di Marco Radaelli
Caro Valli,
mi inserisco nell’argomento “murgiano” proponendo alcune considerazioni.
Mi sembra chiaro che la morte della scrittrice\attivista sarda abbia provocato, ancora una volta, la formazione di due schieramenti facilmente distinti e riconoscibili: da una parte i “beatificanti” (media, anche cattolici, in primis), dall’altra coloro che, pur nel rispetto nei confronti del dolore e della morte di una persona, hanno cercato, nei loro giudizi, di rimanere consequenziali alla vita e al pensiero di questa persona.
I primi hanno “arato” il terreno della Murgia oratoriana di Azione Cattolica, della Murgia insegnante di religione (e qui, da insegnante, stendo un velo pietoso su come avvenga la selezione dei docenti da parte degli uffici ecclesiastici), addirittura della Murgia “teologa”, per arrivare a delineare a tutti gli effetti un modello di fede. Una donna alla ricerca, anelante, libera, che mai ha rinnegato il proprio credo. Questi però hanno completamente omesso dalle loro “agiografie” i risultati di questa “ricerca”, e gli approdi cui ha condotto questo “anelito”. Ne ricordo solo alcuni, già ampiamente richiamati sul suo blog: posizioni a favore dell’aborto, dell’eutanasia, dell’indifferentismo nei confronti della sacralità matrimoniale uomo-donna, della fluidità nei confronti della naturalità dei generi, ecc… Per non dimenticare, poi, la critica serrata verso la presunta misoginia della Chiesa patriarcale.
I secondi, invece, richiamando proprio queste prese di posizione pubbliche della scrittrice, hanno provato a dire che forse, di cattolico, nella Murgia, non c’era nulla, e dunque che questa pubblica beatificazione fosse quantomeno azzardata. Perché sarà anche forse vero che la Murgia non ha mai rinnegato la propria fede a parole, ma la sua vita, le sue azioni, le battaglie a cui ha partecipato… insomma, tutto ciò che ha fatto e che noi conosciamo, non dicono davvero niente sulle sue convinzioni?
È vero che solo Dio può conoscere completamente il cuore di una persona, ma quello che vediamodall’esterno non ci rivela davvero nulla di nulla sul suo interno? Apriti cielo: avanti con le solite accuse di integralismo, di dottrinalismo, di attaccamento al catechismo (ma poi, che accusa è questa?), per finire all’immancabile “chi siete voi per distribuire patenti di cattolicità alla gente?”. E via con la solita tiri-tera dell’accoglienza, dell’amore che non giudica, della mancanza di pietà che non ha nulla di cristiano.
Io rimango sempre esterrefatto di fronte a questo tipo di reazione, perché mi sembra che alla fine, dal punto di vista educativo, si dica alla gente che, in fondo, tutto va bene e tutto è uguale. Che non ci sono un bianco e un nero, un meglio e un peggio, un bene e un male. E anche se ci fossero, che noi non possiamo sapere quali siano, e dunque non possiamo emettere sentenze e giudizi altrimenti non siamo né caritatevoli né buoni cattolici. Insomma, alla fine, sotto questa posizione ammantata di buonismo si nasconde la convinzione che, ai fini della Salvezza, non ci sia una Verità più veradelle altre, e che tutte le convinzioni e i modi di intendere la vita siano sullo stesso livello.
Io però non ci sto. Trovo che non ci sia nulla di più dis-educativo e di dannoso di questo: vedere uno andare fuori strada e lasciarcelo andare per il timore di ferirlo, quando invece è esattamente così che lo si ferisce! Non c’è carità senza verità. Quante volte Benedetto XVI ce lo ha insegnato? E invece, oggi, chi osa dire la Verità, quella che la Chiesa professa da secoli, viene messo sulla graticola e accusato di superbia. Ma quale superbia! Abbiamo la fortuna di avere un Dio che la Verità ce l’ha rivelata e continua a farlo, e invece di professarla e di seguirla ci giriamo dall’altra parte pensando di averne una migliore e più “caritatevole”.
La grande Hannah Arendt, più di sessant’anni fa, già avvertiva i pericoli di questo modo di intendere la vita, le cose e le persone:
«Chi sono io per giudicare?». Esiste, nella nostra società, una diffusa paura di giudicare, una paura che non ha nulla a che fare con il detto biblico «Non giudicare se non vuoi essere giudicato» né con il problema di «lanciare la prima pietra». In realtà, dietro il non volere giudicare si cela il dubbio che nessuno sia responsabile o possa rispondere degli atti che ha commesso. Ed ecco allora che non appena qualcuno solleva il problema, ricevendo spesso l’accusa di arroganza, si trova subito posto a confronto con questa tremenda mancanza di fiducia in se stessi, con questa mancanza di orgoglio e con questa falsa modestia che ci fa dire «Chi sono io per giudicare?», e con questo giustificare ogni azione, ogni persona (H. Arendt, Responsabilità e giudizio)
Io credo dunque che bisogna giudicare, eccome! Perché «non può esserci felicità se non si desiderano le cose giuste. Questo è prerequisito della felicità», ci insegna San Tommaso. Tutti desiderano la felicità, ci mancherebbe. Murgia compresa. Ma bisogna desiderare le cose giuste se vogliamo sperare di centrare l’obiettivo. Non è tutto uguale, e non tutto va bene! Ci sono strade che ci portano lontani dall’obiettivo, e altre che invece ci avvicinano ad esso. Se cerchiamo la felicità là dove non possiamo trovarla, falliremo inevitabilmente il bersaglio (da questo si capisce bene che il peccato, che vuole letteralmente dire fallire il bersaglio, è innanzitutto un atto contro noi stessi, cioè contro la nostra possibilità di essere felici. Il peccato non è un atto contro Dio, ma un atto contro noi stessi).
Mi chiedo: ma quando usciamo di casa per andare da qualche parte, iniziamo a camminare a caso, perché tanto “tutto è uguale e tutto va bene”, oppure scegliamo con cura la strada che ci conduce più in fretta all’obiettivo? E perché allora, quando si tratta di raggiungere l’obiettivo più importante di tutti, cioè la felicità, dovremmo cambiare il metodo e arrovellarci su discorsi senza senso sul “ma”, “però”, “eh ma non si può dire”, “eh no, non si può sapere”, e cose di questo genere. Ma come “non si può dire e non si può sapere”? Certo che si può. Anzi, io penso che si debba! E proprio per amore degli uomini. Non è questione di essere superbi o di distribuire patenti di cattolicità, è questione che abbiamo la fortuna di avere una Chiesa Madre e Maestra che non dadue giorni, ma da due millenni ci indica la strada dicendoci la verità sull’uomo, sulla vita, sulla felicità. In che senso, allora, “non si può dire e non si può sapere” la verità? Non ci è stata rivelata? Non è lì apposta perché possiamo seguirla e camminare sulla strada giusta? E invece chi dice questo viene accusato di escludere, e addirittura di non essere lui un vero cattolico (perché tu non puoi distribuire patenti di cattolicità, ma quando lo fanno loro si può eccome). Siamo dunque arrivati al paradosso per cui se una persona esprime con fermezza e con chiarezza le verità del cattolicesimo, chiare come il sole da secoli e secoli, ecco che viene accusato di non essere veramente cattolico: se dici cose cattoliche non sei cattolico. Ma perché se una persona dice e fa tutto il contrario di quello che la Chiesa ha mostrato, io non posso dire: questo non è cattolico? Per non ferirla? Io credo che la si ferisca esattamente non dicendoglielo.
Sant’Agostino ci insegna che «nessuno può essere veramente amico dell’uomo se non è innanzitutto amico della verità». Non c’è carità senza verità. Nemmeno per la Murgia.