di Rita Bettaglio
La domenica pomeriggio ascolto sovente alcune omelie pronunciate la mattina, registrate e puntualmente diffuse in rete. Un gran bel servizio.
Ascolto sempre volentieri don Alberto Secci di Vocogno, diocesi di Novara. Faccio questa doverosa premessa perché lo spunto per queste riflessioni me l’ha dato la sua omelia.
Nemo potest duobus dominis servire: nessuno può servire a due padroni.
Sembrerebbe così lapalissiano da non aver bisogno di commenti. È esperienza comune che non si possa fare, esperienza naturale, anche nelle cose del mondo.
Eppure, come chi s’illude di poter mantenere moglie e amante, continuiamo a provarci. In pubblico e nel privato. Visibilmente e invisibilmente. E se ci beccano con le mani nella marmellata facciamo come Adamo: “La donna che tu mi hai posta accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. Niente di nuovo, perciò.
Nella nostra vita spirituale questo tentativo di quadratura del cerchio è un’insidia costante e per questo il Signore, a chi liberamente vi acconsente, continuamente pota e sfronda il giardino dell’anima perché porti più frutto.
Nella vita sociale, pubblica direbbero i romani, i due padroni sono chiaramente Dio e il mondo: l’uno padre, l’altro padrone, l’uno verità, l’altro principe della menzogna, l’uno la luce, oriens ex alto, l’altro le tenebre.
Essi hanno fini diametralmente opposti ed è terribile illusione e inganno pensare che possano essere addomesticati e gustati a piccoli, innocui, sorsi.
Così aveva teorizzato il cattolicesimo liberale: conciliare Dio e mammona. Ma sì, che vuoi che sia… Dicono: «Il Signore non vede, il Dio di Giacobbe non se ne cura» (Sal 94).
Allora, era il 1832, papa Gregorio XVI condannò queste idee, le idee di Lamennais e soci, con l’enciclica Mirari vos. Pio IX ribadì l’incompatibilità tra cattolicesimo e liberalismo nel Sillabo ed impegnò l’infallibilità pontificia nell’enciclica Quanta cura.
Circolava già allora l’idea che “si possa in qualunque professione di Fede conseguire l’eterna salvezza dell’anima se i costumi si conformano alla norma del retto e dell’onesto” [[1]].
Nella Mirari vos questa proposizione erronea, nota col nome di indifferentismo, viene condannata. Gregorio XVI prosegue: “Da questa corrottissima sorgente dell’indifferentismo scaturisce quell’assurda ed erronea sentenza, o piuttosto delirio, che si debba ammettere e garantire a ciascuno la libertà di coscienza: errore velenosissimo, a cui apre il sentiero quella piena e smodata libertà di opinione che va sempre aumentando a danno della Chiesa e dello Stato, non mancando chi osa vantare con impudenza sfrontata provenire da siffatta licenza qualche vantaggio alla Religione” [[2]].
Siete stupiti, vero? Noi, ormai, beviamo queste idee bislacche col latte materno e neppure ce ne accorgiamo. Goccia a goccia, il tossico ci pervade e ne siamo intimamente intossicati, da suonarci sgradevole ed eccessiva la chiara voce di Gregorio XVI, di Pio IX, di san Pio X e di tutti i Sommi Pontefici che, fino a Pio XII, hanno ribadito la dottrina cattolica.
Che è questa e non quella che ci viene ammannita oggi tra lustrini e pinzallacchere varie.
Poi è venuto il magistero dal linguaggio morbido e vellutato, scivoloso e suadente come le sirene di Ulisse. Una parolina oggi e una domani, un brodino caldo e un cataplasma. E come diceva Bargellini, i veltri sdutti e frementi sono andati a riposo.
“Le costole rilevate e dure si coprivano lentamente di un leggero strato di adipe, le code pendevano inerti”. L’adipe è cresciuto fino a rendere lo spirito ottuso e flaccido.
Perciò i pronunciamenti dei successori degli Apostoli non levano più chiara la voce, con la forza di un Gregorio XVI, ma siamo giunti ai fioretti green [qui] del vescovo di Rimini: spegnere le luci e chiudere i rubinetti quando non serve l’acqua.
Sembra quasi che dei due padroni uno sia stato messo definitivamente in soffitta: indovinate quale?
[1] Gregorio XVI, Mirari vos, 15 agosto 1832
[2] Idem