Storia del beato Martín Martínez Pascual. E di una foto che ci parla

di Alessandro Staderini Busà

“Ad uno specchio assomiglia davvero l’essere umano, il quale si trasforma a immagine di ciò che guarda” scriveva Gregorio di Nissa, secoli prima che entrassero in scena le macchine fotografiche, le telecamere, la rete globale. Lo compresero bene le agenzie stampa e le testate che dispiegarono i loro corrispondenti in Spagna nel 1936, allo scoppio della Guerra Civile. Fu infatti su questo fronte che si presentò, per la prima volta, il genere del reportage fotografico come oggi lo conosciamo. Gli schieramenti iniziali vedevano da una parte l’Esercito Repubblicano del neogoverno liberal-marxista, dall’altra le milizie conservatrici monarchiche, cattoliche e fasciste del Generale Franco. Da resa dei conti locale fra iberici, si era presto arrivati a vero confronto internazionale, antipasto del secondo conflitto mondiale. Se Stalin per vie traverse si occupava di prestar validi soccorsi economici e militari ai repubblicani, Mussolini e Hitler spedivano direttamente ciascuno un proprio contingente in sostegno a Franco. Al resto ci pensò una campagna i sensibilizzazione orchestrata da Gran Bretagna, Francia, Usa, per chiamare le masse occidentali in difesa della libertà. Concetto arbitrario di “libertà”, in nome della quale furono presi e passati per le armi qualcosa come 10.000 cittadini innocenti – poiché queste sono ad oggi le stime. Nonostante le incongruenze fra ideali e metodo, parecchi furono i cosiddetti spiriti liberi che, chiamati a senso unico da radio e quotidiani, riviste e rotocalchi, lasciarono le loro mansarde parigine, i loro sottoscala londinesi, le loro sale da tè viennesi, le loro caffetterie berlinesi e via dicendo, per arruolarsi nelle fila di quel contingente di volontari detto Brigate Internazionali. Nemmeno pochi furono poi gli artisti che, equivalenti ai radical-chic del nostro tempo, scelsero di far sentire il grido ¡Libertad!, pur senza arrischiare le loro carriere col metter i nasi fuori dai rispettivi studi. Berthold Brecht, Pablo Picasso, Virginia Woolf, Samuel Beckett, Pablo Neruda, per citarni alcuni. Li animava l’imperativo di difendere i risultati delle elezioni del febbraio 1936 e, più intimamente, l’obbligo di veder portato a termine ciò per cui i rivoluzionari di Robespierre si erano impegnati in Vandea, i seguaci di Lenin in Russia, gli aficionados di Plutarco Calles in Messico. Giudicavano passata l’era dei confini nazionali e dei credo religiosi, delle classi sociali e della proprietà privata, reputando pronti i tempi per veder realizzata quell’utopia che, più tardi John Lennon avrebbe cantato col relativismo di Imagine.

Un fotografo era operativo in quei giorni sul fronte spagnolo. Aveva venticinque anni, passaporto tedesco e si chiamava Hans Gutmann, ma per solidarietà marxista con gli spagnoli aveva cambiato il nome in un più poetico Juan Guzmán. Amico intimo di Frida Khalo e Diego Rivera, il nome di Hans Gutmann/Juan Guzmán resta ancor più legato – vuoi per contrappasso dantesco vuoi per scherzo del destino – a una delle vittime degli eccidi repubblicani, Martín Martínez Pascual. Beatificato da Raztinger nel 2007, di lui oggi, 18 agosto, la Chiesa celebra la memoria. Martín di anni ne aveva ventisei, apparteneva alla Fraternità Operaia del Sacro Cuore, e lo avevano fatto sacerdote l’anno precedente. Insegnava al Collegio San José de Murcia e, terminato l’anno scolastico 1935/36, era tornato per le vacanze estive a Valdealgorfa, regione dell’Aragona. Lì dov’era nato e cresciuto. Sul finire di luglio, nel paese inizia a comparire il bando governativo che chiede ai cittadini di buona volontà di consegnare alle autorità il nome di qualsiasi membro del clero locale si conosca. In ciò che sarebbe poi stato fiore del male all’occhiello del regime hitleriano, dai rastrellamenti casa per casa, passando per i metodi di tortura, fino ai campi di concentramento, pionieri e maestri furono i comunisti: anticiparono sul tempo e si dimostrarono persino più efficienti. Martín cerca allora rifugio presso una parente, poi, per non metterne a repentaglio la vita, se ne va. Un amico gli indica una grotta dove può nascondersi, in un podere di campagna abbandonato. A seguito dell’affissione di un nuovo bando che non chiede più, bensì obbliga i civili a prender parte attivamente alla persecuzione in atto per fedeltà alla patria, i miliziani mettono le mani su sei preti del territorio di Valdealgorfa. Soltanto un nome manca all’appello. Per stanarlo, il padre del fuggitivo è preso e messo in gattabuia. L’uomo però, tramite l’amico che aveva suggerito di riparare nella grotta, riesce ad avvertire il figlio intimandogli di darsela a gambe dalla regione. Martìn lascia sì il suo rifugio, ma non per darsela a gambe. Si consegna ai miliziani, chiedendo in cambio la liberazione del vecchio. Amor vincit omnia, e i malvagi di questo mondo un tale principio lo conoscono bene e all’occorrenza se ne servono per prevalere sui buoni. Quando don Martín si presenta alla sede del Comitato cittadino, inaspettatamente, un soldato meno irregimentato degli altri cerca di rimandarlo indietro, fingendo coi commilitoni che non si tratti di un cucaracha (bacarozzo, spregiativo mai uscito di moda per riferirsi universalmente ai tonacati in nero) bensì di uno studente con manie di protagonismo. Allora Martín getta la carta d’identità sul tavolo, perché la questione sia chiusa. La sera di quello stesso giorno i sette prigionieri sono caricati su un camion e i miliziani li scortano fuori città. È fuor di dubbio che la popolazione non sappia dove e come finiranno. “Per i preti non c’è alcuna possibilità di salvezza”, riporta lo storico Vicente Cárcel Orti, menzionando un preciso ordine dei vertici del governo: “Tutti debbono essere uccisi”.

A differenza dei nazisti, che ai loro rastrellati facevano scavare una fossa comune e poi li giustiziavano senza curarsi di nascondere la località della strage, anzi annotandola nei loro tristi libri contabili; a differenza dei sovietici che pure facevano scavare una fossa ai prigionieri da giustiziare, ma erano ben cauti a lasciar trapelare dove fossero le sepolture di massa, i miliziani spagnoli ti venivano incontro risparmiadoti almeno la fatica dello scavo. Fecero fermare il camion direttamente nel camposanto sulla via per Alcañiz, e lì predisposero il plotone d’esecuzione: in un cimitero qualche buca già pronta la trovi sempre. È qui che con la sua macchina fotografica giunge Hans Gutmann alias Juan Guzmán. La scena che foto di questo genere ritraggono può restituire senza bisogno di aggiunger nulla il senso di una fede che – tutt’altro che oppio dei popoli – invece di intorpidirti, ti risveglia al momento del martirio. Il condannato ritto in piedi, le mani sui fianchi, la camicia bianca sguacilta, i capelli arruffati dal vento dell’Aragona, gli occhi che brillano. Di fianco un miliziano col fucile in spalla, torvo e rigido come un ciocco di legno. Invece, l’uomo che di lì a poco farà da cibo ai vermi, ha il viso in piena luce, e guarda in macchina, direbbero in gergo. Niente tristezze né rancori, sorride, come trasfigurato. Ed è reale, in quanto tutto questo è successo nella realtà e non in una storia inventata. A don Martín, e non solo. Possibile immaginare un Maximilian Kolbe o una Edith Stein esalare l’ultimo respiro col broncio sul viso? Da duemila anni, chi ha compreso cosa sia l’Eternità a fronte della terra, muore col sorriso. Eppure è così arduo, approcciandosi con spirito mondano, che a cercare in rete, troverete chi, da qualche cattedra, confuterà che nella foto davanti a voi sia davvero Martín Martínez Pascual. Credere o non credere… non è sempre stata qui la matrice di ogni dilemma?

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