Da Isaia a Liala. La parabola della “chiesa in uscita”
Alla messa si legge Isaia: “Ecco, tu sei adirato perché abbiamo peccato contro di te da lungo tempo e siamo stati ribelli. Siamo divenuti tutti come una cosa impura… le nostre iniquità ci hanno portato via come il vento… Signore, non adirarti fino all’estremo, non ricordarti per sempre dell’iniquità…”.
Si legge anche Giovanni: “Allora gli dissero: Signore, dacci sempre questo pane. Gesù rispose loro: Io sono il pane della vita; chi viene a me non avrà fame e chi crede in me non avrà sete, mai!”.
Poi, all’uscita, ecco un foglio. Titolo: Il sinodo dei vescovi in breve.
Prendo, leggo. “Lo scopo [del sinodo] è far germogliare sogni, suscitare profezie e visioni, far fiorire speranze, stimolare fiducia, fasciare ferite, intrecciare relazioni, resuscitare un’alba di speranza, imparare l’uno dall’altro e creare un immaginario positivo che illumini le menti, riscaldi i cuori, ridoni forza alle mani”.
Mi chiedo sempre: come ha fatto il linguaggio cattolico a passare dalla forza, dal vigore, diciamo pure dalla virilità delle Scritture all’attuale sdolcinatezza esangue? Lo scopo non dico di un sinodo, ma di una qualunque cosa degna di essere chiamata cattolica, potrà mai essere “far germogliare sogni”, “resuscitare un’alba di speranza”, “imparare l’uno dall’altro e creare un immaginario positivo che illumini le menti”?
Come abbiamo fatto a passare da Isaia a Liala (con tutto il rispetto per Liala, regina dei romanzi rosa)?
Ve lo immaginate Gesù che dice: “Venite a me, così facciamo germogliare sogni”. Oppure: “Venite a me, dai, così impariamo l’uno dall’altro a creare un immaginario positivo che illumini le menti”.
Se questa è la proposta della “Chiesa sinodale”, detta anche “Chiesa in uscita”, mi sembra non solo lecito ma doveroso rispondere come Totò all’onorevole Trombetta: “Ma mi faccia il piacere!”.
A.M.V.