di Cristiana de Magistris
Nel 325 il Concilio di Nicea definì la consustanzialità (homooùsion) del Padre e del Figlio, ossia decretò che il Padre e il Figlio hanno la medesima natura divina. Il termine homooùsion era dottrinalmente perfetto per indicare la consustanzialità del Padre e del Figlio e confutare l’eresia ariana, secondo cui il Padre, ingenerato, non poteva condividere con altri la propria ousìa, cioè la propria sostanza divina.
Il termine homooùsion era dunque l’unica parola che gli ariani non potevano pronunciare senza rinunciare alla loro eresia e perciò divenne la cartina al tornasole dell’ortodossia cattolica.
Il Concilio di Nicea fu convocato dall’imperatore Costantino, il quale incoraggiò fortemente la definizione della consustanzialità del Padre e del Figlio. Sant’Ilario afferma che, al Concilio di Nicea, “80 vescovi rigettarono il termine consustanziale, ma 318 l’approvarono”. Di questi ultimi, però, un buon numero sottoscrissero il Credo solo come un atto di sottomissione all’imperatore.
M.L. Cozens commenta: “Uomini di mondo, essi non amavano la precisione dogmatica e volevano una formula che poteva esser sottoscritta da uomini con idee diverse, potendola interpretare in sensi diversi. Per costoro, tanto la fede precisa ed esatta di un Atanasio quanto l’ostinata eresia di Ario e dei suoi seguaci erano ugualmente intollerabili. Rispetto, tolleranza, liberalità: questo era il loro ideale della religione. Perciò essi proposero, invece del troppo definitivo ed inestirpabile homooùsion – della stessa sostanza –, il vago termine homoioùsion, di una “sostanza simile”. Essi […] usavano un linguaggio apparentemente ortodosso, proclamando di credere nella divinità di Nostro Signore, attribuendogli ogni divina prerogativa, anatemizzando tutti coloro che dicevano che Egli era stato creato nel tempo (Ario sosteneva che Cristo era stato creato prima del tempo): in breve, dicendo quanto di più ortodosso possa immaginarsi, salvo la sostituzione del loro homoioùsioncon l’homooùsion di Nicea”[1].
Sia tra i vescovi che tra i fedeli si diffuse la convinzione che la distinzione tra i due termini (il cattolico homooùsion e l’ariano homoioùsion) stesse sollevando un conflitto inutile. Essi consideravano oltremodo dannoso dividere la Chiesa solo per un iota! Ma intanto i veri cattolici, tra i quali, in prima fila, sant’Atanasio, “con fermezza si rifiutarono di accettare qualunque dichiarazione che non contenesse l’homooùsion o di comunicare con coloro che lo negavano”[2].
Sant’Atanasio aveva ragione. Quella sola lettera, quell’iota, rappresentava la differenza tra la Cristianità fondata su Gesù Cristo, Verbo di Dio fatto carne, e una religione fondata su un’altra creatura, perché negare la divinità di Cristo significa negare tutto il cristianesimo.
Atanasio fu per tutta la vita testimone e strenuo difensore dei principi stabiliti dal Concilio niceno, e per questa sua fermezza dovette subire diverse condanne all’esilio negli anni che vanno dalla sua nomina a vescovo e patriarca di Alessandria d’Egitto, nel 328, fino alla sua morte.
Dopo papa Giulio I (337-352), che sostenne coraggiosamente la fede di Nicea e la causa di Atanasio, l’ascesa al pontificato di papa Liberio (352) e quella quasi contemporanea (350) all’impero di Costanzo II, imperatore filo-ariano, ne segnarono la sorte.
Inizialmente Liberio appoggiò la causa di Atanasio e, a tal fine, chiese all’imperatore la convocazione di un primo Concilio ad Arles (353-354) ed un secondo – a più vasto raggio – a Milano (355). In entrambi, a causa delle pressioni dell’imperatore ariano, Atanasio fu condannato. Quando si impose per riabilitarlo, il Papa fu esiliato in Tracia (355) dove rimase due anni. E qui avvenne ciò che è passato alla storia come la “caduta di un Papa”.
Lo storico Filostorgio, nella sua Storia ecclesiastica, attesta che Liberio poté reinsediarsi a Roma solo dopo aver sottoscritto una formula di compromesso che rifiutava il termine homooùsion. San Girolamo, nella sua Cronaca, afferma che Liberio, “vinto dalla noia dell’esilio, dopo aver sottoscritto l’eresia rientrò a Roma in trionfo”. Atanasio, verso la fine del 357, scrisse: “Liberio, dopo essere stato esiliato, tornò dopo due anni e, per paura della morte con la quale fu minacciato, firmò” (la condanna dello stesso Atanasio) (Hist. Ar., XLI). Sant’Ilario di Poitiers nel 360 scriveva a Costanzo: “Io non so quale sia stata l’empietà più grande, se il suo esilio o la sua restaurazione” (Contra Const., II).
Come osserva il Duchesne, quella di Liberio fu non solo “una debolezza”, ma piuttosto “una caduta”. Ecco la descrizione che ne dà il Butler: “[…] Liberio iniziò ad affondare sotto le sofferenze dell’esilio e la sua risoluzione (contro gli ariani e a favore di Atanasio, ndr) fu provata dalle continue sollecitazioni di Demofilo, vescovo ariano di Beroea, e di Fortunato, vescovo temporeggiatore di Aquileia. Ascoltando suggestioni e lusinghe a cui doveva con orrore rifiutare di porger l’orecchio, egli si indebolì al punto di cedere alla tentazione con grave scandalo della Chiesa intera. Egli sottoscrisse la condanna di Atanasio e una confessione o un credo redatto dagli ariani a Sirmio, benché l’eresia non fosse espressa in esso. E scrisse ai vescovi ariani orientali di aver ricevuto la vera fede cattolica che molti vescovi avevano approvato a Sirmio. La caduta di un tale prelato e un tale confessore è un terrificante esempio dell’umana debolezza, che nessuno può richiamare alla mente senza tremare. San Pietro cadde per una presuntuosa confidenza nella propria forza e nelle proprie risoluzioni, affinché noi imparassimo che si può stare in piedi solo con l’umiltà”[3].
Benché diversi storici abbiano tentato di scagionare e assolvere Liberio, un’autorità come il cardinal John Henry Newman non dubita di affermare che “la caduta di Liberio è un fatto storico”[4]. “Tutto fa pensare che Liberio abbia accettato la prima formula di Smirne del 351 (ossia un credo ariano, ndr). Egli peccò gravemente evitando deliberatamente l’uso del più caratteristico termine della fede di Nicea e in particolare dell’homooùsion. Pertanto, benché non si possa dire che Liberio insegnasse una falsa dottrina, è necessario ammettere che, per timore e debolezza, non rese giustizia alla verità tutta intera”[5].
Ma la caduta di Liberio va considerata nel quadro della defezione generale della maggioranza dell’episcopato del tempo, cosa che fa risaltare ancora una volta l’eroismo di Atanasio. Nella V Appendice del suo Ariani del IV secolo, così riporta il cardinal Newman: “A.D. 360: san Gregorio Nazianzeno afferma, più o meno in questo periodo: ‘I pastori hanno certamente fatto cose folli; poiché, a parte pochi, i quali o per la loro insignificanza furono ignorati o per la loro virtù resistettero e furono lasciati come un seme e una radice per la rifioritura e rinascita di Israele sotto l’influenza dello Spirito Santo, tutti cedettero al compromesso, con la sola differenza che alcuni cedettero subito e altri dopo; alcuni furono campioni e guide nell’empietà e altri si aggregarono a battaglia già iniziata, succubi della paura, dell’interesse, delle lusinghe o – ciò che è più scusabile – dell’ignoranza’ “ (Orat. XXI.24).
Cappadocia. San Basilio afferma circa nell’anno 372: “I fedeli stanno in silenzio, ma ogni lingua blasfema è libera di parlare. Le cose sacre sono profanate. I laici davvero cattolici evitano i luoghi di preghiera come scuole di empietà e sollevano le braccia in preghiera a Dio nella solitudine, gemendo e piangendo” (Ep. 92). Quattro anni dopo aggiunge: “Le cose sono giunte a questo punto: la gente ha abbandonato i luoghi di preghiera e si è radunata nel deserto. È uno spettacolo triste. Donne e bambini, vecchi ed infermi, soffrono all’aria aperta, in inverno sotto la pioggia, la neve, il vento e le intemperie e, in estate, sotto un sole cocente: essi sopportano tutto ciò perché non vogliono aver parte al cattivo fermento ariano” (Ep. 242). E ancora: “Solo un peccato è ora gravemente punito: l’attenta osservanza delle tradizioni dei nostri Padri. Per tale ragione i buoni sono allontanati dai loro paesi e portati nel deserto” (Ep. 243).
Nella medesima Appendice, il cardinal Newman non dubita di sottolineare come, durante la crisi ariana, la sacra tradizione fu mantenuta dai fedeli più che dall’episcopato, ossia – contrariamente alla norma – dalla Chiesa docta più che dalla Chiesa docens. Scrive: “Non è di poco rilievo il fatto che, benché dal punto di vista storico il IV secolo sia stato illuminato da santi e dottori quali Atanasio, Ilario, i due Gregori, Basilio, Crisostomo, Ambrogio, Girolamo e Agostino (tutti vescovi eccetto uno), tuttavia proprio in questo periodo la divina Tradizione affidata alla Chiesa infallibile fu proclamata e mantenuta molto più dai fedeli che dall’episcopato. Intendo dire che […] in quel tempo di immensa confusione il dogma divino della divinità di Nostro Signore Gesù Cristo fu proclamato, imposto, mantenuto e (umanamente parlando) preservato molto più dalla Ecclesia docta che dalla Ecclesia docens; che gran parte dell’episcopato fu infedele al suo mandato, mentre il popolo rimase fedele al suo battesimo; che a volte il Papa, a volte i patriarchi, metropoliti o vescovi, a volte gli stessi Concili [6] dichiararono ciò che non avrebbero dovuto o fecero cose che oscuravano o compromettevano la verità rivelata. Mentre, al contrario, il popolo cristiano, guidato dalla Provvidenza, fu la forza ecclesiale che sorresse Atanasio, Eusebio di Vercelli e altri grandi solitari che non avrebbero resistito senza il loro sostegno. In un certo senso si può dire che vi fu una ‘sospensione temporanea’ [7] delle funzioni della Ecclesia docens. La maggior parte dell’episcopato aveva mancato nel confessare la vera fede”.
La caduta di Liberio, la resistenza di Atanasio, la fortezza del popolo fedele al tempo dell’arianesimo costituiscono una lezione per ogni tempo. Ancora Newman, nel luglio del 1859, scriveva sul Rambler: “Nel tempo dell’eresia ariana vedo un palmare esempio di uno stato della Chiesa nel quale, per conoscere la tradizione degli apostoli, bisognava ricorrere al popolo fedele […]. La sua voce perciò è la voce della tradizione”.
Questa voce ebbe in Atanasio una guida possente che non tollerava compromessi. Ai cristiani tiepidi non esitava a dire: “Volete essere figli della luce, ma non rinunciate ad essere figli del mondo. Dovreste credere alla penitenza, ma voi credete alla felicità dei tempi nuovi. Dovreste parlare della grazia, ma voi preferite parlare del progresso umano. Dovreste annunciare Dio, ma preferite predicare l’uomo e l’umanità. Portare il nome di Cristo, ma sarebbe più giusto se portaste il nome di Pilato. Siete la grande corruzione, perché state nel mezzo. Volete stare nel mezzo tra la luce e il mondo. Siete maestri del compromesso e marciate col mondo. Io vi dico: fareste meglio ad andarvene col mondo ed abbandonare il Maestro, il cui regno non è di questo mondo” [8].
La storia della crisi ariana è di sorprendente attualità. “Ciò che avvenne allora, più di 1600 anni or sono, si ripete oggi, però con due o tre differenze. Alessandria rappresenta, oggi, l’intera Chiesa, scossa nelle sue fondamenta; e i fatti di violenza fisica e di crudeltà interessano un’altra sfera. L’esilio si cambia in un silenzio mortale e l’assassinio è sostituito dalla calunnia, pure mortale” [9]. Con queste parole monsignor Rudolf Graber, vescovo di Regensburg, già negli anni Settanta paragonava la complessa e devastante crisi del IV secolo con la silenziosa apostasia del nostro tempo.
Scrivendo ai tempi di Atanasio, san Girolamo stigmatizzò la crisi ariana con queste celebri memorande parole: “Ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est”, il mondo intero gemette e si meravigliò di trovarsi ariano. Il fatto più stupefacente del nostro tempo, in cui assistiamo a un’autentica disgregazione del cristianesimo, assai peggiore dell’arianesimo, è che – salvo poche eccezioni – nessuno geme e nessuno sembra meravigliarsi. Al contrario, davanti al generale disfacimento, che nessun fedele dotato di senso comune può negare, si continuano a intonare vecchi e nuovi peana in onore di una Chiesa finalmente uscita dalle catacombe, immemori che la crisi ariana iniziò proprio quando terminarono le persecuzioni.
La storia ariana si ripresenta ai nostri giorni in toni molto più drammatici. Nel IV secolo, “la Provvidenza mandò al mondo un siffatto uomo (Atanasio), mentre la bufera urlava sempre più forte e le colonne della Chiesa erano scosse e s’inclinavano, ed i muri santi minacciavano di crollare e sembrava che le potenze dell’abisso e le forze dell’alto facessero sparire la Chiesa dalla faccia della terra. Ma un uomo resistette come un macigno in mezzo ai marosi che s’infrangevano; un uomo fu sempre sulla breccia: Atanasio! Egli, Atanasio, brandì la spada di Dio sull’Oriente e sull’Occidente” [10]. Forse la vera tragedia del nostro tempo è quella di non avere un altro Atanasio.
Fonte: conciliovaticanosecondo.it