Attenzione a costruire la propria fede solo sulla lotta al nemico
di The Wanderer
Certamente molti di noi frequentatori di questo blog siamo stati educati a un cattolicesimo militante. Ciò implica intendere la vita cristiana come una lotta incessante e permanente: sia contro le passioni sia contro i nemici di Dio e della sua Chiesa. Tale cristianesimo militante, divenuto ormai un habitus, è talmente intessuto nel nostro essere cristiani che tende a trasformarsi in una seconda natura. In altre parole, noi possiamo intendere la nostra vita cristiana solo come un combattimento.
Il libro di Giobbe dice: “Militia est vita hominis super terram” e, al pari degli insegnamenti degli apostoli e dei Padri, vi ricorre l’immagine della lotta. Non per niente i Padri del deserto, fondatori della spiritualità cristiana, sono chiamati Padri neptici, perché conferiscono un posto centrale nella vita spirituale alla népsis, cioè alla vigilanza nei confronti dei nemici – i pensieri malvagi – che circondano l’anima. E non a caso usano un termine militare, perché népsis si riferisce all’atteggiamento della sentinella che, asserragliata sulla cima di una torre di guardia, scruta l’orizzonte in cerca di nemici.
Questo modo di intendere e vivere la fede, però, ha i suoi rischi. Uno di questi è vedere il cristianesimo esclusivamente come una lotta. Il che ha come conseguenza che la preghiera, la lettura delle Sacre Scritture, la visita ai malati e molte altre opere di misericordia saranno presto lasciate in disparte. In sostanza, si rischia di cadere in un attivismo grossolano, che appassiona e infiamma ma è sostenuto solo dall’emozione e dalla fantasia militare in cui si vive. Ecco allora tanti adulti che, nonostante l’età, continuano a giocare ai soldatini come quando erano adolescenti.
L’altro rischio su cui voglio soffermarmi è che il cristianesimo finisca per essere segnato dal nemico di turno. In sostanza, il nemico della fede diventa più importante della fede stessa e il cristianesimo è vissuto in funzione del nemico. Ricordo vividamente una situazione che, a distanza di anni, assume contorni comici. Nel settembre 1989, quando ero un giovane sempre pronto a combattere i nemici, partecipai alla Messa celebrata da un sacerdote noto per essere un acuto analista delle battaglie che dovevamo affrontare. Quel giorno il prete annunciò nell’omelia che, secondo i suoi calcoli, il comunismo sovietico avanzava a una velocità di quaranta chilometri all’ora ed era solo questione di tempo prima che raggiungesse l’Argentina. Dunque, dovevamo essere preparati alla lotta. Ripeto la data: settembre 1989. Due mesi dopo cadeva il muro di Berlino e, con esso, l’era sovietica. Ebbene, il problema per questo sacerdote e per molti altri combattenti come lui non fu la profezia fallita, ma il fatto di trovarsi improvvisamente senza un nemico. Tutta la loro formazione, tutto il loro apostolato e tutte le loro forze erano state dirette per decenni contro il comunismo nella forma dell’Unione Sovietica. Con la sua caduta, il loro cristianesimo si indebolì e c’è voluto molto tempo prima che potessero riarmarsi e iniziare un nuovo e necessario piano di battaglia contro il marxismo culturale.
Nel corso degli anni Ottanta e Novanta, nell’ambiente ecclesiastico conservatore argentino, la militanza era anche contro il progressismo religioso. Così i centri di formazione sacerdotale conservatori, come i seminari di Paraná, San Rafael e San Luis, furono strutturati come un’arma contro i progressisti: all’abito talare, a qualche lezione di latino qua e là, a una formazione filosofica e teologica elementare rivestita di tomismo si aggiungeva la militanza antiprogressista che eccitava i giovani generosamente formati in questi seminari. Parte fondamentale del percorso formativo era la devozione, con totale sottomissione, al Sommo Pontefice. I due ingredienti si sposavano perfettamente: “Combattiamo contro il progressismo perché è la lotta del Papa. Egli è il nostro paladino nella guerra contro coloro che distorcono le verità della fede e della morale”. Erano i tempi wojtyliani, e con Giovanni Paolo II la militanza conservatrice aveva definito chiaramente il suo ruolo e il suo condottiero.
Il problema è sorto, per questi giovani oggi non più giovani, e tanto più per i loro formatori ormai molto anziani, quando l’equazione è stata smontata, cioè quando il papato ha abbracciato il progressismo. Nei primi anni del pontificato di Francesco le cose potevano ancora essere mascherate pour la galerie, per evitare che i fedeli potessero essere disorientati e rimanere senza un nemico chiaro. Ma gli anni sono passati e oggi nessuno può essere raggirato: Francesco incarna e proclama senza mezzi termini le dottrine progressiste che essi stessi, qualche decennio fa, attaccavano con fervore. E l’obbedienza al Romano Pontefice impedisce loro qualsiasi tipo di manovra: non possono attaccare apertamente il progressismo perché attaccherebbero il Papa. In sostanza, dopo che hanno esaurito i loro nemici, come possono dare ancora un senso al loro cattolicesimo militante?
È divertente e patetico osservarli. I conservatori più abili nelle tecniche di camaleontismo, come nell’Opus Dei, hanno attraversato tutti i colori dell’arcobaleno per adeguarsi alla nuova aria che tira. Non è servito a molto, perché sono stati decapitati da Bergoglio. Altri hanno semplicemente cambiato schieramento nel bel mezzo della battaglia: basti vedere cosa è successo durante la pandemia con la questione della comunione in bocca e come molti, un tempo paladini dell’ortodossia della fede, abbiano rapidamente accettato le imposizioni episcopali. In internet circolava la deplorevole predica di un sacerdote, leader del conservatorismo argentino, che impiegò venti minuti per lodare l’usanza cattolica della comunione in bocca, ma concluse dicendo che era necessario obbedire e ricevere la comunione in mano.
Oppure cercano di menar il can per l’aia. Mi è dispiaciuto ascoltare la riflessione di padre Santiago Martin la scorsa settimana. Finora era stato molto duro e molto chiaro nella sua posizione contro il sinodo tedesco e contro ogni tentativo di democratizzazione della Chiesa. Ma è bastato che il Papa decidesse che settanta laici potessero partecipare al prossimo sinodo dei vescovi, con diritto di parola e di voto, perché cambiasse surrettiziamente posizione e dicesse che va tutto bene, perché si tratta di un sinodo con i vescovi e non di un sinodo dei vescovi, e che comunque la situazione sarebbe grave se le decisioni del sinodo fossero vincolanti, ma trattandosi solo di suggerimenti per il magistero papale, va tutto bene. Di fronte all’autorità del pontefice, tutti chinano umilmente (o indegnamente?) il capo.
Uno degli atteggiamenti più curiosi e scandalosi è stato quello di buona parte del clero conservatore della diocesi di San Rafael. Lì, vedendosi di fatto senza nemici e non riuscendo a concepire la fede senza qualcuno contro cui combattere, hanno scelto come avversari i tradizionalisti, ovvero una manciata di sacerdoti che poco tempo prima erano loro amici e un manipolo di fedeli che facevano parte del loro gregge. Ma ora non lo sono più. Hanno infatti intrapreso una campagna in cui superano di gran lunga i progressisti nel rifiuto e nella critica della messa tradizionale. Questo il modo che hanno trovato per riaccendere la loro passione.
Mai come oggi è di attualità Chesterton che, nel suo libro Perché sono cattolico avvertiva che “Un conservatore è un progressista che cammina più lentamente verso gli stessi obiettivi”. Oppure: “Un conservatore ammette gli errori ma non è disposto a correggerli”, e ancora: “Un conservatore ha una missione chiara: impedire la tradizione”.
Fonte: caminante-wanderer.blogspot.com
Traduzione di Valentina Lazzari
Titolo originale: La militancia y los conservadores