Gli articoli della NBQ sulla FSSPX. Una risposta
Cari amici di Duc in altum, molti di voi in questi giorni mi stanno chiedendo lumi circa una serie di articoli che la Nuova Bussola Quotidiana sta dedicando alla Fraternità sacerdotale San Pio X. C’e stupore per quello che viene percepito come un attacco inaspettato e che aggiunge elementi di tensione in un quadro già molto teso e frammentato. Radio Spada, in risposta alle tesi della NBQ, ha pubblicato un testo che qui sottopongo alla vostra attenzione.
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di Radio Spada
Gli articoli in questione patiscono una profonda debolezza secondo due distinti ordini: il contesto e il merito.
Contesto generale. Affrontare il tema spinoso della crisi nella Chiesa quasi scansando ogni informazione sullo scenario risulta almeno fuorviante. La recente pubblicazione del volume “Parole chiare sulla Chiesa. Perché c’è una crisi, dove nasce e come uscirne” è volta a portare ordine anche in questo campo. Per farla semplice: se si vuole fare una riunione sullo stato di un ospedale e sulle sue prospettive future, decidere di ignorare che l’edificio si trovi nel mezzo di un’epidemia e in un Paese in stato di guerra, non pare la scelta più saggia.
Il contesto in cui agì Mons. Lefebvre era per certi aspetti peggiore di quello appena descritto e, a suo modo, unico. Basti ricordare che due anni prima, con l’incontro ecumenico di Assisi, Giovanni Paolo II, compì in un giorno – tra i plausi di conventicole e nemici della Chiesa – ciò che la Massoneria non era riuscita a fare in oltre due secoli. Si noti poi che, in una sorta di resipiscenza per intervalla insaniae, gli stessi vertici vaticani (Paolo VI e Giovanni Paolo II compresi) riconobbero in molteplici dichiarazioni la situazione pessima, di autodemolizione, in cui si trovava la Chiesa. Negare lo stato di grave necessità generale dunque significa negare un’evidenza (anche per questo punto rimandiamo a “Parole chiare”). È bene essere espliciti: ciò di cui parliamo non solo non è indifferente per la valutazione che stiamo facendo ma implica, per chi può soccorrere, precisi obblighi. Quindi è un argomento di contesto che sfocia ineludibilmente nel merito, con una prospettiva in parte distinta, ma certamente connessa.
Contesto specifico. Questi articoli de La Bussola non paiono solo affetti da una patologica decontestualizzazione rispetto alle dinamiche storico-ecclesiali degli anni ’80, ma da un ripetuto zigzagare tra i fatti, citare col metodo del cherry picking, patire improvvise amnesie e disordinati risvegli. Ad esempio, approfondiremo meglio dopo, non si vede come i due testi pontifici menzionati nel primo attacco, l’esortazione Ad Apostolorum principis e l’enciclica Quartus supra, riguardanti rispettivamente un regime comunista che voleva crearsi una chiesa nazionale, e i diritti romani rispetto ad un patriarca orientale, abbiano a che vedere col caso di Mons. Lefebvre. Proseguendo, vedremo che i casi di decontestualizzazione specifica sono numerosi e rilevanti.
Merito. Gli articoli sono fondati su una serie di argomentazioni la cui sostanza, come accennato, si individua già nelle polemiche immediatamente successive alle consacrazioni del 1988. Curiosamente, una parte degli argomenti utili per risolvere le obiezioni si trova in un libro, La Tradizione “scomunicata” (2007), edito tempo fa dalla casa editrice Ichthys (vicina alla Fraternità Sacerdotale San Pio X) e incasellato nella stessa collana per cui pubblicò un testo l’Autrice de La Bussola, ovviamente prima di riscoprirsi nemica dei “lefebvriani”. I passi falsistanno in una serie di equivoci che ora vedremo nel dettaglio.
Il “diritto divino”, il diritto canonico e le consacrazioni del 1988
Nel primo articolo viene di fatto sostenuto che nell’esortazione Ad Apostolorum principis di Pio XII si insegna che la Santa Sede per diritto divino determina chi deve ricevere l’episcopato, anche solo considerato sotto l’aspetto dell’ordine. Ma attenzione: il documento è riferito a candidati (in una situazione ordinaria) che con il sacramento dell’episcopato avranno pure la giurisdizione. Non si stabilisce che conferire l’episcopato (ripetiamo: in assenza di giurisdizione, come nel caso del 1988) sia impossibile per diritto divino senza una designazione della Sede Romana; il Sommo Pontefice invece può – qui sì per diritto divino – nominare chi ritiene opportuno alle sedi residenziali. Discorso simile per l’invocazione che si fa dell’enciclica Quartus supra di Pio IX.
I documenti papali citati da La Bussola non fanno distinzione tra questi ambiti per un motivo molto semplice: all’epoca non si dava certo il caso di un vescovo ordinato per stato di grave necessità generale, senza giurisdizione, ma si parlava di casi concreti (Cina e armeni) in cui era in questione la missione canonica. La riserva sulle ordinazioni è certamente istituita in virtù del primato del Papa, che ne è la base dogmatica, ma non si può confondere la norma canonica con il suo fondamento.
C’è un elemento ulteriore che rende la cosa più esplicita: fino a Pio XII si puniva chi consacrava senza mandato “semplicemente” con la sospensione a divinis (CJC, 2370), e pure nei tempi successivi, la scomunica per questo fatto è rimasta sempre una cosa diversa da quella per “scisma”. Perché le pene inflitte non erano identiche? Perché aspetti ben distinti, l’ordine e la giurisdizione, richiedevano un trattamento differenziato. Il che rende ancor più chiaro che è infondato parlare di diritto divino del Pontefice a indicare chi debba essere consacrato anche in situazioni eccezionali, senza (lo ripetiamo) l’attribuzione di alcuna giurisdizione. Lo scisma, dunque, non esiste per il caso in esame.
Per il diritto canonico, risulta poi scusato da colpa chi compie certe azioni non intrinsecamente cattive per grave necessità (CJC, 2205): e in questo novero può rientrare anche la consacrazione episcopale senza mandato. Mons. Lefebvre non aveva alternative per supplire alle esigenze sacramentali, in un contesto di apostasia generalizzata! Non era semplicemente un suo “diritto”, ma uno stretto dovere, provvedere alla prosecuzione del sacerdozio fedele alla dottrina cattolica.
Questi aspetti spiegano anche come non abbia senso invocare, come fa il terzo articolo de La Bussola, certi canoni di Trento (Denz. 1777). Il testo riportato, ancora una volta, è presentato in modo omissivo per quanto riguarda il contesto e fuorviante per quanto concerne il merito. Si taglia tutta la prima parte del testo, redatto in un’Europa invasa dai protestanti (che recita così: “Se qualcuno dice che i vescovi non sono superiori ai sacerdoti; o che non hanno il potere di confermare e di ordinare, o che il potere che hanno è comune a loro e ai sacerdoti; o che gli ordini da loro conferiti senza il consenso o la chiamata del popolo o del potere secolare sono invalidi […]”) e ci si concentra sulle successive parole, che parlano di ministri “regolarmente ordinati o inviati dall’autorità ecclesiastica e canonica”, dimenticando che, proprio in forza dell’oggettivo stato di necessità, i sacerdoti “lefebvriani” agiscono, “inviati” dalla Chiesa e per la Chiesa, in ordine alla salvezza delle anime: l’esatto opposto di ciò che si stigmatizzava a Trento.
Le norme che reggono lo stato straordinario in cui ci troviamo sono, qui sì, eminentemente di diritto divino e obbligano ad azioni precise. Per comprendere meglio questo aspetto, è bene focalizzarci più nel dettaglio sullo stato di necessità e sul suo funzionamento.
Lo stato di necessità e la crisi nella Chiesa
Essendo gli “argomenti” de La Bussola già confutati da tempo, per questa sezione ci baseremo su un articolo di qualche anno fa de La Tradizione Cattolica (don M. Tranquillo, TC, anno XXI, n° 3 (76), 2010, pag. 18-24) che riporteremo largamente, senza citare ad ogni passaggio la fonte qui menzionata.
Che cos’è questo stato di necessità, e quali facoltà giuridiche permette di esercitare? È forse una sorta di giungla, di regressione a uno stato pre-sociale, o è invece una situazione straordinaria in cui si applicano norme straordinarie, mentre sarebbe erroneo pretendere di applicare alla lettera quelle ordinarie? Esiste cioè, di diritto e di fatto, una situazione tale da rendere impossibile o inutile o addirittura dannosa l’applicazione delle leggi positive ordinarie, e da esigere invece il ricorso all’applicazione di norme più alte, non certo arbitrarie, ma previste dal legislatore e dal diritto divino?
La necessità, definizione e divisione. Parliamo qui dello stato di necessità spirituale, cioè della necessità di ricevere i sacramenti (e secondariamente gli altri aiuti che predispongono alla ricezione dei medesimi, dai sacramentali all’istruzione, alle varie opere di misericordia spirituale); non ci occupiamo dello stato di necessità corporale, che riguarda l’obbligo in carità di prestare soccorso secondo le opere di misericordia corporale.
Lo stato di necessità spirituale è di tre tipi, se lo dividiamo quanto alla sua gravità:
• necessità estrema: è quella di chi non può sottrarsi a un pericolo certo e prossimo di perdere la propria anima senza l’aiuto di un altro. Questo è il caso del bambino che rischia di morire senza battesimo o del peccatore in punto di morte che non sa o non può fare un atto di contrizione perfetta, che sia fedele o infedele.
• necessità grave: è quella che si supera solo con grave difficoltà, per esempio in caso di un pericolo prossimo di perdere la fede o la grazia. Questa necessità è tipica del peccatore in pericolo di morte (la differenza con la precedente sta nel fatto che qui si suppone che possa, al limite, salvarsi con un atto di contrizione perfetta), ma anche di chi corre un pericolo ravvicinato di perdersi senza aiuto.
• necessità comune: è quella di chi senza aiuto potrebbe cadere in peccato, anche se il pericolo potrebbe essere superato senza tale aiuto. Qui l’aggettivo comune indica il fatto che tale situazione è quella abituale alla maggior parte delle situazioni della vita degli uomini.
Chiaramente i pastori d’anime sono tenuti in giustizia a soccorrere i loro sudditi in tali necessità, e se non lo fanno peccano più o meno gravemente a seconda del tipo di necessità in cui quelli versano; gli altri sacerdoti (e anche i laici, al loro livello) possono essere tenuti in carità a prestare ausilio a coloro che sono nella necessità spirituale, ognuno secondo le proprie possibilità e con più o meno urgenza a seconda della gravità della necessità stessa.
La situazione attuale: necessità grave generale. Ora ci chiediamo quale sia la situazione attuale, quale stato di necessità sia quello in cui versano oggi i fedeli della Chiesa.
In tutta la Chiesa oggi esiste una crisi conclamata. Essa consiste essenzialmente nel fatto, ammesso fino a un certo punto anche pubblicamente dalla stessa suprema autorità della Chiesa, che è oggi quasi impossibile continuare a vivere da cattolici nelle strutture ordinarie della Chiesa (questo non inficia ovviamente l’indefettibilità della Chiesa, dato che entrano in gioco, come vediamo adesso, i mezzi straordinari dei quali la Chiesa è dotata). Tutti gli aspetti della vita cattolica sono diventati problematici: anzitutto la professione esterna e completa della fede senza ambiguità, ma anche la liturgia, la vita sacramentale, la vita di preghiera, l’insegnamento della fede tanto nel catechismo quanto nella formazione dei sacerdoti, l’insegnamento morale conforme alla dottrina in tutti i suoi aspetti, la frequentazione di un ambiente non pericoloso per la fede etc.
Cosa si possa o si debba fare nella necessità grave generale. Secondo il Dictionarium morale et canonicum del Card. Pietro Palazzini, specie di summa di tali scienze pubblicato alla vigilia del Concilio dai più grandi canonisti e moralisti romani, e che riprende quindi le dottrine più certe e le interpretazioni più ufficiali, la necessità grave comune corrisponde proprio (si vedano le categorie esposte sopra) alla necessità estrema del singolo, in ragione della preminenza del bene comune sul bene privato. Questo punto ha due conseguenze che scaturiscono l’una dall’altra, la prima a livello dei doveri e la seconda riguardo ai poteri concessi in questa situazione.
Secondo i precetti della carità, è un dovere grave soccorrere il prossimo nell’estrema necessità, quindi anche nella grave necessità comune. Palazzini dice esplicitamente che ogni sacerdote, anche senza cura d’anime, è tenuto ex caritate a soccorrere sub gravi il prossimo nell’estrema necessità spirituale dandogli i sacramenti, anche con pericolo di vita. E che lo stesso è tenuto a fare nella grave necessità generale. In poche parole, quando tutta una comunità è in difficoltà, chiunque sia in grado deve dare una mano secondo le sue possibilità.
Questo dovere di carità fonda anche le facoltà che la Chiesa dà ai sacerdoti in questi casi: in particolare tutti gli atti del potere d’ordine diventano leciti, e la giurisdizione per ascoltare le confessioni viene concessa a tutti i sacerdoti. Come è esplicitamente concesso dai canoni (CJC, 882; nc. 976), ogni sacerdote può lecitamente e validamente assolvere il fedele in punto di morte, cioè nell’estrema necessità; ma a quest’estrema necessità del singolo è appunto equiparata la grave necessità comune, quindi attualmente ogni sacerdote può venire in soccorso al fedele che gli chiede l’assoluzione, ricevendo in quel preciso momento la giurisdizione necessaria per farlo a norma del diritto. Si prendano come esempi analoghi le situazioni di alcuni paesi di persecuzione, dove ogni sacerdote che può all’occasione prestare soccorso a dei fedeli lo può fare anche se questi non sono in punto di morte e non sono suoi sudditi.
Un principio speculare. Al concetto della grave necessità corrisponde, specularmente, il problema del grave incomodo. In generale il grave incomodo (o grave impedimento) nell’ordine spirituale è qualsiasi pregiudizio notevole per l’anima della persona o di terzi. Ora vi è un fondamentale principio morale e giuridico, ammesso da tutti i canonisti e i moralisti (CJC, 20): Lex positiva non obligat cum gravi incommodo, ossia in presenza di un grave incomodo ogni legge puramente positiva (cioè umana, non la legge naturale o quella divina) cessa di obbligare. La grave necessità attuale poggia proprio sul fatto che ci sarebbe un grave incomodo per la fede, anzi spesso un vero e proprio ostacolo alla professione della medesima, nel rispettare numerose leggi positive anche ecclesiastiche. Per fare un esempio diverso, un sacerdote imprigionato dai persecutori può e deve celebrare la Messa e comunicare, specie se la morte è imminente per sé o per altri, purché osservi ciò che è diritto divino, cioè abbia pane di frumento e vino d’uva e dica le parole consacratorie; ma indubbiamente non è tenuto ad osservare le leggi liturgiche, né ad avere i paramenti etc., né a pronunciare tutte le preghiere del Messale: tutte prescrizioni gravi, ma di diritto puramente ecclesiastico, che in quel momento non lo obbligano, poiché urge il precetto divino di comunicare in punto di morte.
Chi porta avanti la buona battaglia, sarebbe completamente paralizzato nella sua opera se, ad esempio, fosse costretto ad osservare le leggi puramente ecclesiastiche circa l’apertura di nuove case o luoghi di culto, circa le ordinazioni con il consenso degli Ordinari dei luoghi, circa le limitazioni poste dal diritto al lecito esercizio del potere d’ordine etc.! Infatti, sarebbe impedito di fare tutte queste cose a meno di accettare in qualche modo la nuova dottrina (tale è indiscutibilmente la situazione attuale), il che sarebbe – molto più che un incomodo – un vero danno per la professione di fede.
Questo non vuol dire cadere in uno stato di anarchia, ma semplicemente capire che il ruolo delle leggi positive (e degli ordini singolari dei Prelati) è subordinato all’osservanza dei precetti divini, primo fra tutti l’obbligo di non cadere in ambiguità nell’espressione di fede, specie sui punti di dottrina che possono essere a rischio in un’epoca determinata. Non si passa all’illegalità, ma all’osservanza di leggi più elevate. Il bene comune vuole che in tali gravi casi ognuno agisca secondo le sue possibilità, che per il sacerdote sono quelle del potere d’ordine (cf. San Tommaso, Suppl. q. 8 a.6).
Argomenti affastellati, frasi tranchant e gravi lacune
Ma torniamo alle stravaganze degli articoli de La Bussola. L’Autrice, nella foga di terrorizzare qualche fedele, affastella argomenti disparati trattandoli a metà, salta alle conclusioni dimenticando di argomentare o, peggio, tralasciando elementi che farebbero implodere le sue asserzioni. Facciamo alcuni esempi.
Innanzitutto, non è chiaro a quale visione del rapporto ordine-giurisdizione faccia riferimento: se a quella tradizionale o a quella vatican-secondista, che sono inconciliabili, in quanto la prima condanna la seconda. Parrebbe cercare di ricorrere a quella tradizionale, ma si mette sotto scacco matto. Se si accetta la giurisdizione come distinta dall’ordine e non derivante da esso, si deve ammettere che l’impostazione neomodernista dei documenti conciliari implichi una rivoluzione, uno stravolgimento, che sta proprio alla base dello stato di grave necessità generale invocato da Mons. Lefebvre! Se viceversa si sposa l’idea vatican-secondista di giurisdizione, perde di senso la citazione di documenti pre-conciliari basati su un’impostazione totalmente diversa. Non solo quindi risulta insostenibile (come mostrato prima) lo svolgimento della sua argomentazione, ma addirittura la premessa.
Ancora: nel mettere in guardia i fedeli da ogni contatto coi mostruosi lefebvriani, l’articolista abbonda in citazioni di documenti, ma con un’accuratezza a targhe alterne. A titolo meramente confutativo vale la pena ribadire che ben prima che fossero rimesse le “scomuniche” (virgolette d’obbligo), e pur con i moti ondivaghi tipici delle istituzioni vaticane contemporanee, persino dalla Commissione vaticana Ecclesia Dei si rispondeva a una richiesta di fedeli, dicendo: “In senso stretto potete assolvere al vostro obbligo domenicale assistendo ad una messa celebrata da un prete della Fraternità San Pio X”. E addirittura: “sembrerebbe che un modesto contributo alla colletta della Messa possa essere giustificato” (Pont. Commissione Ecclesia Dei, Mons. C. Perl, 18 gennaio 2003).
Si noti però: risulta pacifico che il diritto-dovere di agire non viene dalle singole concessioni provenienti dall’autorità che per prima è coinvolta nella crisi ma – ribadiamolo – dallo stato di necessità determinato dalla crisi stessa.
Il riferimento poi alla Commissione San Carlo Borromeo è lunare, trattandosi di un ragionevole e prudenziale riferimento per persone che nel bel mezzo della crisi ecclesiale in corso, tra preti pronti a celebrare “matrimoni omosex”, prassi – ben precedente ad Amoris Laetitia – di comunioni facili a divorziati-risposati e misericordia un tanto al chilo, sperano di orientarsi in situazioni di lacerante difficoltà.
Conclusione
Molto altro si potrebbe scrivere, ma probabilmente non ne vale la pena. Per fare piazza pulita di illazioni, argomentazioni zoppe e voli pindarici, per ora può bastare, riservandoci ovviamente di tornare sul punto.
In Radio Spada il giudizio sui vari aspetti dell’azione di Mons. Lefebvre differisce tra i singoli membri, su una cosa però siamo totalmente concordi: l’alternativa alla grave, dilaniante, mortifera usurpazione neomodernista non viene certo dalla rivoluzione a marcia lenta o dalle schizoidi soluzioni di compromesso.
E ancora una volta, un’operazione condotta per tentare un maldestro assalto alla Tradizione si è rivelata come ottima occasione per fare chiarezza.
Sipario.
Fonte: Radio Spada