La lezione (attualissima) del compagno don Camillo
di Rita Bettaglio
Forse ricorderete Camillo Tarocci e il suo taccuino su cui annotava diligentemente i progressi nell’opera di disintossicazione dei suoi compagni di viaggio nella spedizione in Unione Sovietica organizzata da Peppone. Nel libro di Giovannino Guareschi intitolato appunto Il compagno don Camillo (uscito a puntate sul Candido nel 1959 e poi pubblicato da Rizzoli), in un modo o nell’altro, facendo emergere la coscienza (di cui il Partito non era riuscito a prendere del tutto il comando), don Camillo – che si finge Camillo Tarocci – riesce a riportare l’ordine e la verità nelle zucche un po’ confuse dei compagni selezionati per la visita al paradiso terrestre del socialismo reale.
Perché ne parlo? Perché ci vorrebbe anche adesso un Camillo Tarocci con il crocifisso allogato nella penna stilografica. Mi spiego meglio.
Nella nostra ormai sfigurata Italia, l’hanno fatta da padroni negli ultimi anni provvedimenti governativi liberticidi e insensati sotto ogni profilo, che ci hanno ridotti a sudditi trinariciuti e obbedienti a comandi ogni giorno nuovi e contraddittori. Così la gente è stata chiusa in casa, privata della libertà, del lavoro, dei rapporti sociali, dei sacramenti e via sragionando.
Ora la pressione parrebbe essersi allentata o, almeno, aver cambiato veste, ma tutti noi incontriamo ancora gente prigioniera della paura, che non osa togliersi la mascherina, per chissà quale gabola mentale da cui non riesce a uscire.
Giorni fa ho sentito un sanitario dire sconsolato ad un paziente: “Il Covid avrebbe dovuto renderci migliori e invece ci ha peggiorato!”. Assai triste ma vero.
Molti sanitari, pur lavorando in luoghi e realtà differenti, ma soprattutto pubbliche, riferiscono le stesse identiche cose: il clima lavorativo è peggiorato, il personale è demotivato, sfiduciato, immerso in un’aria pesante. I casi di aggressione del personale da parte dell’utenza esasperata sono in aumento.
Non c’è più fiducia tra le persone, il patto sociale sembra essersi dissolto, evaporato, non ne resta traccia. È scomparso dal sentire della gente che ne avverte, talora in maniera cocente, la mancanza.
Un medico mi ha detto che ormai si vive in un’atmosfera da fine dell’impero: “Senza esserci stato l’impero, però!”, ha aggiunto.
Eh già… abbiamo vissuto di rendita della civiltà cristiana per decenni, ma ora la riserva energetica pare terminata, le sorgenti sono state prosciugate, avvelenati i pochi pozzi ancora attivi.
Chi ci salverà, allora? Verrà un don Camillo che stuzzicherà la nostra coscienza, solleticherà la nostra anima razionale e ci farà reagire? Perché, se è vero che siamo stati nutriti di polpette avvelenate, è pur vero che siamo ancora vivi e possiamo sempre dire: “Adesso basta!”, cominciando dal poco che dipende da noi.
Invece molti sono convinti che nulla sia possibile fare e che non resti che arrendersi alla dolce (?) morte per il corpo e per l’anima.
Scrisse il Sommo Poeta:
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Scrisse con ragione e chissà cosa scriverebbe oggi.
Tuttavia la speranza è virtù teologale, insieme alla fede e alla carità, e non ci viene lesinata da Dio, se la chiediamo. Anzi, ci verrà chiesto conto anche delle grazie che, facendo spallucce, non abbiamo avuto perché non abbiamo chiesto. Sono questi i raggi non luminosi che escono dalle mani della Madonna della Medaglia Miracolosa: le grazie che la SS. Vergine vorrebbe ottenerci ma che nessuno domanda.
Tanto male è stato instillato nelle persone in questi ultimi anni, e ha portato frutti di malattia e disperazione. Le persone sono state isolate tra loro e indotte a vedere l’altro come un potenziale pericolo, perché poteva essere veicolo di contagio. La gente c’è cascata ed è arrivata a odiare anche i propri familiari.
Ora nei corpi e nelle anime restano macerie e desolazione. Ma non è l’ultima parola perché Nostro Signore ci ha ripetuto ancora pochi giorni fa, e lo ripete ogni giorno: io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo.
Allora don Camillo tolse il cappuccio della grossa penna, svitò il coperchietto e tirò fuori dal grosso tubo qualcosa di lungo e stretto che in un istante si trasformò in un piccolo Crocifisso.
“Signore”, disse don Camillo levando gli occhi al cielo, “perdonate se Vi ho fatto le braccia snodabili assieme a quelle della croce. Ma voi siete la mia bandiera e non avevo altro modo per portarVi sempre con me, sul mio cuore”.
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Nella foto, Peppone (Gino Cervi) e don Camillo (Fernandel) in una scena del film tratto da Il compagno don Camillo