso in tutto, è stato esaudito” (5, 7).
Così, il sacerdote è colui che porta nel suo corpo la sofferenza degli uomini per far salire il loro grido a Dio, nelle lacrime della preghiera, per portare al cuore della divinità le pene e le miserie umane. Il sacerdote porta nel cuore la sofferenza del mondo e soffre con il mondo. La vera umanità si misura con questa capacità di compassione.
Quante volte i fedeli mi hanno confidato le loro battute d’arresto, i loro immensi dolori, le loro battaglie e le loro prove. A volte sento il peso del mondo sofferente, e solo Cristo può sollevarmi, quando depongo ai suoi piedi questo pesante fardello dopo avergli fatto udire il lamento degli uomini sofferenti. Ci sono le miserie materiali, tutti quei poveri che incontriamo sul nostro cammino, e che cerchiamo di aiutare un po’, con un dono, ma soprattutto con uno sguardo, una parola, entrando in relazione; ci sono anche miserie morali, dovute ai peccati, che fanno incastrare alcune persone in situazioni che sembrano inestricabili. E poi incontriamo le miserie del corpo, tutti quei malati che non ce la fanno più, tutti i feriti dalla vita che cerchiamo di consolare e alleviare.
Signore Gesù Cristo, quanto soffre la nostra umanità! Ma tu hai presentato, “a gran voce e in lacrime” il clamore di queste sofferenze, e continui a presentarle a Dio nostro Padre che ti guarda. Nella fede, sappiamo che queste sofferenze non sono vane, ma che, se offerte in un ultimo atto di amore, nascondono una fecondità misteriosa.
Faccio mia questa bella preghiera di sant’Ambrogio: “Poiché mi hai dato a lavorare per la tua Chiesa, proteggi sempre i frutti del mio lavoro. Mi hai chiamato al sacerdozio quando ero un bambino smarrito; non farmi perdere ora che sono prete. Ma soprattutto, dammi la grazia di saper entrare in empatia con i peccatori dal profondo del mio cuore. Dammi compassione ogni volta che assisto alla caduta di un peccatore; che non castigo con arroganza; ma lasciami piangere e addolorarmi con lui. Fai in modo che mentre piango per il mio prossimo, sia anche per me stesso che piango, e che applico a me stesso la parola ‘Tamar è più giusta di me’. Amen”.
Il Curato d’Ars è per me un modello e una guida nel mio sacerdozio. Quando ero studente, e pensavo alla vocazione, lessi con passione la sua biografia scritta da monsignor Trochu. Questa vita tutta donata, nel totale oblio di sé, per la salvezza delle anime, mi ha travolto. Fu un apostolo instancabile della misericordia di Dio.
La confessione, insieme alla Messa, è al centro della vita del sacerdote. Trasmettere il perdono di Dio attraverso il sacramento è una grazia straordinaria. Chi sono io, io, poveretto, per dire a qualcuno: “E perdono tutti i tuoi peccati…”. Che gioia immensa essere testimone della misericordia del Signore! Il sacramento del perdono, naturalmente, rallegra il penitente: arriva con il volto triste, portando il peso dei suoi peccati, se ne va con il cuore leggero e purificato e il volto rallegrato dall’amore di Dio. Il sacramento suscita anche la gioia del sacerdote: che felicità permettere a una persona di essere liberata dai suoi peccati e di partire con il cuore in pace! Anche questo sacramento rallegra il Signore, rallegra il cuore di Dio! “C’è più gioia in Cielo per un solo peccatore che si converte…”.
Diceva il Curato d’Ars: “Il sacerdozio è l’amore del cuore di Gesù”. Ciò significa che il sacerdote attinge da nostro Signore, curvo sul suo petto in preghiera, come l’apostolo san Giovanni, l’amore che scaturisce dal suo cuore divino, per poi trasmetterlo agli uomini mediante la grazia dei sacramenti.
Tra le mie grandi gioie sacerdotali c’è la gioia dell’apostolato con i giovani. Ho avuto la fortuna, nei miei vari apostolati, di dover accompagnare molti giovani: attraverso lo scautismo, in particolare come consigliere religioso nazionale delle guide e degli scout d’Europa; come cappellano di collegi e licei; come parroco, fondando un gruppo Even [Even significa École du Verbe éternel et Nouveau – Scuola del Verbo Eterno e Nuovo – ed è un’iniziativa nata nel 2006 a Parigi per imparare ad ascoltare la Parola di Dio trasmessa dalla Tradizione della Chiesa, NdT]; organizzando e accompagnando numerosi pellegrinaggi, alla Gmg, in Terra Santa, in Francia… Sono il felice testimone di una bella gioventù, che ha sete di rigore, che si confessa, che vuole formarsi, che prega, che va avanti nel cammino verso la santità. Vorrei dire a tutti questi giovani che è bello vivere e accogliere la vita come dono di Dio! È bello voler costruire la propria vita sulla roccia della fede! Vorrei incoraggiarvi a mettervi in gioco, a desiderare di fondare una famiglia autenticamente cristiana dove la fede sia al centro, osare rispondere alla chiamata del Signore a lasciare tutto per seguirlo nel sacerdozio o nella vita consacrata, senza paura. Solo Cristo è in grado di realizzare le più alte aspirazioni dei nostri cuori!
L’ordine della malattia
Quando ho saputo di avere il cancro, nel marzo 2022, la notizia non mi ha davvero sorpreso. Avevo la sensazione che sarebbe successo qualcosa di brutto e che sarei morto giovane.
Mistero della sofferenza… Ho avuto la conferma che non c’era cura possibile per il mio cancro. La medicina poteva semplicemente contenere, relativamente, l’evoluzione del tumore allo stadio 4. Per quanto tempo? Quanti mesi mi restavano da vivere?
Io che ho spesso meditato sulla morte, accompagnato i moribondi, celebrato funerali, esortato alla speranza della vita eterna, sono ora a confronto con la mia stessa morte, a 48 anni. Voglio prepararmi con fede a questo momento decisivo. Non ho paura della morte, perché credo con tutto me stesso nella vita eterna; ma temo il mio Signore, con un timore pieno di rispetto e amore. “So che il mio Redentore vive”, come professa Giobbe. So che il mio Signore mi sta aspettando. So anche che apparirò davanti a Cristo, e devo prepararmi a comparire davanti a Lui, umilmente. Riconosco i miei peccati, i miei molti peccati. E imploro per me la grande misericordia di Dio. Quanto sono indegno di essere stato scelto per diventare prete. Ho compiuto bene la mia missione? Ho amato abbastanza Dio e, per mezzo di Lui, ho amato abbastanza il mio prossimo? Certamente no. La mia debolezza e i miei peccati sono tanti ostacoli al vero amore. Come sacerdote di Gesù Cristo sento il peso che grava sulle mie spalle. Non ho dato né sacrificato abbastanza per la salvezza delle anime. Non ho pregato abbastanza per i miei parrocchiani, per il bene delle loro anime e per la loro salvezza. Sono passato troppo in fretta accanto ai piccoli e agli umili, accanto a coloro che soffrono.
Non prego abbastanza per quello che soffro. Nessuno può immaginare cosa sto passando dal marzo 2022, quando tutto è cambiato. Com’è difficile portare la propria croce ogni giorno… Porto con discrezione queste sofferenze quotidiane, queste umiliazioni nascoste, queste ferite del corpo che fanno male anche nella realtà della vita quotidiana. Cerco di non mostrare nulla. Desidero compiere al meglio la mia missione di parroco attraverso i tria munera (i tre uffici), specialmente nella celebrazione quotidiana del sacrificio della Messa. Mi unisco con tutto il mio essere a Cristo che dona la sua vita sulla Croce. Pronunciando le parole sante, “questo è il mio corpo offerto per te”, penso anche al mio povero corpo che soffre e che desidero consegnare per la salvezza delle anime.
Ho dovuto accettare molte rinunce, e questa è forse la più dura. Quel tale insegnamento, quel tale pellegrinaggio con i giovani che avevo preparato, quel matrimonio che dovevo celebrare, quella veglia di preghiera che dovevo guidare, quella missione o ritiro con gli studenti di cui dovevo farmi carico… Tutto questo non ho potuto realizzarlo a causa delle operazioni chirurgiche di maggio e giugno. Ho dovuto rinunciare, umilmente, imparando a riconoscermi malato. Mi ha reso così triste, ho pianto molto. Le gioie tangibili della mia vita di sacerdote mi sono state via via tolte. Ho scoperto la mia impotenza, la mia incapacità di portare a termine certi compiti, io che, prima, non misuravo il mio dolore e spendevo tutte le mie energie nella fedeltà alla missione affidata. Ho dato molto: dolore, tempo, fatica, dormire poco, riposarsi troppo poco. Da mio padre ho imparato l’abnegazione, il senso della fatica e del sacrificio, la volontà di non ascoltarsi e di andare avanti nonostante la fatica e le contraddizioni. Non me ne pento, è stato il mio modo di donarmi e dimenticarmi.
Oggi soffro per non essere in grado di ottenere tutto ciò che vorrei. Sono mortificato da queste rinunce quotidiane, da questa energia che non ho più, da questa forza fisica che mi manca moltissimo. È sicuramente così, in questa spogliazione, che nostro Signore vuole condurmi d’ora innanzi. Questo mi insegna il santo abbandono, io che amavo decidere, organizzare e programmare ogni cosa, fin nei minimi dettagli. Le mie giornate si sono susseguite, scandite da un programma preciso, tenendomi sospeso e senza sosta, perché il sacerdozio non è fatto per i pigri, per gli sfaccendati o per i nascosti. Capisco meglio il significato di queste parole di Cristo rivolte a san Pietro, dopo la risurrezione, in riva al lago: “In verità, in verità ti dico: quando eri più giovane ti cingevi la veste da solo, e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti cingerà la veste e ti porterà dove tu non vuoi” (Gv 21,18).
Nella chiesa abbaziale di Saint-Wandrille contemplo la Croce di Cristo, che risplende in mezzo alle tenebre. È illuminata mentre tutto, intorno, è buio. Nostro Signore Gesù scelse liberamente la via della Passione. Lui, l’Innocente, è morto crocifisso su questa spaventosa croce, che tuttavia è diventata il segno della nostra fede e lo strumento della nostra salvezza. Cerco di discernere una via luminosa nel cuore delle mie sofferenze. Guardo Cristo che ha dato la sua vita per me. Sono pronto a dare la mia vita? Che significato hanno le mie sofferenze? Le mie lacrime si mescolano a quelle della Beata Vergine, ai piedi della croce. È la mia consolazione. Ricevo questa parola dal Vangelo del giorno come una freccia di fuoco che mi trafigge il cuore e mi porta conforto e speranza: “Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero” (Mt 11, 28-30). Sì, Signore, voglio venire da te, avvicinarmi a te che sei tutta la mia felicità, e affidarti questo fardello di sofferenza che grava sulle mie spalle. Se tale è la tua volontà, accetto di portarlo, ma con te, perché senza di te la mia vita va in rovina. Voglio essere caricato del tuo giogo, cioè della tua dolcissima volontà, per fare ciò che vuoi e diventare il tuo vero discepolo. La tua santa volontà è portata dalla dolcezza, perché non si impone mai con la forza, ma suscita un’adesione libera e fiduciosa. La tua santa volontà è portata dall’umiltà, perché è radicata nel grande sì rivolto alla volontà di Dio nostro Padre e sigillato nel sangue. Con te, Signore Gesù, la mia anima desidera riposare e trovare la pace. Che lontano da me fuggono i sogni, e le angosce della notte.
Cosa vuoi che faccia, mio Dio? Sono pronto a tutto, accetto tutto, almeno lo esprimo nella mia povera preghiera. Se vuoi, Signore, puoi guarirmi, per la tua maggior gloria. Te lo chiedo umilmente. La medicina non può più fare nulla, solo un miracolo può curarmi. Non rifiuto la fatica e il dolore, per la salvezza delle anime, se desideri che la mia missione sacerdotale continui su questa terra. Ma se tu lo vuoi, Signore, anch’io voglio prepararmi alla mia morte, santificarmi, implorare il perdono delle mie colpe, purificare la mia anima per comparire davanti a te. Accetto di morire, perché forse, secondo il tuo desiderio, sarei più utile in Cielo che in terra.
La mia vita è nelle tue mani. Non rifiuto la lotta per la vita. Se tale è la Tua volontà, voglio continuare a lottare, con le armi della medicina, verso un esito che Tu solo conosci. Da marzo ho lottato, combattuto, sofferto. Sono pronto a continuare questa lotta per la vita, anche se è così dura per via della chemioterapia. Voglio lottare per tutti coloro che contano su di me, per la mia famiglia, i miei amici, i miei parrocchiani e fedeli. Faccio mia la professione di fede di Maria, sorella di Lazzaro, alla quale Gesù ha chiesto: “Gesù le disse: ‘Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà, e chiunque vive e crede in me, non morirà mai. Credi tu questo?’. Ella gli disse: ‘Sì, Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che doveva venire nel mondo’” (Gv 11,25-27). Chiedo al Signore la grazia di accettare di lasciare questo mondo quando verrà il mio momento, nella volontà di Dio.
Oltre la sofferenza, scopro una nuova fecondità. In precedenza, la fecondità del mio sacerdozio si manifestava molto spesso attraverso segni visibili: gioie e grazie tangibili, giovani che hanno risposto alla chiamata del Signore, apostolati riusciti, gratitudine espressa, vittorie ottenute. Ora la fecondità del mio sacerdozio rimane velata, misteriosa, ma reale. È la fecondità della croce, il grande passaggio dall’apparente fallimento al trionfo della vita.
Le nostre piccole azioni, umili, guidate dalla preghiera, hanno una grande forza. Nostro Signore se ne serve per toccare i cuori, a volte più efficacemente che con un’azione grande e folgorante. Forse a volte ho cercato troppo di risplendere davanti agli uomini, piuttosto che lasciare risplendere Cristo attraverso di me, lui che è la Luce del mondo. Il mio sacerdozio è quello di Cristo, non mio. “Lui deve aumentare e io devo diminuire” gridò san Giovanni Battista, indicando Cristo e facendosi da parte davanti a Lui. Ora sto percorrendo un cammino di abbassamento e umiliazione che è quello della Croce. Via di abbassamento, per rinunciare di più a me stesso, e accettare ciò che Dio vuole, lasciandolo decidere, lasciandolo agire, appoggiandosi a lui. Cammino di umiliazione, perché le umiliazioni mi sono date, vengono dalla malattia e si impongono su di me come spine benefiche, in quanto le accolgo e le sostengo con Cristo.
Come comprendo meglio il significato di queste parole che riceviamo nel giorno dell’ordinazione sacerdotale: «Ricevi l’offerta del popolo santo per presentarla a Dio. Sii consapevole di ciò che farai, imita nella tua vita ciò che compirai attraverso questi riti e conformati al mistero della croce del Signore”. Conformarsi al mistero della croce è tutta la vita del sacerdote, specialmente nella celebrazione dei santi misteri. I miei anni di sacerdozio mi hanno insegnato la gravità della Messa. Per un sacerdote, celebrare la Santa Messa significa unirsi a Cristo che vive la sua Passione e si offre per la salvezza del mondo salendo il Golgota. Sono lì, con le mie povere mani, la mia povera voce, le mie debolezze, ai piedi della Croce, accanto alla Beata Vergine. Io sono lì in mezzo a questo sfogo di odio e contemplo la Croce. Sono qui per compiere ciò che nostro Signore ha affidato ai suoi apostoli e poi a tutti i suoi sacerdoti: rendere presente ogni giorno questo sacrificio per la salvezza delle anime.
Purificazione attraverso la sofferenza
Vivo una via crucis quotidiana. Nostro Signore desidera certamente purificarmi, unirmi alle sue sofferenze. Continuo a non capire perché devo sopportare tutto questo. Spesso grido al Signore, a volte piango. Il calvario è pesante. Non mi ribello a Dio, ma oso gridare, come i salmisti. Anche il grido dell’anima sofferente è una preghiera. Nostro Signore Gesù gridò al Padre suo al momento della sua morte: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Prende su di sé le grida di sofferenza di tutti gli uomini che attraversano le tenebre e le deposita presso il Padre suo. So con fede che le mie dolorose preghiere sono accolte dal Signore, che sono ascoltate e che il Signore risponde come ha risposto al suo divin Figlio sulla Croce. Risposta misteriosa, che vorremmo più chiara, più scontata. Ma vera risposta, perché il Signore consola. Conservo impressa nel profondo di me questa parola di Cristo che è fonte di una immensa speranza: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Sì, il Signore è con me, è lì, veglia su di me, mi sostiene.
“Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza”. Ho meditato spesso questo salmo che mi assicura il sostegno del Signore nei momenti di grande prova. Questi burroni di morte assumono molti aspetti, che si tratti di guerra spirituale o di lotta contro le malattie. Da soli, senza Cristo, è impossibile combattere. San Pietro ne ebbe l’amara esperienza quando cominciò ad affondare perché avanzava da solo. Prendo volentieri questo bastone del Signore, questo bastone che ha spaccato il Mar Rosso e ha trafitto la roccia. Questo bastone è il bastone del Buon Pastore. E il pastore ha bisogno di questo bastone per cacciare le bestie feroci, per combattere i lupi che vogliono impadronirsi delle pecore.
All’interno della Chiesa sono entrati i lupi. Sono sacerdoti, e talvolta anche vescovi, che non cercano il bene e la salvezza delle anime, ma desiderano anzitutto la realizzazione dei propri interessi, come il successo di una “pseudo-carriera”. Quindi sono pronti a tutto: cedere al pensiero dominante, fare patti con certe lobby come quella Lgbt, rinunciare alla dottrina della vera fede per adeguarsi ai tempi, mentire per raggiungere i propri fini. Ho incontrato questo tipo di lupi travestiti da buoni pastori, e ho sofferto per la Chiesa. Nelle diverse crisi che ho attraversato, mi sono reso conto che le autorità della Chiesa non si prendevano cura dei sacerdoti e raramente li difendevano, riprendendo la causa delle recriminazioni dei laici progressisti in cerca di potere e volendo una liturgia piatta, un’autocelebrazione dell’assemblea. Come sacerdote, pastore e guida delle pecore a te affidate, se decidi di occuparti della liturgia per onorare nostro Signore e rendergli un vero culto, difficilmente sarai sostenuto in alto di fronte a persone che si lamentano.
Oggi voglio offrire le mie sofferenze per la Chiesa, per la mia parrocchia, per le vocazioni. Tutte le vocazioni: sacerdotali, religiose, coniugali. Chiedo al Signore la forza di perdonare chi mi ha perseguitato, e il coraggio di andare avanti portando ogni giorno queste croci. Come Zaccheo, per vedere Cristo, dobbiamo salire su un albero, l’albero della Croce. “Stat crux dum volvitur orbis”, la croce rimane stabile mentre la terra gira: questo è il motto certosino. In mezzo ai cambiamenti e alle inquietudini di questo mondo, rimanete piantati sulla terra in modo stabile, come segno della nostra fede, croce del nostro Salvatore.
La forza della preghiera
Nel dicembre 1993 ho seguito un ritiro spirituale presso l’Abbazia di Notre-Dame de Maylis, nelle Landes. È stata una scuola di preghiera, per imparare a pregare, ascoltando padre Caffarel, che ha fondato le équipe di Notre Dame ma è stato anche un maestro di preghiera. Ho ricevuto molto da lui, soprattutto attraverso il suo libro Cent lettres sur la prière, Cento lettere sulla preghiera. Durante quei giorni, nostro Signore mi diede la grazia di percepire il suo amore per me, e mi fece scoprire il posto eminente e vitale della preghiera nella vita cristiana. Da quel momento la mia vita è cambiata, perché le mie giornate sono segnate dalla preghiera che trasforma la vita e dona l’amore di Dio.
La preghiera è il segreto di una feconda vita cristiana. Senza preghiera, un cristiano non può stare in piedi, perché non può affrontare i poteri delle tenebre. Non stiamo lottando contro piccoli avversari insignificanti, ma contro il diavolo, il principe delle tenebre, il padre della menzogna. Come ci esorta a fare San Paolo: “Rivestitevi della completa armatura di Dio, affinché possiate stare saldi contro le insidie del diavolo; il nostro combattimento infatti non è contro sangue e carne, ma contro i principati, contro le potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebre, contro le forze spirituali della malvagità, che sono nei luoghi celesti. Perciò prendete la completa armatura di Dio, affinché possiate resistere nel giorno malvagio e restare in piedi dopo aver compiuto tutto il vostro dovere” (Ef 6, 11-13).
Per resistere e resistere, abbiamo bisogno del potere della preghiera. Essa è la forza che segretamente trasforma il mondo. Se i cristiani abbandonano la preghiera, lasciandosi sedurre dal regno dell’efficienza e del profitto, allora si apre la porta “sulla notte spirituale e sulla barbarie scientifica”. Padre Caffarel ha profetizzato così: “O il cristianesimo conquisterà il mondo pregando, oppure perirà. Questa è una questione di vita o di morte per il cristianesimo» (cfr Presence à Dieu, Cent lettres sur la prière).
E san Giovanni della Croce afferma: “Senza preghiera, tutto si riduce a sferrare colpi di martello per produrre quasi nulla, o addirittura assolutamente nulla, e a volte più male che bene” (6 ). E il Curato d’Ars: “Voi avete un cuore piccolo, ma la preghiera lo dilata e lo rende capace di amare Dio”.
Nella preghiera quotidiana, in questo cuore a cuore con il Signore, siamo profondamente trasformati. Il buon Dio agisce nel profondo della nostra anima per elargirci ogni genere di bene. Non sono prima di tutto io che agisco, con le mie belle parole o mediazioni, ma è Dio che agisce. Questo tempo trascorso alla sua presenza è fonte di grazie, e ciò che conta è la fedeltà e la perseveranza, ogni giorno. Più dobbiamo fare, più dobbiamo pregare!
Dall’annuncio del mio cancro, la famiglia, gli amici, i fedeli si sono impegnati con ardore nella preghiera per chiedere la mia guarigione. Sono stupito da tutte queste iniziative, dalle novene alle veglie di preghiera. Sono impressionato da queste catene di preghiera che arrivano fino alle abbazie. Questa preghiera mi porta e mi sostiene. Essa è davvero efficace. È la preghiera che mi aiuta a mantenere la fiducia e ad andare avanti con coraggio. Vorrei dire a tutti coloro che pregano per me di continuare, di essere ben persuasi che le loro preghiere non sono vane. Come vorrei che non si scoraggiassero a pregare e vedessero coronate, in un modo o nell’altro, le loro fatiche. Non voglio deluderli, per questo continuo a lottare, sollevato come da un immenso respiro che sale verso il Signore.
La santissima Vergine Maria
“Come mai mi è dato che la madre del mio Signore venga da me?”. Mi meraviglio anche della presenza di Maria nella mia vita.
La Vergine Maria è sempre stata presente nella mia vita, dalla mia infanzia fino a oggi. È stata Lei a guidarmi verso il sacerdozio, incoraggiandomi con fiducia, nonostante la consapevolezza della mia indegnità e della mia incapacità. Ricordo con commozione questo momento di grazia quando, in una piccola cappella situata sulla collina di Vezelay, Maria mi prese per mano per rassicurarmi e avviarmi sulla via del sacerdozio. La Beata Vergine mi ha sempre protetto e consolato. In tutti i momenti di prova che ho conosciuto, in tutte le situazioni umane che sembravano perdute, mi sono sempre affidato a Maria, rifugiandomi sotto il suo manto bianco immacolato, mi sono messo sotto la sua protezione. Ho sempre sperimentato in questi momenti di abbandono una grazia di consolazione, con la certezza che Maria stava guardando, che era lì, vigile e protettiva. Non sono mai rimasto deluso da lei. Vorrei testimoniare quanto la preghiera a Maria sia fonte di grazie. La Beata Vergine ci conduce al suo divin Figlio, ci insegna, come una madre, a conoscerlo e ad amarlo.
Nella mia vita di sacerdote, Maria occupa un posto privilegiato, perché è Lei che ci ha donato il Salvatore, e tale è la missione del sacerdote: donare il Signore agli uomini. Senza la Beata Vergine, senza un legame speciale e affettuoso con Lei, senza una costante preghiera rivolta alla nostra buona Madre Celeste, un sacerdote non potrà compiere pienamente il suo ministero. Vorrei qui citare il cardinale Journet di cui faccio mie le parole: “La Vergine Maria è rimasta e rimarrà sempre una gioia nella nostra vita di sacerdoti. Le feste della Madonna, come ogni sabato, sono un raggio di sole e una primavera nei nostri cuori. Quando le stai vicino, la paura non esiste più. Le minacce di miseria e mediocrità che ci avvolgono cessano di sopraffarci. Con Lei siamo dall’altra parte perché siamo diventati suoi figli” (7).
È stata Maria a rafforzare incessantemente la mia fede. Ho sempre fatto affidamento sulla sua fede limpida e incrollabile. È con Lei che voglio pronunciare il mio fiat al Signore, sostenuto e formato da Lei. Il mio affetto per la nostra buona Madre Celeste è da Lei portato nel cuore del suo divin Figlio. Grazie a Maria, il mio amore per Cristo crebbe e si rafforzò. Quanto più amiamo Maria, tanto più Lei ci fa amare suo Figlio. Più ci confidiamo con Lei, più cresce la nostra fede. Che gioia avere Maria per madre! Che gioia sentire che interviene in nostro favore, e che ci elargisce la sua stessa tenerezza materna. Maria ci consola, ci asciuga le lacrime come sa fare una mamma. Ha pianto a Nazareth quando suo Figlio è stato incompreso, espulso e rifiutato. Lei non vuole che soffriamo, è al nostro fianco per alleviare le nostre pene e aiutarci a sopportarle.
Avevo inciso sul mio calice, offerto per la mia ordinazione, un motto che faccio mio e che era quello di san Giovanni Paolo II: Totus tuus. Queste due parole significano il mio desiderio di affidarmi in tutto a Maria, di passare attraverso di Lei, di consegnare e consacrare a Lei, in ogni sottomissione e amore – secondo la preghiera di san Luigi Maria Grignon de Montfort – il mio corpo e la mia anima, e tutto ciò che devo compiere. Quanto tutto è più semplice ed efficace quando si sceglie di affidare tutto alla Beata Vergine! Il segreto è capire che nostro Signore ha voluto passare attraverso Maria per donarsi agli uomini, e continua a farlo: le grazie passano attraverso la Beata Vergine.
Nelle mie povere preghiere quotidiane, segnate spesso dalla debolezza, dall’aridità del cuore, dalle distrazioni, mi dico che Maria completa ciò che io non riesco a realizzare. È lei che presenta le mie povere preghiere balbettanti al suo divin Figlio. Per questo, come scriveva il Curato d’Ars, “quando le nostre mani hanno toccato delle erbe aromatiche, esse profumano tutto ciò che toccano! Facciamo passare le nostre preghiere attraverso le mani della Santa Vergine. Lei le profumerà”.
Il racconto dell’Annunciazione è una delle pagine più belle dei Vangeli, perché ci viene svelato un duplice mistero: il mistero dell’Immacolata Concezione e quello del concepimento verginale di Cristo. Questi due misteri sono legati dalla libertà di Maria che pronuncia il suo fiat al Signore dicendogli di sì con tutto il suo essere. Questo sì di Maria, come scrive il cardinale Charles Journet, “è il sì più bello che la terra abbia mai detto al cielo” (8). E san Tommaso d’Aquino afferma: “Ella lo proferisce a nome di tutta l’umanità, dall’autunno della sera fino alla fine del mondo” (9).
È attraverso Maria, e con Lei, che possiamo dire di sì al Signore e alla sua santa volontà. Il suo sì non è stato segnato dal peccato originale e dalla ribellione a Dio. È un sì puro, limpido, totale, vero, senza alcun ritegno o secondo fine. I nostri sì sono sempre segnati da un nascosto “ma”, da condizioni poste, da discrete fughe: “Sì Signore, ma…”. Eppure il Signore ci avverte: “Ma sia il vostro parlare: sì, sì; no, no, poiché il di più viene dal maligno” (Mt 5, 37). Con Maria possiamo finalmente dire un vero sì al Signore, ci aiuta ad abbandonarci al suo divin Figlio, ci porta nel suo fiat.
Alla grotta di Massabielle, dove sono stato tante volte, ho chiesto alla Madonna di Lourdes di aiutarmi a volere ciò che Dio vuole per me. Questa grotta è per me un rifugio, un luogo sacro, una roccia su cui appoggiarsi per recuperare le forze. La sorgente di acqua viva che sgorga in fondo alla grotta è la fonte delle grazie che la Beata Vergine vuole donarci. Ho gioito in questa grotta, lì ho reso grazie, vi ho deposto tante intenzioni di preghiera; è lì che Maria mi ha guarito da una ferita proveniente dalla Chiesa. Questo luogo benedetto è per me un luogo fondante della mia fede fin dalla mia infanzia. Là, nel freddo di gennaio, mi affido di nuovo con ardore alla Madonna di Lourdes. Resto davanti alla grotta, prego in silenzio, mi abbandono al Signore tra le braccia di Maria, Riprendo le forze, prego il mio rosario. Il freddo non riesce a cacciarmi da questo luogo benedetto. “La luce splende nelle tenebre e le tenebre non l’hanno vinta”. Contemplo questa luce che emana dalla grotta, luce benefica e salutare. Grazie, Maria, per la tua protezione materna e la tua presenza costante al mio fianco. Sento risuonare dentro di me la voce del salmista: «Spera nel Signore, sii forte e fatti coraggio, spera nel Signore» (Sal 26,14). E faccio mia la parola del lebbroso, nel Vangelo di oggi: “Se vuoi, puoi purificarmi” (Mc 1,40). Sì Signore, se è la tua santa volontà, puoi guarire il mio corpo ferito. Ma sia fatta la tua volontà! Affido a Maria questa umile preghiera.
La buona battaglia
Come vorrei, nella sera della mia vita, gridare come san Paolo: “Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la mia corsa, ho conservato la fede” (2 Tim 4, 7). Qual è la battaglia giusta da combattere in questo mondo? Molti spendono energie per lotte che non valgono la pena, come questa ecologia eretta a nuova religione, o questa difesa della causa animale a scapito degli uomini. Guardate quanta energia spesa nelle lotte del diavolo, come quelle della cultura della morte, della teoria del genere, del transumanesimo, del wokismo. Tutto questo allontana le persone da Dio e le induce a combattere false battaglie che sono quelle del diavolo.
La buona battaglia è quella della fede: custodire la fede e trasmettere la fede, nella fedeltà alla tradizione della Chiesa. La mia fede oggi è quella di patriarchi, profeti, apostoli, santi e sante che ci hanno preceduto e ci hanno trasmesso questo tesoro di fede nel vero Dio. Lungo i secoli della storia della Chiesa, quali spargimenti di sangue, sofferenze subite, violente persecuzioni per proteggere e trasmettere la fede!
La buona battaglia è quella che consiste nel rimanere fedeli alle promesse del proprio battesimo, nel lottare per rimanere uniti al Signore Gesù, nel vivere da cristiani, nel mantenere le proprie convinzioni. È una battaglia quotidiana, perché il diavolo continua a cercare di allontanarci da Dio. Ci sono cristiani eroici che lottano ogni giorno per vincere un peccato che avvelena la loro vita. Queste lotte nell’ombra, nei segreti della vita, sono tante piccole vittorie riportate contro il Principe delle Tenebre.
Nella mia vita di sacerdote, conduco con ardore questa lotta, perché porto sulle mie spalle il peso delle anime a me affidate. Come potrei compiere la mia missione senza una vera vita interiore, senza essere unito a Cristo attraverso la preghiera e i sacramenti? Dove attingere la forza necessaria per santificare il popolo cristiano se non in Dio stesso? Mi rendo conto di quanto sia vitale per un sacerdote dare tempo al Signore, dedicargli tempo prezioso, stare con Lui, amarlo, adorarlo. Il sacerdote deve prima essere vicino al Signore per poter donare Dio agli uomini. La fecondità di un apostolato dipende solo dalla forza della preghiera che lo sostiene. Ho lottato contro la tentazione dell’attivismo che ci fa credere che il tempo della preghiera sia inutile, o addirittura impossibile in un simile contesto. Chi prega non perde tempo, chi prega non è mai solo. Quante volte ho sperimentato nella mia vita di sacerdote la forza della preghiera! È la preghiera che, invisibilmente, mi dà la capacità di predicare, di insegnare, di assumere una missione delicata, e soprattutto di farmi da parte per lasciare tutto il posto a Cristo. Senza la preghiera e l’unione interiore con Cristo, la nostra vita va in rovina.
La buona battaglia è quella combattuta in ogni momento per svolgere bene il proprio dovere di stato e portare il peso della giornata senza recriminare contro Dio. I compiti della vita quotidiana, umili e spesso nascosti, fanno parte di questa lotta che ci aiuta a rimanere uniti a Cristo.
La buona battaglia è quella che consiste nel seguire Cristo, passo dopo passo. “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua” (Lc 9,23). Tale è la condizione di chi vuole essere discepolo di Cristo, in una parola, di chi vuole essere veramente cristiano. Il cammino di Cristo passa per la Croce, ed è per questo che anche il cammino di ogni cristiano passa per la croce. Non scegliamo le nostre croci, non scegliamo le nostre sofferenze. Vengono da noi, senza che noi le abbiamo chieste. Ci sono le piccole croci di ogni giorno, fatte di rinunce, umiliazioni, fatiche. E poi ci sono le grandi croci della vita, quelle che sono piantate nel nostro essere, corpo e anima. Sono le sofferenze dovute alla malattia, i dolori causati dalla morte di una persona cara, le prove dei combattimenti da compiere, le persecuzioni per la fede. Queste grandi croci possono essere portate solo con l’aiuto di Dio. Cristo ha portato la sua pesante croce e continua ad aiutarci a portare la nostra. Tre volte è caduto, tre volte si è rialzato con la forza di Dio suo Padre. Prende sulle sue spalle il nostro fardello, se glielo affidiamo, per rafforzarci e sostenerci.
Il momento della mia partenza è arrivato
“Quanto a me, sto per essere offerto in libagione, e il tempo della mia dipartita è vicino. Ho combattuto la buona battaglia, ho finito la corsa, ho serbato la fede” (2 Tm 4, 6.7).
Combatto contro questo tumore da quasi un anno. Un anno di feroci lotte, sofferenze quotidiane, vari ricoveri. Un anno di chemioterapia sopportata ogni due settimane. Sento che il mio corpo si sta indebolendo e che il cancro sta guadagnando terreno. “Ma non si combatte nella speranza del successo, no, no, è molto più bello quando è inutile! (Cyrano de Bergerac). La medicina sembra arrendersi, la chemioterapia non è abbastanza efficace. Rimane sempre la lotta dell’anima, per resistere, per andare avanti, per conservare la speranza, per abbandonarsi al Signore, per affidarsi alla Beata Vergine, per pregare instancabilmente, per incoraggiare chi ti è vicino, per custodire la gioia del cuore e per prepararsi alla morte. Voglio combattere quest’ultima battaglia con il coraggio e la forza della fede.
Quindi mi sto preparando a comparire davanti al mio Signore. Ho fiducia, perché come ha scritto Benedetto XVI, il Signore è sia il mio giudice che il mio avvocato: “Presto affronterò il giudice supremo della mia vita. Anche se, ripensando alla mia lunga vita, ho molte ragioni per avere paura, ho tuttavia un animo gioioso, perché ho la ferma convinzione che il Signore non è solo il giudice giusto, ma allo stesso tempo l’amico e il fratello che ha sofferto lui stesso per le mie colpe e che, quindi, come giudice, è anche mio avvocato”.
San Josemaría diceva: “La gioia cristiana ha le sue radici nella forma di una croce”. Alla sera della mia vita, nonostante tutte queste sofferenze, conservo una gioia profonda, la gioia di sapere che il Signore è con me, la gioia di sapere che il Signore mi aspetta in Cielo. Se qualche volta appare tristezza, chiedo al Signore di cambiarla in gioia. La morte di una persona cara provoca pianti, lacrime, dolore. Cristo pianse anche per la morte del suo amico Lazzaro. Ma questo dolore del cuore, per quanto intenso sia, non spenga la fiamma della fede e della speranza.
“Che gioia quando mi è stato detto andremo alla casa del Signore; ora finisce il nostro viaggio, davanti alle tue porte Gerusalemme”.
Sì, il mio cammino sta per concludersi, nella gioia di presentarmi presto davanti al Signore. È con la Beata Vergine che voglio varcare questa porta nell’ultimo momento della mia vita, Lei che è la porta del Cielo.
“Servo della tua gioia”, vi benedico di tutto cuore.
Abbé Cyril Gordien +
Sacerdote per l’eternità
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(1) Cardinale Sarah, Catéchisme de la vie spirituelle, Fayard, 2022, p. 67.
(2) Saint Josémaria Escriva, Quand le Christ passe, 154 [trad. it. È Gesù che passa]
(3) San Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n.25.
(4) San Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n.59.60.
(5) Cf. Benedetto XVI, incontro con il clero di Roma, Lectio divina, 18 febbraio 2010.
(6) San Giovanni della Croce, Le Cantique spirituel, B, strofa 29,3.
(7 Card. Charles Journet, Entretiens sur Marie, p. 37.
(8) Card. Charles Journet, Entretiens sur Marie, p. 22.
(9) Somme théologique, IIIa, q.30.