Verso il 25 aprile / Pensieri brutti, sporchi e cattivi su Resistenza e Liberazione. 1
di Fabio Battiston
Quello che state per leggere è quanto di più insopportabilmente brutto e cattivo si possa scrivere in questi tempi nei quali i corrects di ogni tipo (politici, sociali, cattolici, ecc.) imperano più incontrastati che mai. È un macigno che da tanto, troppo tempo non vedevo l’ora di gettare nella melma politica, storica e culturale di questo nostro disgraziato Paese. Lo faccio approfittando della “ricorrenza” che, da anni, connota questi ultimi giorni d’aprile e che forse mai come quest’anno assumerà toni altamente vendicativi, settari e forse violenti.
Sto parlando di uno dei più intoccabili feticci laici dell’italico stivale, la Resistenza partigiana e il suo simbolo, lasciato a perenne memoria per i posteri: il 25 aprile. Essi – insieme alla Santissima Costituzione, al Beato Risorgimento e alla mai troppo osannata Repubblica – costituiscono l’architrave perfetta su cui è stata costruita e poi perpetuata l’immagine di “dignità, nobiltà e fierezza” della nazione. È uno stilema che ci viene propinato da ormai quasi ottant’anni. E poco importa:
- che il cosiddetto Risorgimento altro non sia stato che lo strumento con il quale le grandi potenze europee – Gran Bretagna e Francia in particolare – decisero, in base ai loro interessi, quale doveva essere l’assetto socio-politico definitivo dell’Italia e chi avrebbe dovuto guidarlo (cioè la più corrotta e inefficiente burocrazia “illuminata” europea, quella sabauda). Un Risorgimento che doveva anche essere il grimaldello per trasformare l’Italia in un nuovo feudo protestante. Su quest’ultimo aspetto suggerisco la lettura di alcuni libri di Angela Pellicciari, saggista e storica cattolica controcorrente e per ciò stesso più volte messa all’indice per le sue coraggiose e “scorrette” analisi sugli eventi che portarono all’unità d’Italia. Segnalo, tra le sue diverse opere, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata (Piemme, 2000).
- che la Repubblica italiana sia nata sotto gli auspici della più ignobile truffa elettorale che le democrazie occidentali ricordino. Un inqualificabile imbroglio, pilotato da quella classe partitocratica che – appena uscita dalla mitica epopea antifascista (con battaglioni di voltagabbana al seguito) – avrebbe poi dato il “meglio” di sé nei decenni a seguire;
- che la Costituzione abbia formalizzato – in diversi suoi articoli – un obbrobrio di regole, frutto dell’osceno compromesso catto-comunista, con cui furono opportunamente suddivisi i rispettivi “settori di competenza e intervento” e sui quali si esercitò, da allora in poi, il potere esclusivo dei due partiti dominanti (Dicci-Picci avrebbe poi cantato trent’anni più tardi il compianto Rino Gaetano).
Ma torniamo ora alla Resistenza partigiana e al suo simbolo calendariale cui gran parte d’Italia, ogni anno, si inginocchia, umile e adorante: il 25 aprile.
Intendo subito togliere di mezzo, respingendole con forza, tutte le accuse di negazionismo, revisionismo o fascismo che potranno essere riversate sul sottoscritto da tutti coloro che avranno l’opportunità (o la sventura) di leggere queste note attraverso le coordinate di un eventuale settarismo ideologico. Appartengo da sempre al conservatorismo di destra e, per tale motivo, non ho mai portato il cervello all’ammasso. Non intendo quindi affatto negare che dalla fine del 1943 alla primavera del 1945 tanti italiani fecero la scelta coraggiosa di combattere un nazifascismo che, seppur avviato all’inevitabile catastrofe, manteneva ancora viva la sua forza e la sua crudeltà. Sono ben consapevole come molti di questi combattenti abbiano agito nel nome di una vera libertà da riconquistare e nel solco dei valori, della cultura e tradizione – anche religiosa – del mondo occidentale (quei valori che l’odierno Occidente ha prima rinnegato e poi fatto a pezzi). È evidente, quindi, che una parte dell’esperienza resistenziale può e deve essere certamente custodita a perenne memoria e monito per tutte le generazioni future e conservata come inestimabile patrimonio della storia d’Italia.
Ma, nello stesso tempo, resto fermamente convinto di alcune verità mai apertamente dichiarate.
Primo: un settore non banale della resistenza partigiana combatté coscientemente per un duplice scopo: conseguire, nell’immediato, un obiettivo tattico funzionale alla sconfitta del nazi-fascismo. Ottenere poi un obiettivo strategico, nel breve-medio termine, finalizzato a consegnare l’Italia a una dittatura certamente più opprimente e sanguinaria di quella fascista e crudele quasi quanto il Terzo Reich: il comunismo sovietico.
Secondo: durante la “guerra di liberazione” alcune organizzazioni partigiane si resero protagoniste di inutili ed efferate azioni che nulla potevano avere a che fare con la lotta contro l’invasore. Tra esse spiccarono nella loro fulgida ignobiltà e vigliaccheria due avvenimenti tristemente significativi. Il primo fu l’attentato di via Rasella del 23 marzo 1944; un’azione solo politica e dal valore militare nullo, concepita e realizzata con l’unico scopo di provocare l’indubbia rappresaglia nazista, ben sapendo e accettando che avrebbe portato a morte sicura centinaia di innocenti cittadini romani. Il secondo – dopo neanche un mese, era il 15 aprile 1944 – prese le forme del vile assassinio di Giovanni Gentile, perpetrato a opera di giovani comunisti dei Gap (Gruppi di azione patriottica). Fu un gesto criminale, in puro stile proto-brigatista, compiuto contro colui che, insieme a Benedetto Croce, rappresentò il gotha della filosofia italiana del Novecento. Sull’assassinio di Gentile ecco uno stralcio dell’articolo apparso il 10 maggio 2010 nella sezione cultura de Il Giornale.it, a firma di Marcello Veneziani. L’estratto si riferisce, in particolare, a quanto scrisse Oriana Fallaci a proposito dell’agguato mortale al grande filosofo. La provenienza politico-ideologica della scrittrice non lascia dubbi circa la “potabilità” della sua cruda analisi.
Ci voleva la zampata postuma di Oriana Fallaci, da morta, per rianimare il dibattito sulla cultura italiana. Ieri hanno fatto brillare una mina lasciata dalla bellicosa Oriana in una lettera inedita di dieci anni fa. È una lettera su Gentile, Croce e la viltà degli antifascisti, dura e schietta come nella prosa fallaciana, scritta a Chicco Testa e resa nota dal Riformista. In questa densa lettera (scritta a fine luglio del 2000), la Fallaci dice quattro cose: che l’assassinio di Gentile fu una carognata ingiusta e vigliacca. Che Gentile non era fascista. Che gli antifascisti furono dei «cacasotto» perché uccisero un grande e inerme filosofo mentre non ebbero il coraggio di sminare i ponti di Firenze che i tedeschi avevano minato. E infine, che avrebbero dovuto ammazzare Croce, che, parole sue, all’inizio «leccò il culo» a Mussolini, come molti intellettuali «che poi sarebbero diventati numi del Pci». In quattro mosse la Fallaci descrive con la sua brutale franchezza il Novecento intellettuale italiano. Sì, l’assassinio di Gentile fu una carognata, ingiusta e vigliacca, ha ragione la Fallaci.
Terzo: la Resistenza, a guerra finita, si macchiò di delitti e crimini ignominiosi, assassinando vigliaccamente ragazzi, adulti, sacerdoti, donne, ex combattenti ed ex militanti. Tutti ritenuti – a torto o a ragione – conniventi a vario titolo col passato regìme e per ciò stesso meritevoli di una giustizia proletaria che non prevedeva né tribunali né processi;
Quarto: questa stessa Resistenza – come lucidamente denunciato da Giampaolo Pansa, non certo un bieco rappresentante del conservatorismo reazionario – in qualità di braccio armato della partitocrazia social-comunista, cercò più volte nel periodo compreso tra il 1945 ed il 1948 di travolgere le neonate istituzioni democratiche italiane con una rivoluzione bolscevica armata. Una rivoluzione che si sarebbe probabilmente attuata nel 1948 in caso di vittoria alle elezioni politiche del Fronte popolare guidato da Togliatti e Nenni.
Lo spazio di questo contributo non consente di approfondire il tema su cosa abbia realmente rappresentato – sul piano militare, politico e sociale – la Resistenza italiana nella Seconda guerra mondiale. Mi riferisco, per ora, alla sola guerra partigiana poiché nella lotta di liberazione c’è stata una realtà troppo spesso – e colpevolmente – dimenticata: quella delle nostre forze armate. Ma di questo parlerò più avanti.
Sarebbe necessario scrivere un saggio a parte anche per stabilire quanto i gruppi partigiani, e le loro cosiddette “insurrezioni”, siano state quantitativamente e qualitativamente decisive negli eventi che portarono – dopo quasi due anni di lutti e combattimenti – alla liberazione della nostra terra dalla canaglia nazista e da ciò che restava del regìme fascista.
Ritengo però opportuno presentare alcune considerazioni personali che faranno certamente capire qual è il mio pensiero generale su questo tema. Un pensiero certamente “alternativo” rispetto a ciò che il sistema istituzionale, scolastico e politico ha costantemente cercato di inculcare alle generazioni del dopoguerra. Nello stesso tempo, un pensiero che è andato via via maturando grazie anche al mio interesse per la storia d’Italia del XX Secolo. Una storia che, specie nel contesto educativo, è stata quasi sempre raccontata e spiegata da una parte ben nota dei vincitori: quella social-comunista (vero professor Villari?). In questo percorso mi fu di grande aiuto anche la figura e la testimonianza di mio padre – Giovanni, classe 1924 – granatiere di Sardegna e combattente a Porta San Paolo contro i tedeschi nelle giornate che seguirono l’8 settembre 1943.
Io penso che quella che da ottant’anni viene celebrata come “Guerra di Liberazione” o “Secondo Risorgimento” dovrebbe essere inquadrata in una dimensione più vera e certamente più onesta (anche per il rispetto che si deve portare a tutti coloro che vi presero parte con limpidezza di valori ed ideali e non con “secondi fini”).
Occorrerebbe infatti ri-analizzare diversi aspetti della guerra partigiana (e del suo dopoguerra) poiché, a mio avviso, la storiografia ufficiale ci ha consegnato una narrazione di questo periodo tutta centrata sulla sua glorificazione/santificazione laica. In sostanza: molta agiografia, insufficiente metodo storico e, soprattutto, tanta ideologia. In questo scenario le peraltro pochissime rivisitazioni alternative sono state immediatamente cassate come false, tendenziose, negazioniste e revisioniste.
L’esempio più lampante a riguardo è rappresentato dal massacro culturale, massmediale e politico cui fu sottoposto il già citato Giampaolo Pansa. Con il suo Ciclo dei vinti, articolato su sette saggi e racconti scritti tra il 2002 ed il 2010, egli squarciò finalmente il velo sulle falsità, ipocrisie, stravolgimenti della verità e squallidi nascondimenti sulla Resistenza italiana, che caratterizzarono il periodo compreso tra il 1943 ed il 1948. Ecco come lo stesso Pansa descrive, da par suo, il linciaggio di cui fu vittima:
Dieci anni fa non mi rendevo conto di fare del revisionismo scandaloso. Ma quando mi hanno osteggiato ed aggredito anche con azioni violente, per quel peccato imperdonabile, ne sono stato contento. Perché ho compreso di aver battuto una strada che nessuno voleva percorrere. Avevo infranto una cortina di bugie eretta da tanti sepolcri imbiancati. Politici, intellettuali, docenti, direttori di giornale ed opinionisti che per ottusità culturale e opportunismo ideologico non accettavano che qualcuno rifiutasse la grande bugia della Resistenza. Una finzione messa sugli altari di una teca di vetro. E da venerare con culto quasi religioso. Officiato con rigore maniacale dai tanti che ho chiamato, ricorrendo ad una immagine beffarda, i Gendarmi della memoria.
Queste parole – dette da un uomo sempre e orgogliosamente di sinistra – suonano come atto d’accusa verso chiunque blateri di vergognoso revisionismo. Un atto d’accusa che condivido, poiché un conto è riscrivere anacronisticamente e falsamente la storia, ben altro è presentare fatti, eventi e personaggi in una dimensione più onesta, finalmente libera da condizionamenti, storture e, talvolta, menzogne. è il tipo di revisionismo di cui andare fieri, come affermava Pansa.
È in questo ambito che voglio soffermarmi, in modo forzatamente generale, su alcuni aspetti della Resistenza partigiana, offrendo i miei pensieri brutti, sporchi e cattivi contro la dittatura del pensiero unico. Una dittatura dell’antifascismo militante che ha avuto modo di condizionare ai suoi fini intere generazioni. Analizzerò, spero senza tediare i lettori, quattro argomenti. Tratterò il primo di essi in questa prima parte del mio contributo, i successivi tre nella seconda parte:
- la dimensione del fenomeno e la sua presenza temporale rispetto ad altri movimenti resistenziali europei nella Seconda guerra mondiale;
- l’effettivo ruolo da essa avuto nella liberazione dell’Italia dal nazifascismo;
- il contributo, sempre marginalizzato dalla storiografia ufficiale, delle forze armate italiane nella Guerra di Liberazione;
- la strumentalizzazione del 25 aprile dalla fine della guerra a oggi.
Dimensione e presenza
La Resistenza italiana – a differenza di analoghi movimenti europei di ben altra natura e spessore come ad esempio quelli francesi e polacchi – iniziò a “brillare” di luce propria soltanto dopo che le truppe alleate misero piede sulla nostra terra (sbarchi anglo-americani in Sicilia del 10 luglio 1943 e poi fino a tutto il gennaio 1944, con gli sbarchi in Calabria, a Salerno e ad Anzio). Tuttavia, forze armate tedesche erano già da tempo presenti nei nostri territori, senza che si sia mai avuta notizia di attività “di disturbo” da parte di gruppi armati clandestini più o meno organizzati. Nel novembre 1941 i nazisti crearono un primo Comando militare in Italia ma, già dal dicembre 1940, quattrocento aerei (e relativo personale militare) della X Fliegerkorps – una potente unità della Luftwaffe – erano di stanza in Sicilia. L’invasione tedesca vera e propria iniziò poi a partire dalla metà del 1943. È generalmente acclarato che la Resistenza partigiana propriamente detta iniziò in una forma riconoscibile nell’ottobre 1943, non prima.
Stiamo parlando, inoltre, di un fenomeno quantitativamente e territorialmente limitato, che fu significativo quasi esclusivamente nel centro-nord d’Italia. Nel meridione furono essenzialmente due i momenti di maggiore rilevanza dell’attività partigiana. L’insurrezione di Matera del 21 settembre 1943 (con gli alleati già alle porte della città) e, soprattutto, le quattro giornate di Napoli del 27-30 settembre 1943. Quest’ultimo episodio è stato poi elevato a simbolo della lotta per la liberazione in Italia, non senza artificiose rappresentazioni. Così come a Matera, le truppe alleate erano in prossimità della città partenopea (vi entrarono il primo ottobre) e più di una circostanza rende difficile immaginare un’insurrezione armata popolare così come ci è stata dipinta dalle storiografie e cinematografie ufficiali (tutte rigorosamente ed intellettualmente schierate a sinistra). Infatti:
- la piazza di Napoli non era considerata dai tedeschi un sito militare rilevante; prova ne sia che il suo comandante era un semplice colonnello (Walter Scholl) e che la guarnigione complessiva contava poco meno di ottomila uomini (l’equivalente di mezza divisione di fanteria);
- il numero complessivo dei caduti, nei giorni della “rivolta” fu inferiore ai 250 (di cui una settantina tedeschi);
- l’abbandono della città di Napoli da parte dei tedeschi era già stato deciso precedentemente all’insurrezione.
La guerra partigiana propriamente detta fu invece avviata a partire dal fronte principale della difesa tedesca – da cui poi si propagò l’offensiva alleata verso la pianura Padana – rappresentato dalla “Linea Gotica”. Era quella una sorta di vallo fortificato, che si estendeva dal Tirreno (a sud della Spezia) fino all’Adriatico (Pesaro). Temporalmente, i combattimenti durarono per nove mesi, dall’agosto 1944 all’aprile 1945. Fu soprattutto in quel periodo ed in quella parte di territorio nazionale che si sviluppò la quasi totalità della guerra partigiana. Questo lo scenario che dette origine a un mito che resiste ancor’oggi immutato e indiscutibile.
Vogliamo fare un parallelo con la Resistenza francese? Essa – comandata in esilio dal generale Charles De Gaulle e simboleggiata dalla famosa Croce di Lorena – divenne una forza organizzata già dal giugno 1941. I loro numerosissimi aderenti combatterono da subito in una Francia settentrionale presidiata dai tedeschi i quali, nel novembre 1942, occuparono anche la Repubblica di Vichy. I partigiani francesi erano privi di appoggi militari esterni. Ai loro confini la Spagna franchista, l’Italia fascista e il Terzo Reich. A nord il Canale della Manica su cui si affacciava un’Inghilterra ormai allo stremo. I rifornimenti alleati arrivavano in modo sempre insufficiente data la situazione sul terreno. Caddero a decine di migliaia, questi combattenti, fino al D-Day del 6 giugno 1944 e poi ancora oltre, fino alla completa liberazione della Francia. Il loro apporto per il successo dello sbarco in Normandia fu certamente importantissimo (e per taluni storici, decisivo).
E che dire della Resistenza polacca, attiva subito dopo l’invasione tedesca di quella nazione? Basterà ricordare i quasi centomila caduti dell’Armia Krajowa (ciò che restava, in clandestinità, dell’esercito polacco) in una lotta impari e selvaggia, culminata con la rivolta di Varsavia dell’agosto 1944. Tuttavia, quasi centocinquantamila soldati tedeschi furono uccisi dalla resistenza polacca!
Questi confronti non servono a negare presenza, ruolo e sacrificio della resistenza civile italiana nella Seconda guerra mondiale (sarebbe stupido e idiota). Con essi voglio solo sottolineare quanto la portata, la dimensione e la rilevanza di tale realtà siano stati, nel tempo, strumentalmente dilatati per evidenti scopi politici e propagandistici. Una dilatazione che nel corso dei decenni ha portato, da un lato, ad un vero e proprio stravolgimento della realtà, dall’altro al nascondimento di una serie di nefandezze e crimini cui si macchiò la “Resistenza” di stampo social-comunista, specialmente negli anni immediatamente successivi alla fine del conflitto.
Questo nefasto meccanismo, deliberatamente premeditato, studiato e applicato, ha prodotto i suoi effetti anche sul versante dell’analisi storica, della divulgazione culturale e dell’informazione verso le generazioni successive. Un esempio per tutti: l’identificazione quasi totale della Resistenza partigiana con i partiti, i movimenti e l’ideologia socialcomunista. Tutto il resto fu ignorato o nel migliore dei casi sottovalutato o grandemente sminuito. In tal modo furono taciuti l’importanza e il contributo dato alla liberazione da altre componenti politico-ideologiche nazionali e, soprattutto, dalle nostre forze armate. Sì, cari giovani che festeggiate orgogliosamente il 25 aprile col pugno chiuso, perché il nostro esercito, i nostri marinai e i nostri avieri hanno combattuto contro i tedeschi, eccome! Per ora mi fermo qui; analizzerò quest’aspetto, e altro ancora, nella seconda parte del mio contributo.
1.continua