Ieri mi sono imbattuto [qui] in un articolo esilarante anche se drammatico. O, se preferite, drammatico anche se esilarante.
Sotto il titolo L’era della post cristianità. Chiese vuote, culle vuote, ci vengono svelate alcune notizie bomba. A partire da questa: “I banchi delle chiese sono sempre più vuoti e persino l’altare rimane sempre più spesso sguarnito di personale”.
Beh, uno scoop, niente da dire. Ma l’attenzione mi cade su quello “sguarnito di personale”. Il prete come un impiegato delle poste, un funzionario del catasto. Ma forse ha ragione l’articolista. Magari i preti oggi sono proprio ridotti a personale.
Un po’ più avanti si parla poi di crisi delle “vocazioni dei parroci”. Vocazioni dei parroci?! Io sapevo che il buon Dio chiama alla vocazione sacerdotale e poi, magari, il vescovo ti chiama a fare il parroco, che non è una vocazione ma un incarico. Ma forse, anche qui, ha ragione l’articolista e ci sono preti che hanno proprio la vocazione da parroco, ma anche da vescovo, da cardinale, da papa!
Comunque, il fatto è che non ci sono più fedeli e non ci sono più preti. Dunque, che si fa? La risposta è netta: “È necessario trovare un nuovo linguaggio per tamponare l’emorragia”.
Davvero? Tutta e solo questione di linguaggio? Così pare. Lo dice l’esperto di turno, un sociologo (di una “università di ispirazione cattolica”), il quale sentenzia: “Le promesse della modernità del post guerra – quella del capitalismo che avrebbe dovuto risolvere tutti i mali e donarci gioia eterna – sono crollate”.
Ah, ecco. Ora è tutto più chiaro. E il crollo delle “vocazioni dei parroci”? Anche in questo caso, pronta risposta: “Una società individualista, che si richiude in un cerchio ristretto e non è predisposta al sacrificio per la comunità, è una società che più difficilmente trova individui disposti a spogliarsi degli abiti civili per indossare quelli talari”.
Abiti talari?! Io sapevo che c’è la talare e ci sono gli abiti civili. Ma già… è un problema di linguaggio…
In ogni caso, il sociologo non demorde: “Le chiese non si sono svuotate principalmente per una crisi di fede, per la convinzione che Dio non esista. Piuttosto c’è una domanda diversa di fruizione del culto, sono cambiate le esigenze rispetto al praticare l’esperienza domenicale”. Ergo, “bisogna cambiare modo di approcciarsi alla messa, con quell’esposizione frontale e omelie poco efficaci”.
Leggo e rileggo. “Domanda diversa di fruizione del culto”?! “Praticare l’esperienza domenicale”?! “Modo di approcciarsi alla messa”?! Sembra la parodia del sociologhese, ma a quanto pare il prof è serio.
Comunque, non temete. Poiché è tutta questione di linguaggio, la soluzione è a portata di mano. Eccola: “Evviva il prete dj, che suona la techno prima della messa. Quale miglior modo per arrivare ai giovani, spiegando vecchi contenuti attraverso nuovi linguaggi?”.
Ma certo! La soluzione è il prete disc jockey! Come avevamo fatto a non pensarci? E naturalmente su questo fronte “la Chiesa di Francesco” è attrezzatissima. Lo certifica tale don Maurizio, che “sui social naviga spesso” e quindi la sa lunga.
“In questi due anni – spiega il don – la Chiesa italiana ha iniziato un cammino sinodale in cui si sta interrogando su quali sono le difficoltà e come fare a risolverle”. Oh, bene! Arrivano i nostri!
Spiega poi il prete digitalizzato: “Da 35enne [scritto proprio così, NdR] spesso quando utilizzo alcune parole proprie del linguaggio ecclesiale mi chiedo: ma come faranno a capirle? Non solo i ragazzi, ma anche i 50enni [aridaje]. Allora provo ad aggiustare il tiro, a cercare una parola differente per far comprendere quel concetto. È necessario proseguire il lavoro in atto nella modifica del linguaggio, i riti cambiano invece con molta lentezza”.
Bravo! Modifichiamo il linguaggio! Ed ecco perché nella diocesi di don Maurizio si son dati da fare. Infatti “hanno organizzato incontri con personaggi che potessero ampliare la platea e favorire la nascita di un dialogo”. Benone! Ben fatto! E chi hanno invitato? Non ci crederete: “Dal cantante Gio Evan al filosofo Umberto Galimberti”.
Premesso che non so chi sia Gio Evan, posso solo applaudire. Così si fa per risolvere la crisi, perbacco!
E tutta la mia solidarietà al povero don Maurizio, che frequentando i social, pensate un po’, “viene attaccato”. Oibò! Davvero? Proprio così. Il povero don “si sente vittima di un pregiudizio per via del collarino che porta indosso”.
Cavoli! Facciamo subito qualcosa! Spogliamolo degli “abiti talari” e mandiamo a don Maurizio una maglietta, una t-shirt, una polo, una camicia e cravatta! Non vorrete mica che il povero prete resti vittima del “collarino che porta indosso” (troppo semplice dire “indossa”?).
Ma non basta: sappiate che la crisi il povero don Maurizio “la riscontra dal vivo”. Quindi live, mica registrata. E quindi si angoscia. Pensate: “Tra i nuovi nati la percentuale [di chi non va a messa] si attesta al 70%”. E ti credo: i nuovi nati oggigiorno saranno pure svegli, ma è comunque dura andare a messa quando non si sa ancora camminare e si indossa (anzi si “porta indosso”) il pannolino! Piuttosto mi chiedo: come fa ad andare a messa quell’eroico trenta per cento di nuovi nati? Gattonando?
A proposito di nuovi nati, perché ce ne sono così pochi? La risposta arriva subito da un docente della Cattolica: “Diversi studi hanno sottolineato la correlazione tra il numero di figli che si desidera avere e l’appartenenza a un credo religioso”.
Ma va? E chi l’avrebbe mai detto?!
Non solo: “Le religioni tendono a essere legate a comportamenti tradizionali, anche nel formare la famiglia. È più facile che chi abbia fede [ha fede, NdR] si sposi, si sposi in chiesa e abbia un rapporto più duraturo perché quella scelta è vista come la stipulazione di un contratto divino”.
Meno male che c’è questo professore della Cattolica! Sennò saremmo rimasti nell’oscurità.
Ma le rivelazioni non sono finite. Sentite qua: “Le persone con un credo religioso sono meno orientate verso la carriera, il denaro e la realizzazione personale, mentre è più importante [sono più importanti, NdR] la famiglia e i figli”.
Davvero? E come fa il professore a sapere che le persone con un credo religioso sono meno orientate verso la carriera? Avrà le sue fonti riservate? O forse è un modo subdolo per dire che solo gli incolti al giorno d’oggi possono avere una fede religiosa?
Ma eccoci al gran finale. Nel capitoletto intitolato Come cambia la crisi mistica per età e territorio [la crisi mistica?!], torna in pista il sociologo di pronto intervento, per spiegare che “la differenza di crisi [la differenza di crisi?!] è anche territoriale. Le zone periferiche, quelle al margine [e già, mai viste zone periferiche centrali] sono zone che soffrono particolarmente”. Ma davvero?
Proprio così: “La parrocchia sparisce, la chiesa viene chiusa e quella comunità che già subisce isolamento digitale, si ritrova [notare la virgola tra il soggetto e il verbo] nella crisi mistica. In Sicilia, ad esempio, si fa tantissima fatica nelle zone montane e nelle isole”. Chissà perché proprio in Sicilia…
Ma anche l’età conta nella “crisi mistica”. Infatti, “ci sono gli anziani, quelli drammaticamente soli, periferici anche geograficamente, che subiscono la crisi delle vocazioni, quindi il venir meno del sacerdote sotto casa”.
Cavoli! Se il sacerdote sotto casa viene meno sono guai grossi! Passi per il panettiere e l’ortolano, ma il sacerdote sotto casa va mantenuto!
E poi il sociologo, forse pensando di non aver sufficientemente esplorato l’ovvio, aggiunge: “Gli adulti, invece, sono travolti dalle ansie del quotidiano, generate anche dalle diverse crisi, occupazionale e non solo, che stiamo affrontando. Loro hanno un grande problema a trovare tempo quantitativo e qualitativo per la riflessione e l’introspezione”.
Problema a trovare?! Tempo quantitativo e qualitativo?!
Andiamo oltre. Passiamo ai i giovani, “la questione più sentita” (ma da chi?). Infatti, “i giovani vanno al succo e sono meno interessati ai rituali e all’architettura organizzativa (quanti sono i santi e come si chiamano) ma sono profondamente interessati al messaggio religioso”.
Va bene, basta così. Abbiamo imparato abbastanza.
E come direbbe Totò: punto, due punti, punto e virgola!