Verso il 25 aprile / Pensieri brutti, sporchi e cattivi su Resistenza e Liberazione. 2

di Fabio Battiston

Eccoci ora alla parte finale di questa personalissima “celebrazione” del 25 aprile. Qui la mia analisi affronta i ruoli che Resistenza e forze armate italiane ebbero nello sviluppo e definitiva felice conclusione della “Campagna d’Italia” e su come la festa che ricorda la fine di quell’incubo sia stata fino ad oggi concepita e vissuta. È una storia che, prima o poi, questa nazione dovrà avere il coraggio di rileggere non già alla luce di uno stupido revisionismo (nell’accezione negativa di questo termine) ma con la serena consapevolezza di chi vuole ridare dignità e forza ad una sola parola: verità.

Il ruolo resistenziale nella Liberazione

Per avere una risposta onesta e trasparente alla domanda su quale fu l’effettivo ruolo e la reale decisività della guerra partigiana nella liberazione dell’Italia, avremmo avuto bisogno, in questi ultimi settantotto anni:

– di storici non politicamente schierati, in numero così strabordante, nell’agone della sinistra socio-politica nazionale;

– di un’intellighenzia culturale in grado di declinare in modo non settario (spesso frutto di ignobili e strumentali voltafaccia) un periodo potenzialmente fruttuoso e nobile della storia d’Italia;

– di una classe politica, militare e culturale – di stampo liberal-conservatore, erede delle più nobili tradizioni della destra italiana non fascista – che per troppi anni non avesse evitato di raccontare (per viltà, ignominia, tornaconto personale, paura?) le altre “verità” che connotarono quei drammatici diciotto mesi, più almeno tre-quattro anni dell’immediato dopoguerra.

Tutto questo, purtroppo, non è avvenuto. Chi, come il sottoscritto, ha avuto la fortuna e l’opportunità di avere in famiglia testimonianze dirette di quegli anni, ha potuto farsi un quadro “alternativo” (ma non per questo meno veritiero) di alcuni di quegli eventi. Furono però la scuola, con i suoi libri di storia a senso unico, la televisione, il cinema dei registi militanti e pluripremiati e, non ultimi, gli “intellettuali democratici” d’ogni risma, a raccontarci le loro incontrovertibili verità. Quali? Quella delle orde nazifasciste messe in fuga in tutto il centro-nord Italia dagli eroici partigiani delle varie brigate in armi. Di esse la storiografia si è incaricata di esaltare principalmente quelle di derivazione comunista, socialista ed azionista (dai comunisti dei Gap, Sap e delle Brigate Garibaldi, dagli azionisti di Giustizia e Libertà fino ai socialisti delle Brigate Matteotti) riducendo o ignorando i contributi di lotta e di vittime dei gruppi cattolici non comunisti e di quelli liberali e monarchici.

Ma sono anche le verità istituzionali che ci hanno sempre descritto le grandi città industriali (Milano, Torino e Genova) liberate con il “decisivo” apporto partigiano senza il quale – insieme agli scioperi operai delle grandi fabbriche padane – avremmo assistito a lunghe e sanguinose battaglie, dall’esito probabilmente incerto, tra le forze armate alleate e la Wehrmacht.

Oggi a quasi ottant’anni da quegli eventi, e anche grazie al coraggio di alcuni personaggi della cultura di sinistra (giornalisti, storici e intellettuali), è stato finalmente squarciato un velo su quegli scenari. Qualche mito è stato sfatato, alcuni riconoscimenti sono stati riconsegnati ai legittimi proprietari e certi scheletri sono stati scaraventati fuori dagli armadi.

Ecco perché ora si deve poter dire, con sintesi forse brutale ma a mio avviso rispondente al vero:

– che la guerra partigiana non fu affatto decisiva nello stabilire i tempi e le sorti del conflitto in terra italiana. I veri liberatori furono gli eserciti alleati;

– che le cosiddette liberazioni delle grandi città industriali da parte della Resistenza, furono in realtà il frutto di accordi politico-militari. Con tali compromessi, gli alleati consentirono operazioni di pura facciata, poi abilmente sfruttate in chiave propagandistica dalle forze social-comuniste per costruirsi un’immagine patriottica dietro la quale si celavano altri obiettivi;

– che piazzale Loreto fu una delle pagine più ignobili e vergognose di cui si macchiò la guerra partigiana; un evento che suscitò anche l’esecrazione di tutte le nazioni che parteciparono alla liberazione del nostro paese;

– che componenti molto significative del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (CLNAI), politicamente dominato da socialcomunisti e cattocomunisti, ebbero come fine ultimo della loro lotta contro i nazifascisti, non già la nascita di uno stato democratico di stampo occidentale, quanto piuttosto lo sviluppo di una successiva insurrezione armata con l’obiettivo di trasformare l’Italia in uno stato satellite dell’Unione Sovietica;

– che gli episodi e gli scenari che contraddistinsero il cosiddetto “triangolo della morte” (o triangolo rosso) in Emilia Romagna, durante la guerra partigiana e fino a tutto il 1949, furono un vero e proprio fenomeno terroristico, di stampo stalinista. In quegli anni, la gloriosa giustizia partigiana socialcomunista massacrò quasi duemilacinquecento persone con l’accusa – vera, presunta o falsa – di essere stati a vario titolo militanti, conniventi o fiancheggiatori del passato regìme fascista. Come ho già accennato, morirono donne, ragazzi e ragazze minorenni, sacerdoti, suore e finanche membri locali del Comitato di Liberazione Nazionale.

Il contributo delle forze armate italiane

Ho citato nella prima parte di questo mio contributo la figura di mio padre, granatiere di Sardegna a Porta San Paolo a Roma. Quei giorni furono solo i primi di un lungo percorso nel quale le nostre forze armate dettero un esempio di coraggio, dedizione e capacità combattiva per molto, troppo tempo oscurato e misconosciuto dall’agiografia partigiana dominante. Stiamo parlando di un contributo di sofferenza e di sangue per definire il quale siano sufficienti al lettore questi tremendi numeri (sono dati del Ministero della Difesa):

87.000 caduti di cui 47.000 uccisi in combattimento contro i tedeschi e 40.000 che non fecero più ritorno dai campi di concentramento. Si pensi che nel medesimo periodo furono 17.000 i caduti tra le brigate partigiane.

Una storia, quella delle forze armate italiane nella guerra di Liberazione, che nasce nel momento stesso dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Dopo l’eroica e purtroppo inutile difesa di Roma, venne infatti costituito il 27 settembre 1943 il I° Raggruppamento motorizzato, comandato dal generale Vincenzo Dapino ed inquadrato all’interno della Quinta armata americana (generale Clark). Questo raggruppamento operò fino al marzo 1944 per poi divenire il Corpo italiano di Liberazione al comando del generale Umberto Utili. Nel mese di luglio dello stesso anno, gli alleati autorizzarono la costituzione di sei Gruppi di combattimento italiani che assunsero le denominazioni di vecchie e gloriose divisioni: “Cremona”, “Friuli”, “Folgore”, “Legnano”, “Mantova” e “Piceno”. Parliamo di decine di migliaia di uomini, comprendenti anche i moltissimi nostri militari che combatterono i tedeschi fuori dai nostri confini, Jugoslavia e Grecia in particolare. E non fu solo l’esercito il protagonista di questa storia; anche la nostra Marina Militare pagò il suo contributo (come non ricordare l’affondamento della corazzata “Roma” in cui morì il comandante, ammiraglio Bergamini, e 1.335 marinai) unitamente a ciò che restava della nostra aviazione. E poi carabinieri, guardia di finanza e Croce rossa.

I nostri reparti operarono lungo tutta la penisola, vincendo le diffidenze e, talora, le ostilità dei loro nuovi alleati. Questi, tuttavia, dovettero presto rendersi conto del valore dei soldati italiani, lo stesso valore dimostrato nella campagna di Russia, nella battaglia di Nikolaevka e ad El-Alamein. Quel medesimo valore che, a Cefalonia, spinse all’estremo sacrificio l’intera Divisione “Acqui” comandata dal generale Antonio Gandin, fucilato dai tedeschi il 24 settembre 1943.

Monte Lungo, Monte Marrone, Rocchetta, Picinisco, Atina e poi Teramo, Macerata e Urbino sono solo alcune delle località che videro i nostri soldati protagonisti in combattimento. Ecco i reparti del “Cremona” che furono i primi, il 10 aprile 1944, a sfondare la Linea Gotica. I nostri soldati entrarono poi nella pianura Padana. Da Modena a Mantova, da Bologna a Verona e poi Mestre e Venezia. Le Forze Armate italiane non riconquistarono solo città e territori, ma confermarono anche la dignità e la nobiltà di una storia.

Ma quanti di noi, giovani e meno giovani, studenti, lavoratori e professionisti delle diverse generazioni che si sono succedute dal dopoguerra a oggi, hanno nella loro vita sentito parlare di questa realtà, di questi luoghi e di questi nomi? Quanta storia dell’Italia moderna è stata raccontata, divulgata, insegnata e celebrata rispettando e ricordando tutti i protagonisti di quel periodo?

Il 25 aprile, festa di una sola parte

Ed eccoci, finalmente, alla fatidica data del 25 aprile. A quello che la sua celebrazione avrebbe dovuto rappresentare per la storia d’Italia. A ciò che essa avrebbe potuto e dovuto contribuire a costruire e a quello che invece dal 1946 a oggi ha realmente rappresentato. Che cosa? Una ricorrenza “partigiana”, nel senso dispregiativo del termine; una festa dell’intolleranza, del settarismo e della prevaricazione. Un ricordo perpetrato sull’odio e la menzogna e con una responsabilità politico-ideologica chiara e indiscutibile: quella della sinistra italiana globalmente intesa, puntellata da quei rimasugli ideologico-mistici del cattocomunismo nazionale (oggi catto-dem a trazione estremista, pagano-ambientalista e transgender).

Da ormai vari decenni, televisione, radio, giornali e da un po’di tempo anche il famigerato web, ci portano le immagini, le voci, i simboli e le parole d’ordine di questa cosiddetta “festa”. Un raduno di una sola parte di popolo, di vessilli di un solo colore, di inni e canti appartenenti ad una sola fazione, a un’unica “cultura” politica. Inutile ripetere chi è l’indiscusso detentore ideologico di tutto questo.

L’evidentissima e plastica dimostrazione di ciò che affermo, si è chiaramente proposta a partire dai primi anni Novanta; da quando cioè i partiti di centro-destra e destra hanno iniziato ad avere ruoli istituzionali e di governo (nazionale e locali) sempre più diffusi. Il gioco dell’alternanza tra opposti schieramenti, favorito dal sistema elettorale maggioritario, avrebbe dovuto facilitare un reciproco riconoscimento. Il nemico (o presunto tale) doveva finalmente assumere i normali connotati dell’avversario politico. Era giunto il momento di instaurare, dopo mezzo secolo dalla fine della Seconda guerra mondiale, una reale e definitiva pacificazione. E invece no! I detentori politici, ideologici, valoriali e culturali del 25 aprile si scatenarono come non mai, attivando una conventio ad excludendum (spesso violenta) che dura ancor oggi. Chiunque si presenti – come persona, istituzione o partito di area conservatrice – alle manifestazioni per la Liberazione organizzate un po’ in tutta Italia, subisce sempre il medesimo trattamento: urla, insulti, minacce e aggressioni al grido di “fuori i fascisti dalla piazza!” Insomma, il classico armamentario che da sempre contraddistingue certi paladini della democrazia e della libertà nel nome di un assurdo, anacronistico e perenne antifascismo militante. Il tutto, naturalmente, con la benedizione dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia. Ma quale festa di tutti gli italiani, ma quale momento di unità e concordia nazionale!

Parole vuote, condite dalla solita ed insolente retorica del presidente della Repubblica di turno. Parole che suonano a insulto per tutti coloro che da cattolici non comunisti, da liberali, da monarchici o da esponenti di destre non fasciste, hanno combattuto e sono morti, essi sì per una vera libertà.

Concludo queste pagine con un solo esempio, particolarmente odioso ed esecrabile, che regolarmente accade nelle manifestazioni più importanti del 25 aprile: l’aggressione e l’insulto di chi sfila in ricordo e onore della Brigata Ebraica! Nel nome di un osceno antisionismo e antisemitismo che da sempre alimenta e caratterizza un settore non banale della sinistra, non solo nelle sue frange più estreme, vengono date alle fiamme le bandiere israeliane e i vessilli della Brigata. I paladini rossi della libertà, da sempre alleati dell’estremismo terrorista palestinese, “festeggiano” ogni anno così il loro 25 aprile: cacciando dalle manifestazioni i figli e nipoti di quegli ebrei che, il 16 ottobre 1943, furono rastrellati dai nazisti nel ghetto di Roma finendo quasi tutti nelle camere a gas.

Questa è stata ed è la festa della Liberazione in Italia. E sarà così anche quest’anno, con una carica di livore, astio e risentimento ancora più violenta, vista la ridicola e perdurante accusa di fascismo che i nipotini di Togliatti rivolgono al governo in carica. Quel becero, ossessivo grido che essi ululano verso chiunque manifesti idee e valori a loro estranei. È sempre la solita vecchia storia, oggi come trenta, cinquanta, settant’anni fa. Volete che le cose restino sempre così, non è vero compagni? E allora tenetevela stretta questa festicciola, è tutta robaccia vostra!

2.fine

La precedente puntata è stata pubblicata ieri

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