Il nome di Jean Ousset (1914-1994) dice poco al lettore italiano. In Francia è più conosciuto, specialmente negli ambienti del tradizionalismo cattolico, sin degli anni Cinquanta. Fondò un’associazione di cattolici militanti, la Cité catholique, che diventerà poi l’Office, che tanta parte ebbe nella formazione intellettuale e morale di una élite veramente cattolica e militante. Il suo libro Pour qu’Il règne ricevette nel 1959 una lettera di incoraggiamento e di approvazione da parte del delegato apostolico della Santa Sede per tutta l’Africa francofona che rispondeva al nome di monsignor Marcel Lefebvre.
«Lei ridice con tutti i Papi – scriveva allora il prelato francese all’autore – ed insieme a Nostro Signore stesso, “Venga il tuo regno”; lei vuole, innanzitutto, purificare gli animi da tutto ciò che in loro e intorno a loro si oppone a questo regno. Seguendo gli obbiettivi designati dai Successori di Pietro, lei si sforza di conoscere vieppiù i gravi errori che essi denunciano, per distruggerli; ed il mezzo che lei preconizza e tra quelli più efficaci: lavorare a fare luce negli spiriti in circoli ristretti, indicando in modo preciso la Verità da comprendere e da affermare, e l’errore da combattere» (Lettera del 24 marzo 1959).
La lettera che qui proponiamo è molto bella e profonda. È la risposta piena di fede a un lettore scoraggiato a causa della situazione nella Chiesa (siamo nel 1966, chissà che cosa avrebbe scritto sotto il pontificato di papa Francesco!), scandalizzato dalla pagaille (termine familiare per baraonda, trambusto, che abbiamo tradotto con pasticciaccio, nel senso di situazione ingarbugliata e misteriosa, senza via d’uscita) nella Chiesa.
Allo sconosciuto lettore, tentato di andarsene sbattendo la porta, di disertare il campo di battaglia, dal momento che i primi a tradire sono proprio gli ufficiali, Jean Ousset risponde con gli argomenti della storia e quelli delle Fede.
Possano queste righe confortare il cattolico del XXI secolo che avrebbe la tentazione di fare come l’anonimo lettore scoraggiato. L’appassionata risposta di Jean Ousset non ha perso una briciola di attualità. Egli ripete, chiare e forti, le parole del Maestro: «Uomini di poca fede, perché dubitate?».
don Luigi Moncalero
* * *
di Jean Ousset
Egregio Signore,
non è certo piacevole rispondere alla sua lettera. Ci vorrebbe un volume. E ancora non si sarebbe sicuri di fare bene.
Tacere? Confesso di non potermi fermare a questa soluzione. Non per il desiderio, capisca bene, di correre dietro ad un abbonato che se ne va. Ma perché l’amicizia verso di noi, che traspare dalle sue parole, ha diritto ad una risposta, tanto brutale quanto la collera che la anima. […]
Lei mi dice di aver perso la Fede. Non ne sarei così sicuro. Proprio questo traspare dalla sua lettera; una rivolta, almeno, verso ciò che è l’oggetto stesso della Fede. Prova che questa Fede (nel senso stretto del Giuramento antimodernista: «adesione ad un insegnamento…» ecc.) è in lei più lucida, più ardente, al di là delle apparenze che, nel clima del “volemose bene”, fa sì che coloro che si dicono ferventi non sanno neanche a che cosa credono. Sono quelli pronti a bersi tutto, anche la carta che gli è propinata alle porte delle chiese!
Il suo peccato mi sembra essere più contro la Speranza. Non la speranza secondo il mondo, fatta di ottimismo beato […] ma l’autentica Speranza cristiana. Virtù teologale. Soprannaturale. Serena, benché senza illusioni. Più forte della morte e dei peggiori scandali…; a condizione però che sia nutrita di buona dottrina e di una sufficiente conoscenza della storia della Chiesa.
Ora, benché il peccato contro la Speranza possa essere disastroso tanto quanto quello contro la Fede, non si risponde al peccato contro la Speranza allo stesso modo con cui si risponde al peccato contro la Fede.
Lei mi fa venire in mente un soldato che abbandona il servizio e l’amore alla sua patria perché non sopporta più le miserie o gli sbagli di troppi suoi capi. Tragica situazione. Ma tali diserzioni o rivolte conducono inevitabilmente a situazioni ancor peggiori.
Troppi eccessi clericali la scandalizzano. C’è di che perdere la fede.
Di fatto, spesso, il rifiuto della fede riposa sulla protesta contro quell’eccesso, diverso, ma analogo: «Scandalo per i giudei, stoltezza per i pagani» di un Dio che si abbassa, soffre e muore sulla croce tra due malfattori, sotto gli insulti ed i sarcasmi di ciò che era reputato il fior fiore della religione legittima di allora. «Pasticciaccio», come lei dice, che spense lo slancio dei primi discepoli, ma che il Maestro, il mattino della Risurrezione, si compiacque di commentare «a due di loro» sulla strada di Emmaus. Incominciando con trattarli da «… stolti e tardi di cuore a credere a tutte le cose che i profeti hanno detto! Non doveva forse il Cristo patire tali cose e così entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava loro…» ecc. (Lc 24, 25ss).
Così è della Chiesa. Non crede che anch’Essa debba soffrire? Come il Maestro! Prima che le sia concesso di diventare interamente la Gerusalemme celeste!
Quasi che la vita, l’essere stesso della Chiesa, non fossero, o non fossero più, la vita e l’essere di Gesù Cristo proiettato nelle successioni della storia e nelle moltitudini delle nazioni.
«E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegava loro…». È questo il metodo! Cominciando dallo studio della Chiesa sin dai suoi inizi e percorrendone tutta la storia.
È a causa dell’ignoranza di ciò che la Chiesa non ha smesso di subire da venti secoli a questa parte che noi ci facciamo della nostra santa religione un’idea scipita totalmente sviluppata dal conformismo clericale. Mentre invece, sin dal Calvario, Dio ha costantemente permesso, Dio permette, che la storia della Chiesa sia (almeno sotto un certo aspetto) un dramma clericale. Dramma analogo a quello della vita, della passione del Signore.
Lei mi parla del «pasticciaccio attuale». Anche se vero, l’argomento è debole nella misura in cui si limita al solo «pasticciaccio» attuale. Dal momento che, in un certo senso, tutta la storia della Chiesa è la storia di un pasticciaccio perpetuo.
Al punto tale che, se si dovesse perdere la fede a causa del «pasticciaccio», si peccherebbe per difetto e non per eccesso, se si evocasse solamente il pasticciaccio di oggi.
Dovendosi rivoltare, perché rivoltarsi solo in nome dell’ultima “parte”, quando c’è il “tutto”? Di fatto, spingendolo a fondo, l’argomento si rovescia. A considerare il “tutto” e non solo la parte che ci riguarda da vicino perché la viviamo… («E cominciando da Mosè… »). Intendo dire che se si prende la storia della Chiesa sin dall’inizio e se si esamina il rinnovarsi dei suoi drammi lungo il corso dei secoli, ciò che, considerato in modo frammentario, farebbe perdere la fede, diventa invece un argomento a favore di questa, se si medita nella sua totalità.
Lei si infrange sugli scandali di un certo clericalismo attuale. Mi creda, bisogna infrangersi su molto di più per cadere davvero in ginocchio. Perché lo spettacolo di questo “molto più” è tale che non può più essere equivoco. Bisogna, piaccia o no, riconoscere il segno di un dramma divino. Tragedia della Redenzione che continua svolgersi «fino a che il numero degli eletti sia completo».
In tal modo l’argomento contro diventa argomento a favore, se lo si medita alla luce soprannaturale della Passione del Signore. L’inferno non si perde di coraggio! E ciò è riconfortante! Che segno ammirevole della eterna attualità della nostra fede! Quanto noi dobbiamo preferire questo stato di allarme continuo alla vita di tante “religioni” senza garbuglio che Satana non si prende neanche la pena di passare al setaccio.
Il male, il grande male, consiste nel fatto che noi cattolici non conosciamo e non meditiamo la storia della Chiesa. Quelle lotte, quei sommovimenti ci sembrano inconfessabili perché crediamo che la calma e la pace dovrebbero essere gli unici segni della sua divinità.
Inoltre, noi lasciamo diffondere lo slogan pubblicitario secondo il quale da noi la vita sarebbe più pacifica e serena che altrove. E poi ci stupiamo dell’inerzia generale. Come diceva Bernanos: «Scriveranno sul loro tempio: Qui si mangia meglio che là di fronte. E si stupiranno di raccogliere solo dei ventri».
Persecuzioni che vengono dal di fuori? Passi! Ma i turbamenti, i tradimenti, gli scandali interni e come tra di noi, ecco che allora perdiamo la fiducia.
Eppure né la dottrina né l’esperienza di una storia venti volte secolare ci consentono di affermare che quaggiù la Chiesa debba essere necessariamente composta di fedeli edificanti, di sacerdoti di buona dottrina, soprannaturali, di vescovi senza rispetto umano, coraggiosi davanti a Cesare e sottomessi di cuore alla Santa Sede… o, che so, di papi impeccabili benché infallibili.
«Bisogna che ci siano le eresie – scrive un autore non sospetto d’integrismo: Karl Rahner (Gefahren im heutigen Katholizismus…) – perché esse sono più che le semplici conseguenze di una libertà arbitraria. Appartengono a quelle oscure cose che devono essere, affinché nessun uomo, e quindi anche la verità dell’uomo, possa gloriarsi davanti a Dio. Di conseguenza il cristiano non deve stupirsi d’incontrare le eresie. Meglio, se le aspetterà. Le considererà come una tentazione inevitabile, o come la tentazione (la prova) più alta, più sublime. Quella in cui le tenebre si travestono in angelo di luce. E se il cristiano non distingue nessuna eresia […] non deve considerare una simile pace come qualcosa di normale. Deve piuttosto domandarsi, con timore, se gli occhi dello spirito non siano diventati ciechi e il suo cuore insensibile alla differenza tra vero e falso, al punto da non saper più distinguere l’eresia come tale».
Se conoscessimo meglio la storia della Chiesa, non metteremmo in dubbio la predilezione di Dio per questo genere di prove. Sarebbe mancare del giusto senso del divino l’ignorare, il tacere, il nascondere deliberatamente quello che Dio, negli annali cristiani, ha chiarissimamente lasciato sovrabbondare.
Dio si è forse sbagliato? O siamo noi, piuttosto, che abbiamo la tendenza a preferire una commediola da oratorio alla tragedia sconvolgente della Redenzione? I santi, da parte loro, hanno amato il sapore di questo vino e se ne sono inebriati. I nostri cristiani “adulti”, invece, preferiscono la sciacquatura del bicchiere.
Un gran numero di cristiani è preso da scoramento davanti a certi scontri. Strani questi soldati di una Chiesa che si definisce militante; curiosi questi guerrieri sconvolti dalle prime avvisaglie di battaglia.
Ma dove credono di essere? Perché Dio dovrebbe risparmiarci ciò che non ha risparmiato a nessuna generazione cristiana?
«Ma noi ne abbiamo il diritto…». Ma di cosa si lamenta? […]
Tutto ciò le sembra il segno di un «pasticciaccio brutto», le fa «perdere la fede», la spinge ad «abbandonare». Ma non ha mai pensato a quante insolenze, rivolte, bassezze l’incessante corteo di eresie e di scismi ha suscitato, a confronto delle quali quelle che subiamo oggi sono quisquilie, bazzecole, pinzellacchere?
Tanto per gradire… gnostici e manichei, all’inizio; montanisti [1] e novaziani [2], nel secondo secolo, accompagnati da quartodecimani [3], rebattezzanti [4], millenari, antitrinitari. Poi i donatisti [5] e i meleziani [6], precursori dell’arianesimo, che ha conosciuto diversi corsi e ricorsi. Pelagio e Celestino, Nestorio ed Eutiche. E tutti gli altri, fino ai nostri giorni. Con un ritmo di tre o quattro eresie per secolo.
Oggi, da lontano, tutto sembra chiaro, netto, perfettamente distinto: da una parte i fedeli, dall’altra gli eretici o gli scismatici. Ma anche per coloro che vissero tutto questo era un «pasticciaccio brutto». Non si sapeva con chi stare. Il parroco da una parte, il viceparroco dall’altra. I vescovi, collegialmente discordi. Gli Atanasio e gli Ilario una insignificante minoranza. E come sempre erano gli altri che – modestamente – pretendevano di avere il senso della storia, di essere aggiornati, testimoni del secolo, ecc.
Il distacco nel tempo tende a deformare la prospettiva, mettendo ordine laddove fu «pasticciaccio brutto», eccome. S’immagini un po’ come sarebbe il nostro morale se avessimo sotto gli occhi gli accessori inevitabili di tanti errori: polemiche, insulti, tumulti, conflitti, torture, assassinii, apostasie, tradimenti, vigliaccate, che la storia non si prende neanche la briga di raccontare dal momento che ce n’è a bizzeffe.
Poi, dal momento che lei se la prende con il clero, pensi allo stato della Chiesa nel X secolo. L’epoca peggiore! Niente scuole, niente insegnamento. L’ignoranza è tale che i concili (per esempio quello di Trosly [7], 909) sono costretti a obbligare i preti stessi a studiare cose di una semplicità disarmante.
Eppure, caro Signore, non dubitiamo affatto che anche in questi periodi spaventosi, il Cielo ebbe la gioia di vedere alcuni fedeli “mantenere la posizione”. Autentici consolatori di Cristo nella sua agonia.
«Pasticcio brutto» del Grande Scisma d’Occidente. Due, anzi tre papi, che si anatematizzano a vicenda. «Pasticcio» del “concilio” di Basilea, che dichiara il papa sospetto di eresia. «Pasticcio» di popoli interi cadere nell’eresia, clero in testa. «Pasticcio» di vescovi gallicani e giansenisti. […]
E Dio permette tutto questo! Così come ha permesso la via Crucis e la crudele Passione del Figlio suo. Sempre per lo stesso motivo: la sua maggior Gloria a la maggior Gloria degli eletti. Mistero della Croce che redime, Mistero della Chiesa. Mistero d’innumerevoli prove subite dai santi. Un’unica e medesima prospettiva.
Dal momento che la nostra concezione di Chiesa si de-soprannaturalizza, si razionalizza, vuole essere sempre più “nel senso della storia”, cioè nel senso di un messianismo umano, per questo motivo perdiamo l’intelligenza e l’amore del mistero adorabile della santa passione di nostra madre, la Chiesa.
Che fare, allora? Quello che fecero la Veronica e il Cireneo al passaggio del Maestro coperto di sangue, di polvere, di sputi, di vomito vinoso (è la Sacra Scrittura che lo dice, senza paura delle parole); la corona di spine che cinge i suoi capelli di sangue viscoso; il volto tumefatto; barcollante sotto la croce; spintonato dalla soldataglia; preso a sputi dal popolo; condannato dai dottori, dai preti e dai teologi di allora.
Per noi il dovere è chiaro. Innanzitutto non avere paura, infischiarsi dei sarcasmi; non disertare. Fendere la folla, avanzare risolutamente verso Gesù, restare forti nella fede.
Da venti secoli il mistero si rinnova: il sembrarne sorpresi solo oggi non può certo essere una scusante. Siamo pronti e, se possibile, più solleciti di Veronica, a riconoscere, qualunque sia la sporcizia che lo nasconde, il santo Volto del nostro Dio, il santo Volto della Chiesa.
Con un gesto dolce e pietoso sappiamo rendere a questo Volto così caro la sua purezza essenziale. Asciugare il santo volto, come Veronica. Avendo cura, però, di non aggiungere dolore a dolore. Senza scorticarlo ancor più con la nostra collera o la nostra impazienza. Senza riaprirne le ferite. Sebbene ella abbia dovuto, per avvicinarsi, aprirsi un passaggio, spingere via i curiosi, andare oltre a non so quale precetto legale, forzare il cordone di legionari.
Aiutare a portare la croce, come Simone, certamente in modo efficace. Ma senza aggiungere altre asprezze, senza sgarbatezze, senza scossoni dolorosi.
Facciamo attenzione a non distogliere lo sguardo davanti allo spettacolo ignominioso. Sappiamo riconoscere Colui, e quindi Colei, che sembra vacillare davanti a noi. Tanta sporcizia, tante ecchimosi non ci devono farne dimenticare la purezza e la santità sostanziali.
Beati noi se, dopo aver seguito tutto, visto tutto, ascoltato tutto, come il centurione del Calvario, ce ne ripartiamo professando forte e chiaro che veramente quell’uomo è il Figlio di Dio, che veramente la Chiesa è la Sposa immacolata di Cristo.
«Non l’abbiamo riconosciuto, profetizzava Isaia (cap. 53). Senza bellezza né splendore… abbietto, l’ultimo degli uomini, l’uomo dei dolori, che conosce la sofferenza e quasi cerca di nascondersi la faccia … lebbroso». Sì, è tutto vero. Del Cristo e anche della Chiesa […].
Ma non sono meno veri, sia riguardo al Cristo che riguardo alla Chiesa, i testi sacri che ci parlano del più bello dei figli degli uomini, di vesti bianche come la neve, di volto splendente come il sole.
La Chiesa, fonte di santità nella vita privata, la Chiesa fonte di civilizzazione, di ordine e di pace nella vita pubblica.
Madre dei santi, madre delle vergini, madre dei martiri, madre degli apostoli, madre dei dottori, madre dei monaci dissodatori, agricoltori e costruttori, madre dei liberatori degli schiavi, dei guaritori di malati, madre degli ospedali, madre degli orfanotrofi, madre dei profughi, madre delle scuole […], madre del rispetto della donna, madre dello spirito cavalleresco, madre maestra dei popoli, madre delle encicliche sociali, madre mecenate delle arti, madre del gregoriano, madre delle nostre basiliche e delle nostre cattedrali… Madre di due Terese, madre di Francesco, di Bonaventura, di Tommaso, d’Ignazio, di Saverio, di Vincenzo, ecc.
Si può dire di più? Di più per la durata? Di più per l’universalità delle manifestazioni? Di più per la qualità e l’eroicità di questi benefici?
Sarebbero questi i valori da abbandonare, le causa da abbandonare, l’esercito da cui disertare? Quand’anche, come lei dice, una certa “cricca” non aspetta che l’occasione per demolirci? Lei crede che Bernanos preparasse l’abbandono dell’Arca santa quando scriveva: «Una nuova invasione modernista comincia. Cent’anni di concessioni, d’equivoci, hanno permesso all’anarchia di contagiare il clero. La causa dell’ordine non può più fare affidamento su questi capi declassati. Credo che i nostri figli vedranno le truppe della Chiesa schierarsi accanto alle forze della morte. Sarò fucilato da dei sacerdoti bolscevichi che avranno il Contratto sociale in tasca e sul petto la croce»?
Almeno Dio non ha permesso questo. Prova che rimane il Padrone. Oppure è quello che riserva per noi!
A questo proposito, il nome di «Renaude» evocherebbe quello che ci aspetta [8]. Perché, a ben pensarci, la vecchia «Renaude» ha tenuto testa al lupo durante tutta la notte, rifiutando di sdraiarsi e morire prima dell’alba. C’è forse una sorte più invidiabile per ogni soldato di Cristo che rifiuti d’imboscarsi?
Adesso è la notte, il tempo dei lupi. Il tempo in cui essi approfittano delle tenebre per farsi accettare, travestiti da pastori. Il tempo in cui, con le fauci piene di “pace”, avanzano per devastare il gregge.
La notte è il tempo in cui i vili si disperdono; si appiattiscono coloro che tremano, come dice la Scrittura. Il tempo in cui i cattivi pastori preferiscono restare a letto, e gli apostoli hanno le palpebre appesantite dal sonno. Il tempo dell’attività di Giuda. Il tempo della solitudine del Maestro.
Ma è anche il tempo in cui lo Sposo si rallegra di trovare le vergini sagge con la lampada piena d’olio e accesa.
È proprio la notte, e malgrado la notte, che bisogna tener duro e combattere.
E quindi, beate le caprette «Renaude» e «Blanquette» le quali, irremovibilmente decise a lottare, si rifiutano di distendersi, per morire solo dopo il sorgere del sole.
Perché, in fondo, l’aurora è comunque la vittoria delle «Renaudes». Il termine della loro missione. Infatti, anche se il lupo si ritira dopo averle sbranate, rimane il fatto che l’aurora è il tempo della fuga dei lupi davanti alla luce. L’ora in cui essi si allontanano dall’ovile. L’ora in cui i pastori, anche quelli mediocri, si svegliano. L’ora in cui i vigliacchi riprendono coraggio, l’ora in cui il gregge può camminare senza paura.
Dio faccia di noi dei veri «Renaudes». E quando suonerà l’ora di distenderci per morire, voglia Iddio che possiamo vedere a oriente la luce sgargiante non di una stella ma di quella Luce delle genti e il Sole di Giustizia che è il Cristo: aurora di un nuovo ordine cristiano sul mondo.
Il resto conta poco. Dal momento che colui che semina non è lo stesso che raccoglie, non c’è da spaventarsi se le «Renaudes» muoiono sul far del giorno.
La gloria della Chiesa non è una gloria umana. Bisogna che essa sia santa, quasi malgrado noi.
Oserà dire che Essa ci ha lasciato senza insegnamento? Le mancano le encicliche per poter vedere chiaro? I discorsi e gli insegnamenti pontifici non sono abbastanza limpidi? [9] Avanti, le sue reazioni sarebbero meno violente contro il progressismo di certi chierici se lei fosse meno sicuro del loro oblio della dottrina della Chiesa in questa materia.
E allora? Che cosa dovrebbe pensare un ufficiale di un soldato che accettasse di fare il suo dovere solo a condizione che nessuno intorno a lui gli spari alle spalle o disobbedisca? La diserzione sarebbe permessa nel momento in cui qualcuno ne dà esempio?
Prova dolorosa, certo! Ma è quella della nostra speranza e della nostra fede nella Chiesa. Della nostra speranza e della nostra fede nella Croce.
Avanti, caro Amico, riprendiamoci. Come dice in buona sostanza l’autore dell’Imitazione di Cristo: non c’è motivo serio di fermarsi. Camminiamo insieme. Gesù è con noi. Attraverso di Lui saremo caricati della croce, certo, ma sarà nostro sostegno Colui che è il nostro Capo e la nostra Guida. Ecco che il nostro Re cammina davanti a noi. Combatterà per noi, Seguiamolo coraggiosamente. Nulla ci spaventi. Siamo pronti a morire generosamente in questa guerra. E non macchiamo la nostra gloria con la vergogna di aver fuggito la croce (cf. Imitazione di Cristo, L. 3, cap. 56).
O Crux ave Spes unica!
[1] Montanismo: dal nome suo iniziatore, Montano; setta rigorista del II secolo. I seguaci furono anche chiamati “catafrigi”. Montano si autoproclamò nientemeno che l’organo dello Spirito Santo. La setta era caratterizzata da una intransigente rigorismo morale. Sul nascere parve come un movimento di rinnovamento spirituale nel seno della stessa Chiesa, ciò che dovette favorirne grandemente la sua propagazione. (n.d.t.)
[2] Novazianismo: dal nome del suo fondatore Novaziano, presbitero romano del III secolo. La sua dottrina è affine al montanismo per quanto riguarda il rigorismo morale. (n.d.t.)
[3] Quartodecimani: Con questo nome vengono designati i seguaci dell’antico computo ebraico, che poneva la festa di Pasqua al 14 nísan, qualunque fosse il giorno della settimana in cui venisse a cadere, contrariamente alla prassi della chiesa di Roma. Di qui ebbe origine la controversia pasquale. (n.d.t.)
[4] Nel testo francese a mia disposizione trovo letteralmente “débatisants-sbattezzanti”, ma si tratta, salvo migliore giudizio, di uno sbaglio. Deduco dal contesto che si tratti dell’eresia dei rebattezzanti, che erano degli eretici che pretendevano la reiterazione del sacramento del battesimo per i cristiani caduti nell’eresia e successivamente convertiti. (n.d.t.)
[5] Donatisti: dal nome del Vescovo africano Donato che fu all’origine di uno scisma nel 315 durato trecentocinquant’anni. L’origine va ricercata nei dissensi circa la condotta tenuta del clero durante la persecuzione. Secondo questa eresia la Chiesa è la società dei santi e i sacramenti amministrati dai peccatori sono invalidi. (n.d.t.)
[6] Meleziani: dal nome di Melezio, Vescovo di Licopoli nella Tebaide (Egitto), autore di uno scisma che cominciò probabilmente nel 306 e non si estinse del tutto che verso il principio del VI secolo. Di fatto il nostro, mentre il legittimo vescovo di Alessandria, Pietro, era nascosto (siamo sotto la persecuzione di Diocleziano), pare si arrogasse il diritto di procedere come superiore della Chiesa egiziana, visitando, ordinando chierici e scomunicando. Di sentimenti rigoristi, sembra aver considerato la fuga del Vescovo Pietro e dei suoi vicari come tradimento e forse per questo lo stesso Pietro come decaduto dal suo ufficio. (n.d.t.)
[7] Concilio di Trosly: fu uno dei più importanti sinodi provinciali francesi. (n.d.t.)
[8] Qui si fa riferimento alla favola di A. Daudet, La chèvre de M. Seguin, in cui si parla di Renaude e di Blanquette, le due caprette avide di libertà che morirono combattendo per tutta la notte contro il lupo feroce. Solo al mattino, invitte ma stremate, si lasceranno divorare (n.d.t.).
[9] L’A. si riferisce naturalmente all’insieme degli insegnamenti pontifici, al magistero ordinario e universale della Chiesa, il “quod semper et ubique et ab omnibus – ciò che è stato creduto sempre dappertutto e da tutti” di san Vincenzo di Lerino. (n.d.t.)
Fonte: www.sanpiox.it