Lettera da Gerusalemme / “Così io, sacerdote cattolico, sto vivendo questa guerra”

Lunedì 9 ottobre don Filippo Morlacchi ha condiviso con amici della parrocchia Sant’Ippolito di Roma alcune riflessioni sulla situazione in Terrasanta dopo il feroce attacco di Hamas e alleati al popolo di Israele. Già collaboratore parrocchiale a Sant’Ippolito, nel 2018 don Morlacchi si è trasferito a Gerusalemme come sacerdote fidei donum della diocesi di Roma presso il Patriarcato latino. Qui alcuni passi della testimonianza del sacerdote.

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di don Filippo Morlacchi

Poiché tante persone, preoccupate, mi chiedono notizie su quel che accade in queste ore in Terrasanta, scrivo questa nota per riassumere i fatti, e condividere alcune valutazioni e opinioni personali. (…)  Ciò che è accaduto in Israele all’alba di sabato 7 ottobre 2023 è un evento tragico di portata storica, che non lascerà il mondo come prima. Correttamente osservatori politici parlano dell’11 settembre di Israele e qualcuno l’ha definita “la giornata più sanguinosa per il popolo ebraico dai tempi della Shoah”. Nonostante la superiore potenza militare israeliana e l’efficienza proverbiale dei suoi famosi servizi di intelligence, il braccio armato di Hamas e alcuni gruppi della Jihad islamica, approfittando di un mattino di shabbat e della conclusione delle feste di Sukkot, dalla Striscia di Gaza sono riusciti a sorpresa a violare i confini e a penetrare nel territorio israeliano. Lo hanno fatto via aria, con dei semplici parapendii a motore; via acqua, con ordinari gommoni; via terra, con pickup, automobili civili e semplici motociclette. Il lancio di oltre 2.000 missili in poche ore ha saturato e reso inefficace il sistema di difesa israeliano Iron dome, provocando vittime e danni, e soprattutto distogliendo l’attenzione delle forze armate israeliane dalla difesa dei confini. Così in breve tempo, nonostante la strumentazione rudimentale a disposizione, molte centinaia di uomini armati hanno aggredito sul territorio israeliano postazioni militari e abitazioni private, civili a passeggio e giovani in festa, uccidendo brutalmente molte centinaia di persone e deportando nella striscia di Gaza almeno un centinaio di persone, tra prigionieri militari e ostaggi civili. I social media hanno trasmesso video raccapriccianti delle uccisioni a sangue freddo da parte degli uomini di Hamas, delle brutali efferatezze con cui si sono accaniti contro i cadaveri, e delle umiliazioni a cui sottoponevano i prigionieri.

La strategia del terrore ha funzionato: gli ebrei, che considerano lo Stato di Israele come “il rifugio sicuro” dalle persecuzioni e dall’odio antisemita, si sono trovati nuovamente vulnerabili e minacciati, stavolta in casa propria. Questo fenomeno avrà un impatto determinante sulle future politiche israeliane. La risposta militare di Israele non è stata tempestiva – e questo ritardo ha innescato vivaci polemiche interne sulle responsabilità della débacle – ma ovviamente non è mancata: massicci bombardamenti a Gaza hanno prodotto in poche ore diverse centinaia di vittime, molte delle quali civili, donne e bambini; numerose unità dell’esercito insieme a decine di carri armati sono state trasferite al confine con la striscia di Gaza, in vista – forse – di un attacco da terra.

Ma la presenza di numerosi prigionieri rende più complessi i bombardamenti, anche quelli mirati, per timore di uccidere connazionali usati come scudi umani: Hamas ha già dichiarato che quattro ostaggi sarebbero morti sotto le bombe. Inoltre la cattura di ostaggi conferisce al governo di Gaza un potere assolutamente nuovo nelle trattative, come “merce di scambio” per ottenere il rilascio dei prigionieri palestinesi.

I media israeliani e occidentali definiscono “terroristi” i paramilitari di Hamas e della Jihad, ed è innegabile che lo siano, perché colpiscono brutalmente e deliberatamente civili inermi e soprattutto aspirano alla distruzione totale dello Stato di Israele. D’altronde, per la prima volta con questa efficacia, questi uomini, che si considerano non terroristi, ma una forza armata regolare, hanno colpito anche obiettivi militari israeliani, come caserme e stazioni di polizia. Inoltre ai civili rapiti, che a buon diritto possono definirsi “ostaggi”, si affiancano stavolta anche numerosi “prigionieri di guerra” militari. Questa strategia bellica (…)  è un elemento nuovo. Ed è ciò che ha maggiormente sorpreso tutti. Nel contesto arabo e palestinese, l’operazione viene definita una “vittoria militare contro la potenza occupante”, cioè Israele. Questa descrizione dei fatti è inaccettabile per Israele, che considera l’aggressione un vile atto di terrorismo generato dall’odio antisemita; ma la “narrazione” araba della “vittoria militare” non è priva di ragioni storiche. Mi spiego: ciò che da Israele viene percepito come “una sleale incursione di terroristi” (e certamente si è trattato di un’azione violenta senza previa dichiarazione di guerra, e con eccidio ingiustificabile di civili), riproduce specularmente, dal punto di vista arabo, ciò che i palestinesi sperimentano quando subiscono le sistematiche incursioni dei militari israeliani nei territori occupati per compiere omicidi mirati di sospetti terroristi o per demolire abitazioni: la violazione prepotente dei legittimi confini da parte di ingiusti aggressori. In pratica, Hamas ha voluto far sentire a Israele come ci si sente nel subire aggressioni “dentro casa”. Tuttavia ogni ipotesi di paragone o di corresponsabilità viene respinto con sdegno da parte israeliana, e anche questo punto di vista va compreso. (…)

In breve: la situazione è estremamente complessa, e l’equilibrio pressoché impossibile. Tuttavia la doverosa condanna senza appello degli atti terroristici di Hamas e della Jihad islamica, e il riconoscimento dell’indiscutibile diritto alla legittima difesa da parte di Israele, non dovrebbero far dimenticare che la pace si costruisce lentamente, attraverso la giustizia, per tutti, senza esclusioni né distinzioni. In sintesi, in brevissimo tempo si sta creando uno scenario nuovo, ben diverso anche da quello dell’ultima guerra di Gaza (2021). Si temono infatti nuove ondate di attentati da parte palestinese (i rabbini hanno consentito di celebrare i funerali in forma privata per evitare assembramenti), come pure reazioni violente contro “gli arabi” in generale da parte di settlers e civili israeliani, molti dei quali girano armati. (…)

I pellegrini in Terrasanta stanno completando i loro pellegrinaggi prima di tornare in patria, quando i voli lo consentiranno. Visitano i santuari e cercano di rispettare il programma di viaggio previsto, in cerca di normalità; ma è una normalità fittizia. Le strade di Gerusalemme sono deserte come ai tempi del Covid-19, sia nella parte ebraica che in quella araba, compresa la città vecchia. Sono rimaste aperte le farmacie, i supermercati e alcuni negozi: ma la tensione è palpabile nell’aria. Sono chiusi praticamente tutti i check-point di frontiera con la West Bank. (…)

Da parte mia, sono relativamente tranquillo. A Gerusalemme, e in particolare nella zona di Porta di Damasco, dove si trova la Casa Filia Sion in cui abito, non si temono tanto i razzi (che pure hanno raggiunto alcuni sobborghi a sud e ovest della Città santa, con danni e vittime), quanto il possibile scoppio di attentati e violenze. Ieri doveva essere il primo giorno di scuola dopo le vacanze di Sukkot, ma tutte le scuole – ebraiche, musulmane e cristiane – sono chiuse.

Alcuni giovani del Vicariato cattolico di lingua ebraica sono stati richiamati alle armi. L’incertezza è grande, perché non si riesce bene a valutare quali saranno le prossime mosse. È plausibile un prossimo attacco da terra da parte di Israele, ma si ignora quali contro-reazioni potrebbe suscitare da parte palestinese: non tanto nella Striscia di Gaza, che certamente soccomberà alla superiorità militare israeliana, quanto soprattutto in Gerusalemme e Israele. Del resto, l’operazione di Hamas è stata chiamata “diluvio di Al-Aqsa”, fatta cioè per vendicare “le profanazioni” commesse sulla spianata delle moschee.

Gerusalemme rimane al centro del conflitto. Domenica scorsa il Salmo responsoriale (Sal 79/80) era di stringente attualità, e nell’omelia l’ho semplicemente letto e spiegato: “Hai sradicato una vite (il popolo di Israele) dall’Egitto, hai scacciato le genti (i popoli della Palestina) e l’hai trapiantata… Ha esteso i suoi tralci fino al mare (Mediterraneo), arrivavano al fiume (Giordano) i suoi germogli… Perché hai aperto brecce nella sua cinta (i muri di difesa costruiti da Israele)? Dio degli eserciti, ritorna! … Proteggi quello che la tua destra ha piantato…”. Possiamo e dobbiamo pregare per Israele, affinché questa cieca violenza contro il popolo della promessa cessi, unilateralmente e senza tentennamenti. Ma dobbiamo pregare anche per la Terrasanta, perché dalla ritorsione e dalla vendetta non nascerà mai la pace, e i popoli di questa Terra hanno tanto bisogno di giustizia e pace. Invito i confratelli sacerdoti e tutta la Diocesi di Roma a pregare per questa intenzione. Gerusalemme ha bisogno di un nuovo impegno per la costruzione di una pace giusta e per una soluzione durevole del conflitto mediorientale. A noi cristiani, qui stretti nella morsa, rimane il dovere di intercedere, di mediare laddove possibile, di “consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio” (cfr 2Cor 1,4), di confidare in Dio, l’Unico, giusto e misericordioso, e di insegnare a farlo, anche nel nome di Gesù suo Figlio.

Fonte: rossoporpora.org

 

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