di Fabio Battiston
Il 29 aprile 1923 nasceva a Bologna Cristina Campo, pseudonimo di Cristina Guerrini. Una perla della cultura italiana del Novecento, per decenni oscurata e misconosciuta da un’intellighenzia nazionale settaria, ideologica e barbara che non ha mai voluto e saputo onorarne la figura. La sua colpa? Non aver mai appartenuto a quella sinistra che, dal dopoguerra ad oggi, continua a egemonizzare tutto ciò che ha a che fare con la parola cultura. Già nel settembre dello scorso anno, dalle colonne di Duc in altum [qui], ebbi modo di rendere omaggio a questa eminente figura di cattolica, di donna e di delicata ma al tempo stesso robustissima intellettuale.
Nel centenario della nascita, e quarantasei dalla morte, ho pensato di renderle omaggio nuovamente offrendo all’attenzione dei lettori del blog alcuni versi tratti da Diario bizantino, una lunga poesia che fa parte di una più ampia produzione, curata da Margherita Pieracci Harwell, raccolta nel libro La Tigre Assenza (Adelphi, 1991).
I versi che seguono ci consegnano la Campo che molti cattolici hanno scoperto, disorientati e spauriti nella Chiesa terrena, ormai in inesorabile putrefazione, di quest’inizio di XXI secolo, nel suo intimo e soave rapporto con la tradizione liturgica, considerata forse l’ultimo argine a difesa di un imbarbarimento che lei vedeva palpabile nella Chiesa di Roma già alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso. Le atmosfere e le riflessioni di Cristina conducono il lettore nei riti e nelle tradizioni della Chiesa cristiana d’Oriente, soprattutto quella slavo-bizantina, guidandoci là dove il sacro è luce perenne (la luce delle icone), contro chiunque voglia distruggerlo o stravolgerlo.
Buon anniversario, cara Cristina, sono certo che i tuoi versi hanno reso ancora più splendente il Cielo che ti ha accolto.
*
Uno a uno vengono accesi i volti
alle radici millenarie
della selva d’icone,
per fare di giorno notte,
neve e stelle,
per far della tenebra rose
– più che rugiada trasparenti rose.
E la fiamma sboccia come il bacio all’icona
e il bacio sboccia come la rosa all’icona,
culmini della linfa della terra,
culmini del respiro dell’amore.
Ma la Luna qui
sboccia nel Sole,
la Luna partorisce il Sole.
Alla pesante pioggia
dell’altro mondo s’intesse
il soave scrosciare delle dalmatiche di questo mondo,
l’altero volo dei veli di questo mondo
inenarrabilmente ignoto al mondo.
Estatici allarmi ed appelli
d’angeli ministranti:
Le porte! Le porte!
escano i catecumeni!
Tre volte beato l’inno,
tre volte divina la folgore
teologica dei Cherubini,
ingiunge di deporre, disperdere dimenticare
ogni sollecitudine mondana.
Nessun catecumeno rimanga!
O imperiale fragranza,
olio di rosa bulgara che misteriosamente dischiudi
tra ciglia umettate l’occhio
della fronte, l’occhio del cuore, l’occhio del Nome
– myron effuso è il Tuo Nome!
Macerato con sessanta aromi
su un fuoco di vecchie icone
estinte da baci da fiamme e da lacrime
per gli eoni degli eoni
ruotate tre notti
tre giorni
sulle spirali del Verbo,
stilli ora luminosa intorno al trono
del Basileo morto
dell’immortale Archiereo:
che tragicamente s’arma, aquila librata
sopra la gnostica aquila della città inviolata
dal capo alla mano alla gamba
per la terrificante operazione.
Tempo è di cominciare, Despota santo…
Nessun catecumeno rimanga!
Ruota
lentissima intorno e folgorante
siderale e selvaggia
danza d’angeli e di ghepardi…
Pànico centrifugo
e centripeto rapimento
dei cinque sensi nel turbine incandescente:
spezzato, aperto di forza l’orecchio dell’intendimento
dalla ritmata percossa delle catene d’argento;
poi, nel cosmico manto
dei tre fiumi e dei quattro quadranti
dalla lenta inaudibile benedizione:
poiché qui Dio non parla nel vento,
Dio non parla nel tuono:
parla in un piccolo alito
e ci si vela il capo per il terrore.
Cristina Campo, Diario bizantino
da La Tigre Assenza