Nella lettera aperta all’amico cardinale Dominik Duka pubblicata oggi in esclusiva da Settimo Cielo, il cardinale Gerhard Ludwig Müller critica a fondo la risposta data il 25 settembre scorso dal cardinale Victor Manuel Fernández, nuovo prefetto del dicastero per la dottrina della fede, a una serie di domande dello stesso Duka riguardanti la comunione eucaristica ai divorziati risposati.
Duka, arcivescovo emerito di Praga, ha inoltrato tali domande lo scorso luglio, a nome della conferenza episcopale ceca, al dicastero presieduto dal cardinale Fernández, il quale ha avuto proprio nel cardinale Müller il suo penultimo predecessore, congedato ruvidamente nel 2017 da papa Francesco, di cui Fernández è invece stretto sodale.
Ma prima di leggere la lettera di Müller, è utile ripercorrere i precedenti del clamoroso scontro.
Lo scorso 4 ottobre, nel discorso d’apertura del Sinodo sulla sinodalità, Francesco ha polemizzato con “la pressione dell’opinione pubblica” che “quando c’è stato il Sinodo sulla famiglia” voleva far credere “che fosse per dare la comunione ai divorziati”.
Ma ha omesso di ricordare che proprio lui, il papa, nel febbraio del 2014, pochi mesi prima dell’apertura di quel Sinodo, aveva convocato un concistoro di due giorni a porte chiuse tra tutti i cardinali, obbligandoli a discutere una lezione introduttiva del cardinale Walter Kasper di pieno sostegno della comunione ai divorziati risposati.
E tale fu l’irritazione di Francesco per il rifiuto di tanti cardinali, anche di spicco, ad aderire a quella tesi, che alla vigilia del Sinodo sulla famiglia diede questa consegna al segretario speciale dell’assise, l’arcivescovo di Chieti Bruno Forte, stando a quanto poi riferito pubblicamente dallo stesso Forte il 2 maggio 2016:
“Se parliamo esplicitamente di comunione ai divorziati risposati, questi [cioè i cardinali e vescovi contrari – ndr] non sai che casino ci combinano! Allora non parliamone in modo diretto, tu fai in modo che ci siano le premesse, poi le conclusioni le trarrò io”.
Inutile aggiungere che per aver svelato questo retroscena Forte, fino ad allora tra i prediletti del papa, cadde in disgrazia e sparì dalle cronache.
Ma accadde proprio quanto detto da lui. Terminate le due sessioni del Sinodo sulla famiglia senza che si trovasse un accordo sulla questione, Francesco trasse le sue conclusioni infilando in un paio di minuscole note a piè di pagina della sua esortazione postsinodale “Amoris laetitia” un allusivo lasciapassare alla comunione ai divorziati risposati. E interrogato dai giornalisti sull’aereo di ritorno da Lesbo, il 16 aprile 2016, non temette di dire: “Non ricordo quella nota”.
E fu l’ora dei “dubia”. Nel settembre del 2016 quattro cardinali di primo piano chiesero al papa di dare delle risposte finalmente chiare alle loro domande su quella e su altre questioni. Ma Francesco rifiutò di rispondere e impose il silenzio anche alla congregazione per la dottrina della fede, che all’epoca aveva Müller come prefetto. In novembre i quattro cardinali decisero quindi di rendere pubblici i “dubia”. Di nuovo senza ottenere una risposta, né tanto meno un’udienza col papa.
Il quale però, nel frattempo, aveva provveduto a sistemare il tutto a modo suo.
Nella babele delle interpretazioni di “Amoris laetitia”, infatti, anche i vescovi della regione di Buenos Aires avevano detta la loro, a favore della comunione ai divorziati risposati, in una lettera del 5 settembre 2016 ai loro sacerdoti, alla quale Francesco aveva risposto entusiasticamente lo stesso giorno con una sua lettera di approvazione:
“El escrito es muy bueno y explícita cabalmente el sentido del capítulo VIII de ‘Amoris laetitia’. No hay otras interpretaciones. Y estoy seguro de que hará mucho bien”.
“Il testo è molto buono e spiega esaurientemente il senso del capitolo VIII di ‘Amoris laetitia’. Non ci sono altre interpretazioni. E sono sicuro che farà molto bene”.
Restava da sapere quale autorità avesse per la Chiesa mondiale una lettera privata di Jorge Mario Bergoglio al segretario dei vescovi della regione di Buenos Aires.
E a questo provvide la ristampa di entrambe le lettere, il 7 ottobre, sugli “Acta Apostolicae Sedis”, cioè sull’organo ufficiale della Santa Sede, accompagnate da un “rescriptum” che le promuoveva a “magisterium authenticum”.
È a questo “rescriptum” che il cardinale Fernández, nel rispondere lo scorso 25 settembre ai dubbi di Duka, si è appeso per avvalorare l’autorità magisteriale dell’approvazione data da papa Francesco alla comunione ai divorziati risposati. Con tutto un corredo di ulteriori indicazioni riguardanti la sua messa in pratica.
Scontrandosi però ora con il totale disaccordo del cardinale Müller, suo predecessore alla testa dello stesso dicastero.
Che in questa lettera all’amico cardinale Duka smonta punto per punto gli argomenti di Fernández, ai quali perfino l’approvazione del papa è espressa malamente – fa notare Müller –, apposta com’è “con una semplice firma datata a piè di pagina” invece che con le formule canoniche di rito.
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Eminenza, caro fratello Dominik Duka,
ho letto con grande attenzione la “Risposta” del Dicastero per la Dottrina della Fede (DDF) ai tuoi “dubia” sull’esortazione apostolica post-sinodale “Amoris Laetitia” (”Risposta a una serie di domande”, in seguito “Risposta”) e vorrei condividere con te la mia valutazione.
Uno dei “dubia” che hai presentato al DDF riguarda l’interpretazione di “Amoris Laetitia” contenuta in una lettera dei vescovi della regione di Buenos Aires del 5 settembre 2016, che permette l’accesso ai sacramenti ai divorziati che vivono in una seconda unione civile, anche se continuano a comportarsi come marito e moglie senza volontà di cambiare vita. Secondo la “Risposta” questo testo di Buenos Aires appartiene al magistero pontificio ordinario, essendo stato accettato dal Papa stesso. Francesco ha infatti affermato che l’interpretazione offerta dai vescovi di Buenos Aires è l’unica interpretazione possibile di “Amoris Laetitia”. La “Risposta” ne trae la conseguenza che si deve prestare l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà a questo documento di Buenos Aires, come succede per altri testi del magistero ordinario del Papa (cfr. “Lumen Gentium” 25,1).
Al riguardo è innanzitutto necessario chiarire, dal punto di vista dell’ermeneutica generale della fede cattolica, qual è l’oggetto dell’assenso dell’intelligenza e della volontà che ogni cattolico deve offrire al magistero autentico del Papa e dei vescovi. In tutta la tradizione dottrinale, e in particolare in “Lumen Gentium” 25, tale assenso religioso riguarda la dottrina della fede e della morale che riflette e garantisce l’intera verità della rivelazione. Le opinioni private di papi e vescovi sono espressamente escluse dal magistero. Inoltre qualsiasi forma di positivismo magisteriale contraddice la fede cattolica, perché il magistero non può insegnare ciò che non ha nulla a che fare con la rivelazione, né ciò che contraddice specificamente la Sacra Scrittura (”norma normans non normata”), la tradizione apostolica e le precedenti decisioni definitive del magistero stesso (“Dei Verbum” 10; cfr. DH 3116-3117).
C’è dunque un assenso religioso da rendere al testo di Buenos Aires? Dal punto di vista formale, è già discutibile chiedere l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà a un’interpretazione teologicamente ambigua di una conferenza episcopale parziale (la regione di Buenos Aires), che a sua volta interpreta un’affermazione di “Amoris Laetitia”e che richiede una spiegazione e la cui coerenza con l’insegnamento di Cristo (Mc 10,1-12) è in discussione.
Di fatto, il testo di Buenos Aires sembra in discontinuità almeno con gli insegnamenti di Giovanni Paolo II (“Familiaris Consortio” 84) e di Benedetto XVI (“Sacramentum Caritatis” 29). E, anche se la “Risposta” non lo dice, ai documenti del magistero ordinario di questi due Papi va dato anche l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà.
Tuttavia, la “Risposta” sostiene che il testo di Buenos Aires offre un’interpretazione di “Amoris Laetitia” in continuità con i Papi precedenti. È proprio così?
Vediamo innanzitutto il contenuto del testo di Buenos Aires, riassunto nella “Risposta”. Il paragrafo decisivo della “Risposta” riguarda il terzo “dubium”. Dopo aver detto che già Giovanni Paolo II e Benedetto XVI permettevano l’accesso alla comunione quando i divorziati e risposati accettano di vivere in continenza, viene indicata la novità di Francesco:
“Francesco mantiene la proposta della piena continenza per i divorziati e i risposati [civilmente] in una nuova unione, ma ammette che vi possano essere difficoltà nel praticarla e quindi permette, in certi casi, dopo un adeguato discernimento, l’amministrazione del sacramento della Riconciliazione anche quando non si riesca nel essere fedeli alla continenza proposta dalla Chiesa” [sottolineato nello stesso testo].
Di per sé, l’espressione “anche quando non si riesca nel essere fedeli alla continenza proposta dalla Chiesa” può essere interpretata in due modi. Il primo: questi divorziati cercano di vivere in continenza, ma, date le difficoltà e a causa della debolezza umana, non ci riescono. In questo caso, la “Risposta” potrebbe essere in continuità con l’insegnamento di San Giovanni Paolo II. La seconda: questi divorziati non accettano di vivere in continenza e non ci provano nemmeno (non c’è quindi proposito di emendarsi), viste le difficoltà che incontrano. In questo caso ci sarebbe una rottura con il magistero precedente.
Tutto sembra indicare che la “Risposta” si riferisca alla seconda possibilità. In realtà, questa ambiguità è risolta nel testo di Buenos Aires, che separa il caso in cui al meno si cerca di vivere in continenza (n.5) da altri casi in cui non è così (n.6). In questi ultimi casi, i vescovi di Buenos Aires affermano: “In altre circostanze più complesse, e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità, l’opzione menzionata [cercare di vivere in continenza] può di fatto non essere praticabile”.
È vero che questa frase contiene un’altra ambiguità, in quanto afferma: “e quando non è stato possibile ottenere una dichiarazione di nullità”. Alcuni, notando che il testo non dice “e quando il matrimonio era valido”, hanno limitato queste circostanze complesse a quelle in cui, anche se il matrimonio è nullo per ragioni oggettive, queste ragioni non possono essere provate davanti al foro ecclesiale. Come si vede, sebbene Papa Francesco abbia presentato il documento di Buenos Aires come l’unica interpretazione possibile di “Amoris Laetitia”, la questione ermeneutica non è risolta, perché esistono ancora diverse interpretazioni del documento di Buenos Aires. Alla fine, ciò che osserviamo, sia nella “Risposta” che nel testo di Buenos Aires, è una mancanza di precisione nella formulazione, che può consentire interpretazioni alternative.
In ogni caso, però, anche prescindendo da queste imprecisioni, sembra chiaro ciò che vogliono dire sia la “Risposta” che il testo di Buenos Aires. Si potrebbe formulare come segue: ci sono casi particolari in cui, dopo un periodo di discernimento, è possibile dare l’assoluzione sacramentale a un battezzato che, dopo aver contratto un matrimonio sacramentale, mantiene rapporti sessuali con una persona con cui vive una seconda unione, senza che il battezzato debba prendere la risoluzione di non continuare ad avere questi rapporti, sia perché discerne che non gli è possibile, sia perché discerne che questa non è la volontà di Dio per lui.
Vediamo innanzitutto se questa affermazione può essere in continuità con gli insegnamenti di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. L’argomentazione della “Risposta” secondo cui Giovanni Paolo II aveva già ammesso alcuni di questi divorziati alla comunione, e che quindi Francesco solo fa un passo nella stessa direzione, non regge. La continuità, infatti, non va ricercata nel fatto che qualcuno poteva essere ormai ammesso alla comunione, ma nel criterio di quest’ammissione. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI permettono di ricevere la comunione ai divorziati che, per gravi motivi, vivono insieme senza avere rapporti sessuali. Ma non lo permettono quando queste persone hanno abitualmente rapporti sessuali, perché qui c’è un peccato oggettivamente grave, nel quale si vuole rimanere e che, in quanto tocca il sacramento del matrimonio, acquista un carattere pubblico. La rottura tra l’insegnamento del documento di Buenos Aires e il magistero di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI si percepisce quando si guarda all’essenziale, che è, come ho detto, il criterio di ammissione ai sacramenti.
Per essere più chiari, immaginiamo che, per assurdo, un futuro documento del DDF proponga un’argomentazione simile per permettere l’aborto in alcuni casi, in questo modo: “Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco hanno già permesso l’aborto in alcuni casi, per esempio quando la madre ha un cancro all’utero e questo cancro deve essere curato; adesso l’aborto è permesso in alcuni altri casi, per esempio nei casi di malformazione del feto, in continuità con ciò che hanno insegnato i Pontefici precedenti”. Si può notare la fallacia di questa argomentazione. Il caso di un’operazione per un cancro all’utero è possibile perché non si tratta di un aborto diretto, ma di una conseguenza non voluta di un’azione curativa sulla madre (secondo quello che è stato chiamato il principio del doppio effetto). Non ci sarebbe continuità, ma discontinuità tra le due dottrine, perché la seconda nega il principio che reggeva la prima posizione e che condannava qualsiasi aborto diretto.
Ma la difficoltà dell’insegnamento della “Risposta” e del testo di Buenos Aires, secondo la formulazione proposta, non sta solo nella sua discontinuità con l’insegnamento di San Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Infatti, questo insegnamento si oppone ad altre dottrine della Chiesa, che non sono solo affermazioni del magistero ordinario, ma sono state insegnate in modo definitivo come appartenenti al deposito della fede.
Il Concilio di Trento insegna, in effetti, le seguenti verità: che la confessione sacramentale di tutti i peccati gravi è necessaria per la salvezza (DH 1706-1707); che vivere in una seconda unione come marito e moglie mentre esiste il vincolo coniugale è un peccato grave di adulterio (DH 1807); che una condizione per dare l’assoluzione è la contrizione del penitente, che include il dolore per il peccato e il proposito di non peccare più (DH 1676; 1704); che al battezzato non è impossibile osservare i precetti divini (DH 1536,1568). Tutte queste affermazioni non richiedono solo un assenso religioso, ma devono essere credute con fede ferma, in quanto sono contenute nella rivelazione, o almeno accolte e ritenute fermamente in quanto sono proposte dalla Chiesa in modo definitivo. In altre parole, la scelta non è più tra due proposizioni del Magistero ordinario, ma è in gioco l’accettazione di elementi costitutivi della dottrina cattolica.
La testimonianza di Giovanni Paolo II, di Benedetto XVI e del Concilio di Trento viene in fondo ricondotta alla chiara testimonianza della Parola di Dio, che il Magistero serve. Su questa testimonianza si deve basare tutta la pastorale dei cattolici che vivono in seconde unioni dopo un divorzio civile, perché solo l’obbedienza alla volontà di Dio può servire alla salvezza delle persone. Gesù dice: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 10,11s). E la conseguenza è: “Né i fornicatori né gli adulteri […] erediteranno il regno di Dio” (1 Cor 6,10). Questo significa anche che questi divorziati non sono degni di ricevere la comunione prima di aver ricevuto l’assoluzione sacramentale, il che a sua volta richiede il pentimento dei propri peccati, insieme al proposito di emendarsi. Qui non c’è alcuna mancanza di misericordia, ma al contrario, in quanto la misericordia del Vangelo non consiste nel tollerare il peccato, ma nel rigenerare il cuore dei fedeli affinché vivano secondo la pienezza dell’amore che Cristo ha vissuto e ci ha insegnato a vivere.
Ne consegue che coloro che rifiutano l’interpretazione di “Amoris Laetitia” offerta dal testo di Buenos Aires e dalla “Risposta” non possono essere accusati di dissenso. Il loro problema non è quello di percepire un’opposizione tra ciò che essi comprendono e ciò che il Magistero insegna, ma di percepire un’opposizione tra due insegnamenti diversi dello stesso Magistero, uno dei quali è stato ormai affermato in modo definitivo. Sant’Ignazio di Loyola ci invita a ritenere che ciò che vediamo bianco è nero se la Chiesa gerarchica lo stabilisce così. Ma Sant’Ignazio non ci invita a credere, affidandoci al Magistero, che sia bianco ciò che il Magistero stesso ci ha detto prima, in modo definitivo, essere nero.
Inoltre, le difficoltà sollevate dal testo della “Risposta” non finiscono qui. Infatti, la “Risposta” va oltre quanto affermato in “Amoris Laetitia” e nel documento di Buenos Aires su due punti gravi.
Il primo punto tocca la questione: chi decide sulla possibilità di amministrare l’assoluzione sacramentale ai divorziati in seconda unione al termine del percorso di discernimento? Nel “dubium” che hai presentato alla DDF, caro fratello, proponi diverse alternative che ti sembrano possibili: potrebbe essere il parroco, il vicario episcopale, il penitenziere…. La soluzione data nella “Risposta” deve essere stata per te una vera sorpresa, che non saresti riuscito neppure a immaginare. Infatti, secondo il DDF, la decisione finale deve essere presa in coscienza da ogni fedele (n.5). Se ne deduce che il confessore si limita a obbedire a questa decisione di coscienza. Colpisce che si dica che la persona deve “mettersi davanti a Dio ed esporgli la propria coscienza, con le sue possibilità e i suoi limiti” (ibid.). Se la coscienza è la voce di Dio nell’uomo (“Gaudium et Spes” 36), non si comprende cosa voglia dire “mettere la propria coscienza davanti a Dio”. Sembra che qui la coscienza sia piuttosto il punto di vista privato di ogni individuo, che si colloca poi davanti a Dio.
Ma lasciamo da parte questo punto per concentrarci sulla sorprendente affermazione contenuta nel testo del DDF. Sono i fedeli stessi a decidere se ricevere o meno l’assoluzione, e il sacerdote deve solo accettare questa decisione! Se questo si applica in generale a tutti i peccati, allora il sacramento della Riconciliazione perde il suo significato cattolico. Non è più l’umile richiesta di perdono di chi si trova davanti a un giudice misericordioso, il quale riceve l’autorità di Cristo stesso; ma si tratta dell’assoluzione di se stessi dopo aver esplorato la propria vita. Questo non è lontano da una visione protestante del sacramento, condannata da Trento, quando insiste sul ruolo del sacerdote a modo di giudice nella confessione (cfr. DH 1685; 1704; 1709). Il Vangelo afferma, riferendosi al potere delle chiavi: “Tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,19). Ma il Vangelo non dice: “ciò che gli uomini decideranno in coscienza che tu devi sciogliere in terra, sarà sciolto in cielo”. È sorprendente che il DDF abbia potuto presentare al Santo Padre per la sua firma, nel corso di un’udienza, un testo con un tale errore teologico, compromettendo così l’autorità del Santo Padre.
La sorpresa è ancora più grande perché la “Risposta” cerca di appoggiarsi a Giovanni Paolo II per sostenere che la decisione spetta al singolo fedele, occultando che il testo citato di Giovanni Paolo II è direttamente opposto alla “Risposta”. Infatti, la “Risposta” cita “Ecclesia de Eucharistia” 37b, dove si dice, nel caso della ricezione dell’Eucaristia: “Il giudizio sullo stato di grazia, ovviamente, spetta soltanto all’interessato, trattandosi di una valutazione di coscienza”. Ma vediamo la frase che aggiunge in seguito Giovanni Paolo II, che la “Risposta” non riporta, e che risulta essere l’idea principale di questo paragrafo da “Ecclesia de Eucharistia”: “Nei casi però di un comportamento esterno gravemente, manifestamente e stabilmente contrario alla norma morale, la Chiesa, nella sua cura pastorale del buon ordine comunitario e per il rispetto del Sacramento, non può non sentirsi chiamata in causa. A questa situazione di manifesta indisposizione morale fa riferimento la norma del Codice di Diritto Canonico sulla non ammissione alla comunione eucaristica di quanti ostinatamente perseverano in peccato grave manifesto” (ibidem). Come si vede, il DDF ha selezionato la premessa del testo di San Giovanni Paolo II omettendo la conclusione principale, che si oppone alla tesi del DDF. Se il DDF vuole presentare un insegnamento contrario a quello di san Giovanni Paolo II, il minimo che può fare è non cercare di usare il nome e l’autorità del santo Pontefice. Sarebbe meglio riconoscere onestamente che, secondo il DDF, Giovanni Paolo II si è sbagliato in questo insegnamento del suo Magistero.
La seconda novità contenuta nella “Risposta” è che ogni diocesi è incoraggiata a produrre le proprie linee guida per questo processo di discernimento. Ne deriva una conclusione immediata: se le linee guida sono diverse, accadrà che dei divorziati potranno ricevere l’Eucaristia secondo le linee di una diocesi e non secondo quelle di un’altra. Ora, l’unità della Chiesa cattolica ha significato fin dai primi tempi l’unità nella ricezione dell’Eucaristia: poiché mangiamo lo stesso pane, siamo lo stesso corpo (cf. 1Cor 10,17). Se un fedele cattolico può ricevere la comunione in una diocesi, può riceverla in tutte le diocesi che sono in comunione con la Chiesa universale. Questa è l’unità della Chiesa, che si basa e si esprime nell’Eucaristia. Pertanto, il fatto che una persona possa ricevere la comunione in una Chiesa locale e non possa riceverla in un’altra è una definizione esatta di scisma. È impensabile che la “Risposta” del DDF voglia promuovere una cosa del genere, ma questi sarebbero gli effetti probabili di abbracciare il suo insegnamento.
Di fronte a tutte queste difficoltà nella “Risposta” del DDF, qual è la via d’uscita per coloro che vogliono rimanere fedeli alla dottrina cattolica? Ho già detto che il testo di Buenos Aires e quello della “Risposta” non sono precisi. Non dicono chiaramente ciò che intendono dire, e quindi lasciano aperte altre interpretazioni, per quanto improbabili. Questo lascia spazio a dubbi sulla loro interpretazione. D’altra parte, è insolito il modo in cui la “Risposta” registra l’approvazione del Santo Padre, con una semplice firma datata a piè di pagina. La formula abituale sarebbe stata: “il Santo Padre approva il testo e ne ordina (o permette) la pubblicazione”, ma nulla di tutto ciò appare in questo “Appunto” poco curato. Questo apre un dubbio ulteriore sull’autorità della “Risposta”.
Queste domande ci permettono di sollevare un nuovo “dubium”, secondo ciò che ho formulato in precedenza: esistono casi in cui, dopo un periodo di discernimento, è possibile dare l’assoluzione sacramentale a un battezzato che mantiene rapporti sessuali con una persona con cui convive in una seconda unione, se questo battezzato non vuole fare il proposito di non continuare ad avere questi rapporti?
Caro fratello, finché questo “dubium” non sarà risolto, l’autorità della “Risposta” ai tuoi “dubia” e della lettera di Buenos Aires rimane in sospeso, date le imprecisioni che tali testi contengono. Questo apre un piccolo spazio alla speranza che ci sia una “Risposta” negativa a questo “dubium”. In questo caso, a beneficiarne non sarebbero in primo luogo i fedeli, che in ogni caso non sarebbero obbligati ad accettare una “Risposta” positiva al “dubium” in quanto in contraddizione con la dottrina cattolica. Il principale beneficiario sarebbe l’autorità che risponde al “dubium”, che verrebbe preservata intatta, poiché non chiederebbe più ai fedeli l’assenso religioso dell’intelligenza e della volontà riguardo a verità contrarie alla dottrina cattolica.
Sperando che questa spiegazione chiarisca il significato della “Risposta” che hai ricevuto dal DDF, ti invio i miei saluti fraterni “in Domino Iesu”,
Card. Gerhard Ludwig Müller
Roma
Fonte: Settimo Cielo