Vi proponiamo in italiano la lettera di risposta di Francesco (il cui testo originale è in spagnolo) ai primi dubia dei cardinali Raymond Leo Burke, Robert Sarah, Joseph Zen Ze-kiun., Walter Brandmüller e Juan Sandoval Íñiguez del 10 luglio 2023 [qui]. La risposta porta la data dell’11 luglio 2023.
Il documento pubblicato sul sito del Dicastero per la dottrina della fede (qui) è differente e incompleto rispetto all’originale: mancano la pagina uno, i primi due capoversi di pagina due e l’auspicio finale che, con le risposte fornite, possano essere state soddisfatte le domande.
Pubblichiamo quindi di seguito – con debita autorizzazione – la traduzione in lingua italiana della versione autentica completa, integrale e autografa di papa Francesco
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Città del Vaticano, Santa Marta, 11 luglio 2023
Cari fratelli,
vi scrivo in riferimento alla vostra lettera del 10 luglio scorso. In essa avete voluto portare alla mia attenzione alcuni dubia che, a vostro avviso, sono in qualche misura legati al processo in corso in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi sul tema della sinodalità.
A questo proposito, vorrei condividere con voi alcuni aspetti molto importanti. Con il prossimo Sinodo ho fortemente voluto realizzare un processo che preveda la partecipazione di una parte veramente significativa di tutto il popolo di Dio.
In questo percorso, con l’aiuto e l’ispirazione dello Spirito Santo, abbiamo potuto raccogliere «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» e abbiamo potuto, ancora una volta, sperimentare che queste gioie, queste speranze, queste tristezze e angosce «sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla Vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore» (Gaudium et spes, 1).
Per rispondere pienamente a tutto ciò, questo processo – che durerà fino all’ottobre 2024 – ha incluso anche domande e consultazioni sulla struttura (partecipazione e comunione) e sulla missione della Chiesa nel tempo in cui viviamo.
Con grande sincerità, vi dico che non è molto bello avere paura di queste domande e di questi interrogativi. Il Signore Gesù, che ha promesso a Pietro e ai suoi successori un’assistenza indefettibile nel compito di prendersi cura del popolo santo di Dio, ci aiuterà, anche grazie a questo Sinodo, a mantenerci sempre più in costante dialogo con gli uomini e le donne del nostro tempo e in totale fedeltà al santo Vangelo.
Ora, anche se non sempre trovo opportuno rispondere alle domande che mi vengono rivolte direttamente (perché sarebbe impossibile rispondere a tutte), in questo caso mi sembra opportuno farlo per la vicinanza del Sinodo.
In particolare:
Domanda 1
a)La risposta dipende dal significato che voi date alla parola «reinterpretare». Se si intende «interpretare meglio» l’espressione è valida. In questo senso il Concilio Vaticano II ha affermato che è necessario che attraverso il lavoro degli esegeti – aggiungo io dei teologi – «maturiil giudizio della Chiesa» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 12).
b)Pertanto, se è vero che la Rivelazione divina è immutabile e sempre vincolante, la Chiesa deve essere umile e riconoscere che non esaurisce mai la sua insondabile ricchezza e ha bisogno di crescere nella sua comprensione.
c)Matura quindi anche nella comprensione di ciò che essa stessa ha affermato nel suo Magistero.
d)I cambiamenti culturali e le nuove sfide della storia non modificano la Rivelazione, ma possono stimolarci a rendere più espliciti alcuni aspetti della sua straripante ricchezza, che offre sempre di più.
e)È inevitabile che questo possa portare a una migliore espressionedi alcune affermazioni passate del Magistero, e in effetti è stato così nel corso della storia.
f)D’altra parte, è vero che il Magistero non è superiore alla Parola di Dio, ma è anche vero che sia i testi della Scrittura sia le testimonianze della Tradizione hanno bisogno di un’interpretazione che permetta di distinguere la loro sostanza perenne dai condizionamenti culturali. Ciò è evidente, ad esempio, nei testi biblici (come Es 21,20-21) e in alcuni interventi magisteriali che tolleravano la schiavitù (cfr. Niccolò V, Bolla Dum Diversas, 1452). Non si tratta di una questione secondaria, data la sua intima connessione con la verità perenne della inalienabile dignità della persona umana. Questi testi hanno bisogno di essere interpretati. Lo stesso vale per alcune considerazioni neotestamentarie sulla donna (1 Cor 11,3-10; 1 Tim 2,11-14) e per altri testi della Scrittura e testimonianze della Tradizione che oggi non possono essere materialmente ripetute.
g)È importante sottolineare che ciò che non può cambiare è ciò che è stato rivelato «per la salvezzadi tutte le genti» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Dei Verbum, 7). La Chiesa deve quindi discernere costantemente tra ciò che è essenziale per la salvezza e ciò che è secondario o meno direttamente collegato a questo obiettivo. A questo proposito, vorrei ricordare quanto affermato da San Tommaso d’Aquino: «quanto più si scende al particolare, tanto più aumenta l’indeterminatezza» (Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4).
h)Infine, una singola formulazione di una verità non può mai essere adeguatamente compresa se si trova da sola,isolata dal contesto ricco e armonioso dell’intera Rivelazione. La «gerarchia delle verità» implica anche la collocazione di ogni verità in una giusta connessione con le verità più centrali e con la totalità dell’insegnamento della Chiesa. Questo può portare, in ultima analisi, a diversi modi di esporre la stessa dottrina, anche se «a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione. Ma la realtà è che tale varietà aiuta a manifestare e a sviluppare meglio i diversi aspetti dell’inesauribile ricchezza del Vangelo» (Evangeli Gaudium, 40). Ogni linea teologica ha i suoi rischi, ma anche le sue opportunità.
Domanda 2
a)La Chiesa ha una concezione molto chiara del matrimonio: un’unione esclusiva, stabile e indissolubile tra un uomo e una donna, naturalmente aperta alla generazione di figli. Solo una tale unione la chiama «matrimonio». Altre forme di unione lo fanno solo «in modo parziale e analogo» (Amoris laetitia292), per questo non possono essere chiamate «matrimonio» in senso stretto.
b)Non è solo una questione di nomi, ma la realtà che chiamiamo matrimonio ha una costituzione essenziale unica che richiede un nome esclusivo, non applicabile ad altre realtà. È certamente molto più di un semplice «ideale».
c)Per questo motivo la Chiesa evita qualsiasi tipo di rito o di sacramentale che possa contraddire questa convinzione, facendo capire che qualcosa che non è un matrimonio sia riconosciuto come tale.
d)Nei rapporti con le persone, tuttavia, non dobbiamo perdere la carità pastorale che deve permeare tutte le nostre decisioni e i nostri atteggiamenti. La difesa della verità oggettiva non è l’unica espressione di questa carità, che è fatta anche di gentilezza, pazienza, comprensione, tenerezza e incoraggiamento. Non possiamo quindi diventare giudici che si limitano a negare, respingere, escludere.
e)La prudenza pastorale deve quindi discernere adeguatamente se esistono forme di benedizione, richieste da una o più persone, che non trasmettano una concezione errata del matrimonio. Giacché infatti, quando si chiede una benedizione, è una richiesta di aiuto a Dio, una supplica per un modo migliore di vivere, una fiducia in un Padre che può aiutarci a vivere meglio.
f)D’altra parte, anche se ci sono situazioni che da un punto di vista oggettivo non sono moralmente accettabili, la stessa carità pastorale esige che non si trattino semplicemente come «peccatori» altre persone la cui colpa o responsabilità può essere attenuata da vari fattori che influenzano l’imputabilità soggettiva (cfr. San Giovanni Paolo II, Reconciliatio et Paenitentia, 17).
g)Le decisioni che, in determinate circostanze, possono rientrare nella prudenza pastorale, non devono necessariamente diventare una norma. In altre parole, non è opportuno che una Diocesi, una Conferenza Episcopale o qualsiasi altra struttura ecclesiale autorizzi costantemente e ufficialmente procedure o regole per ogni tipo di questione, poiché tutto ciò che «fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma» giacché questo «darebbe luogo a una casistica insopportabile» (Amoris laetitia304). Il Diritto Canonico non deve e non può coprire tutto, né le Conferenze episcopali possono pretendere di farlo con i loro vari documenti e protocolli, perché la vita della Chiesa e la vita della Chiesa percorre molti canali oltre a quelli normativi.
Domanda 3
a)Pur riconoscendo che la suprema e piena autorità della Chiesa è esercitata o dal Papa in virtù del suo ufficio o dal collegio episcopale insieme al suo capo, il Romano Pontefice (cfr. Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 22), tuttavia con questi dubiavoi stessi manifestate il vostro bisogno di partecipare, di dare liberamente il vostro parere e di collaborare, e quindi rivendicate una qualche forma di «sinodalità» nell’esercizio del mio ministero.
b)La Chiesa è un «mistero di comunione missionaria», ma questa comunione non è solo affettiva o eterea, ma implica necessariamente una partecipazione reale: che non solo la gerarchia, ma tutto il popolo di Dio, in modi e a livelli diversi, possa far sentire la propria voce e sentirsi parte del cammino della Chiesa. In questo senso possiamo effettivamente dire che la sinodalità, come stile e dinamismo, è una dimensione essenziale della vita della Chiesa. Su questo punto, San Giovanni Paolo II ha detto cose molto belle nella Novo Millennio Ineunte.
c)Altra cosa è sacralizzare o imporre una particolare metodologia sinodale che piace a un gruppo, per farne la norma e il canale obbligato per tutti, perché questo porterebbe solo a «congelare» il cammino sinodale, ignorando le diverse caratteristiche delle varie Chiese particolari e la variegata ricchezza della Chiesa universale.
Domanda 4
a)«Il sacerdozio comune dei fedeli e il sacerdozio ministeriale differiscono essenzialmente» (Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione dogmatica Lumen Gentium, 10). Non è conveniente sostenere una differenza di grado che implichi considerare il sacerdozio comune dei fedeli come qualcosa di «seconda categoria» o di valore inferiore («un grado inferiore»). Entrambe le forme di sacerdozio si illuminano e si sostengono a vicenda.
b)Quando San Giovanni Paolo II ha insegnato che l’impossibilità di conferire l’ordinazione sacerdotale alle donne deve essere affermata «definitivamente», non stava in alcun modo denigrando le donne e dando il potere supremo agli uomini. San Giovanni Paolo II ha affermato anche altre cose. Ad esempio, che quando parliamo di potere sacerdotale «siamo nell’ambito della funzione, non della dignità o della santità» (San Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 51). Sono parole che non abbiamo recepito a sufficienza. Egli ha anche sostenuto chiaramente che, mentre il sacerdote presiede da solo l’Eucaristia, i compiti «non danno àdito alla superioritàdegli uni sugli altri» (San Giovanni Paolo I, Christifideles laici, nota 190; cfr. Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione Inter Insigniores, V). Ha anche affermato che se la funzione sacerdotale è «gerarchica», non deve essere intesa come una forma di dominio, «è tuttavia totalmente ordinata alla santità delle membra di Cristo» (San Giovanni Paolo II, Mulieris dignitatem, 27). Se non si comprende questo e non si traggono le conseguenze pratiche di queste distinzioni, sarà difficile accettare che il sacerdozio sia riservato ai soli uomini e non si potranno riconoscere i diritti delle donne o la necessità che esse partecipino, in vari modi, alla guida della Chiesa.
c)D’altra parte, per essere rigorosi, riconosciamo che una dottrina chiara e autorevole sulla natura esatta di una «dichiarazione definitiva» non è ancora stata sviluppata in modo esaustivo. Non è una definizione dogmatica, eppure deve essere rispettata da tutti. Nessuno può contraddirla pubblicamente, eppure può essere oggetto di studio, come nel caso della validità delle ordinazioni nella Comunione anglicana.
Domanda 5
a)Il pentimento è necessario per la validità dell’assoluzione sacramentale e implica il proposito di non peccare. Ma qui non c’è matematica, e ancora una volta devo ricordarvi che il confessionale non è una dogana. Non siamo padroni, ma umili amministratori dei Sacramenti che nutrono i fedeli, perché questi doni del Signore, più che reliquie da custodire, sono aiuti dello Spirito Santo per la vita delle persone.
b)Ci sono molti modi di esprimere il pentimento. Spesso, nelle persone con un’autostima gravemente ferita, dichiararsi colpevoli è una tortura crudele, ma l’atto stesso di avvicinarsi alla confessione è un’espressione simbolica del pentimento e della ricerca dell’aiuto divino.
c)Vorrei anche ricordare che «a volte ci costa molto dare spazio nella pastorale all’amore incondizionato di Dio» (Amoris laetitia311), ma dobbiamo imparare a farlo. Seguendo San Giovanni Paolo II, sostengo che non dobbiamo pretendere dai fedeli risoluzioni di emendamento troppo precise e sicure, che alla fine finiscono per essere astratte o addirittura egolatriche, ma che anche la prevedibilità di una nuova caduta «non pregiudica l’autenticità del proposito» (San Giovanni Paolo II, Lettera al cardinale William W. Baum e ai partecipanti al corso annuale della Penitenzieria Apostolica, 22 marzo 1996, 5).
d)Infine, deve essere chiaro che tutte le condizioni solitamente legate alla confessione non sono generalmente applicabili quando la persona si trova in una situazione di agonia o con capacità mentali e psichiche molto limitate.
Cari fratelli, credo che con queste risposte potrete soddisfare le vostre domande.
Vi prego di non dimenticare di pregare per me. Io lo faccio per voi.
Fraternamente,
Francesco
Fonte: messainlatino