Francesco e Pascal. Sulla lettera apostolica “Sublimitas et miseria hominis”
di Vincenzo Rizza
Caro Aldo Maria,
ho letto la lettera apostolica Sublimitas et miseria hominis di papa Francesco [qui] nel quarto centenario della nascita di Blaise Pascal.
Non entro nel merito degli elogi al filosofo profusi dal pontefice, che peraltro accenna anche alle polemiche scaturite dal suo avvicinamento alle teorie gianseniste, oggetto anche di condanne papali, concludendo che “questa lettera non è certo il luogo per riaprire la questione”.
Ho trovato, tuttavia, quanto meno singolare il fatto che nella lettera non ci sia neppure un riferimento ad uno degli argomenti più conosciuti di Pascal: quello per cui conviene credere in Dio quanto meno per scommessa. Il ragionamento è certamente arguto e proposto, nei suoi Pensier”, con innegabile e suadente logicità:
- l’uomo, quale essere vivente e pensante, non può sottrarsi alla scelta tra il vivere come se Dio esista e il vivere come se Dio non esista;
- “Dio esiste o non esiste. Ma verso quale parte propenderemo? La ragione non può stabilire nulla”;
- poiché la ragione non può decidere nulla, occorre scommettere: “si gioca un gioco, all’estremità di questa distanza infinita, nel quale uscirà testa o croce”;
- su cosa conviene puntare? Basta soppesare il guadagno e la perdita, scegliendo croce che Dio esiste: “Se guadagnate, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete dunque che esiste, senza esitare”! Se la posta in gioco è Dio contro il finito, la scelta è necessariamente per Dio.
Confesso di essere rimasto affascinato per anni da tale pensiero, spesso proposto perfino in alcune omelie di sacerdoti che ho apprezzato. Negli anni tuttavia, ho imparato a diffidare del consiglio.
Innanzitutto trovo nella logica consequenzialità dell’argomentazione un’incongruenza: da un lato si afferma che la ragione nulla può decidere sul punto ma dall’altro si cerca di giustificare, con la medesima ragione, la convenienza nel credere in Dio.
Ciò che, tuttavia, davvero non mi convince nel ragionamento è che ritengo non abbia senso credere per mera convenienza, al pari di chi crede per mera paura (dell’ignoto o del castigo). Il cristianesimo ci insegna che Dio è amore: il Padre ha tanto amato l’uomo da aver mandato il Figlio perché il mondo sia salvato per mezzo di Lui.
A fronte di tanto amore, quanto meno inappropriato che l’uomo si limiti a credere per mera scommessa. Va bene la misericordia di Dio, ma cerchiamo almeno di non approfittarne!
Condivido, sul punto, quanto scriveva mio padre: “La scommessa di Pascal viene, in genere, presentata come un edificante esempio di professione di fede. In realtà non ho mai visto niente di più cinico. Forse neanche un ateo riuscirebbe a concepire qualcosa di più miscredente della scommessa sul ‘meglio’, del furbo ripiego sul ‘più conveniente’”.
Melius re perpensa, forse c’è una possibile spiegazione al mancato riferimento nella lettera apostolica alla scommessa di Pascal. Il ragionamento pascaliano, infatti, mal si concilia con certe tesi moderniste per cui la misericordia del Padre renderebbe già salvi tutti gli uomini, perfino a prescindere dalla loro volontà di essere salvati.
Applicando con rigore il richiamato metodo, la scommessa sarebbe scontata: converrebbe senz’altro puntare tutto su un Dio che perdona a certe condizioni piuttosto che a un Dio che perdona senza riserve e a prescindere da qualsiasi nostra inclinazione. In effetti, anche qualora la scommessa fosse persa, saremmo comunque salvi (a meno che Dio sia disposto a perdonare tutti, tranne i seguaci della tradizione, brutti sporchi e cattivi; ma questo sarebbe in contraddizione con l’assunto iniziale)!
Viceversa, puntando su un Dio che perdona senza riserve, avallando comportamenti anche riprovevoli nell’aldiquà senza richiedere alcuna volontà di pentimento, ove la scommessa fosse persa Qualcuno nell’aldilà potrebbe non prenderla troppo bene.