Panegirico del Grande Escluso: Romano Amerio
di Silvio Brachetta
A proposito di quanto scrive Aurelio Porfiri su Romano Amerio, cerco d’integrare qualche parola di commento sul tema delle «variazioni». Il sottotitolo di Iota unum, Studio delle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, porta in sé non solo un contenuto, ma un netto confine su ciò che si può giudicare e su cosa no.
È noto il duplice insegnamento di Gesù Cristo: no al giudizio sulla persona («Non giudicate, per non essere giudicati», Mt 7, 1); sì al giudizio oggettivo («[…] come mai questo tempo non sapete giudicarlo?» Lc 12, 56). Iota unum è appunto un elenco di giudizi oggettivi sulle prassi e sulle nuove dottrine della Chiesa contemporanea. Errori? Eresie? Amerio preferisce usare la parola «variazioni». E fa bene, perché dichiara fin da subito che vuole mantenersi sull’oggetto delle questioni, che risolve con quella acutezza nota ai suoi lettori.
Amerio sa di essere un laico, non un chierico come Tertulliano o Ireneo di Lione che ci vanno giù duro col giudizio: Adversus haereses (Contro le eresie, Ireneo), De praescriptione haereticorum (La prescrizione contro gli eretici, Tertulliano). D’accordo, i titoli possono essere postumi, ma Tertulliano (non estraneo lui stesso all’eresia) scrive tranquillamente di eretici e di eresie. Ireneo preferisce parlare di errori o di dottrine erronee, ma anche lui scende ai giudizi soggettivi: «interpreti disonesti», «lupi» e cose simili.
Sia come sia, il chierico ha una missione in qualche modo allargata rispetto al laico, nel senso che non si limita ad esporre una dottrina, ma deve pure predicare – e chi predica, come un genitore con i figli, deve anche rimproverare, esortare, ammonire, mortificare. Nei casi in cui il chierico sia Papa, può e deve anche scomunicare, con un giudizio sulla persona.
Amerio cerca come può di mantenersi sull’oggettivo anche perché – unicum nella storia della Chiesa – alcuni degli errori del Novecento non provengono più da gruppi ereticali, ma dal seno stesso dell’istituzione sacra. Da qui l’elenco clamoroso delle «variazioni», che non risparmiano vescovi e papi. Ne esce un trattato di teologia, non limitato alla confutazione, ma alla riesposizione della dottrina cattolica (nel senso di universale), per mezzo di quell’amabile stile tutto ameriano, fatto di un modo d’esprimersi unico, elegante.
Amerio piace anche solo per come scrive: è riuscito a centrare la ricercatezza senza la pedanteria, la precisione senza l’accademismo, l’acume senza la presunzione, la completezza senza la noia. Ha espresso un sapere e l’ha saputo comunicare con una sintassi efficace e straordinaria.
Allo stesso tempo, però, Amerio è il Grande Escluso dell’apologetica contemporanea, come mi sembra lamenti Porfiri. Viene citato col contagocce, quando invece (in un certo senso) tutto il pandemonio l’ha scatenato lui. Ma se pure non si vuole citarlo, sarebbe almeno opportuno imitarlo, orientando il giudizio sulla critica, come del resto hanno fatto gli stessi Padri del primo millennio cristiano. Ireneo e Agostino, Girolamo e il Nazianzeno hanno sì trattato di errori e di eresie, ma solo come pretesto per pronunciare una dottrina sapiente, eterna, esposta in maniera inaudita, peculiare.
I Padri sono grandi per la dottrina, cioè per il giudizio oggettivo, che hanno saputo elaborare e comunicare in modo sublime. Se, dunque, ci si chiedesse cosa fare oggi, di fronte all’errore, la risposta sarebbe semplice: elencare le «variazioni» rispetto alla verità.
Tutto qui? Ci si potrebbe chiedere. Ma non è tutto qui. Al contrario, la grande teologia è nata proprio attorno alle «variazioni»: e, anzi, delle «variazioni» è rimasto ben poco, ma si è spalancata una miniera d’oro di contenuti – i Padri hanno saputo scrutare i misteri di Dio e darne ragione; hanno interpretato le Scritture, così come i segni dei tempi; hanno colto con introspezione il senso anagogico e profondissimo del Logos incarnato.
Gli anatemi, le scomuniche e le accuse di eresia e scisma – da laico – li lascerei quindi all’autorità ecclesiastica e parlerei invece di «variazioni». Ma non solo. Due altre parole a me molto simpatiche, che uso di frequente, sono «equivoco» e «ambiguità». Quando cioè mi accorgo di un errore, scrivo «errore», anche se preferisco dire che un certo testo contiene parole o affermazioni equivoche, ambigue.
E su questi equivoci e ambiguità fondo un mio discorso. Discorso mio, però, non di un altro: è perfettamente inutile scrivere o riscrivere le parole altrui. Dov’è l’inaudito? Dov’è la risposta, in senso tomista? Sono io, se ne sono capace, che devo prendere a pretesto le parole altrui per un mio testo, che poi qualcun’altro giudicherà, approvandolo o meno.
Autori immensi, di questo argomentare, sono riusciti a renderne ragione e non ricordiamo più, citandoli, le «variazioni» su cui hanno costruito il loro discorso, ma le verità che ci hanno proposto con la purezza di una sinfonia.
Enrico Maria Radaelli, discepolo di Amerio e curatore della sua opera, spiega meglio il concetto di «variazioni». Circa il Concilio Vaticano II, Amerio vede sì variazioni nella dottrina, ma il variare la dottrina è, precisamente, una «variazione di essenze». Non si tratta solo di una questione legata a decisioni o documenti magisteriali. L’operazione è più subdola, poiché variare le essenze significa distruggere l’impianto metafisico di qualcosa (in questo caso della dottrina).
E ancora una volta Amerio prima e Radaelli poi prendono a pretesto una crisi ecclesiale per esporre una metafisica, ovvero per costruire un edificio concettuale più robusto di quello fondato sulle variazioni. L’obiettivo non è di dare ragione o meno a un Concilio, ma d’interpretare il Dio Monotriade sotto la luce della metafisica e della rivelazione originaria.