La luce che non si spegne. A proposito di abolizione del Natale
di Rita Bettaglio
Con la bocca dei bimbi e dei lattanti affermi la tua potenza contro i tuoi avversari, per ridurre al silenzio nemici e ribelli
Sal 8,3
A Fiesole [Duc in altum ne ha parlato qui] vogliono cambiare nome al Natale, quasi bastasse questo per risolvere il problema. Se il problema è il Natale, non c’è altra soluzione che eliminarlo del tutto.
L’idea non è nuova. E non è neppure tanto difficile, visto che già ci era arrivato il Lungo, luogotenente di Peppone e custode integerrimo della Casa del Popolo.
Il Lungo, che aveva appena finito il corso di preparazione politica in città, disse: «Mettiamoci subito al lavoro incominciando lo smantellamento della roccaforte sentimentale dei preti».
Poi il Lungo spiegò il suo concetto: «La roccaforte sentimentale dei preti è il Natale. Quando viene il Natale tutti sono disposti a concedere qualcosa ai preti. Non occorre andare in chiesa: il semplice fatto di mangiare meglio del solito è una concessione che si fa ai preti, che hanno inventato il Natale. A Natale anche i più forti e i più duri cascano nella trappola del sentimento: il ragazzino che dice la poesia e mette la letterina sotto al piatto, il Presepe, le cartoline d’auguri, la neve, gli angioletti, l’organo della chiesa nella notte, i ricordi di fanciullezza, insomma è tutta una messa in scena che riesce a farci dimenticare la realtà a vantaggio della favola. Bisogna reagire e passare al contrattacco!».
Partì così, nella Bassa, l’opera di smantellamento del Natale.
Il Lungo era il custode della Casa del Popolo: abitava con la moglie e col figlio in tre stanzette del primo piano e la sua vita privata non poteva essere più trasparente per i frequentatori della Casa del Popolo.
Una brutta sorpresa aspettava il Lungo… Ma andiamo con ordine.
Inizialmente scettico, Peppone ci mise poco a entusiasmarsi: la sua parola d’ordine divenne democratizzare il Natale. Bisognava agire subito, cominciando da casa propria.
«Da quest’anno Natale non deve esistere più» disse Peppone e la moglie gli domandò se fosse ubriaco di vino o di liquori.
Peppone, da buon comunista, non intese ragione, non ascoltò le rimostranze della moglie e si buttò come un dannato nell’impresa di snatalizzazione.
Arrivò la sera della Vigilia e tutto era squallido a casa, come da ordinanza del capofamiglia: tovaglia macchiata, minestra feriale e frittata di cipolle.
«Alle otto tutti a letto» avvertì con voce dura Peppone.
Cena in silenzio e, poi… poi la trappola: sotto la fondina la letterina di Natale. Il ragazzino piccolo, quello di sette anni, aveva consumato il tradimento.
Peppone strinse i denti, inforcò il tabarro e uscì.
Arrivò a grandi falcate alla Casa del Popolo, e di lì partì per un giro ispettivo col Lungo, lo Smilzo e il Bigio, per verificare l’adesione al diktat nataleclastico.
L’ispezione continuò; Peppone, il Lungo, il Bigio e lo Smilzo dovettero andare a bussare ad altre dieci porte perché il primo esperimento di disintossicazione sentimentale era stato ristretto alla cerchia dei fedelissimi: e dappertutto trovarono case già buie o gente che leggiucchiava il giornale seduta davanti ai resti di una tristissima cena.
Quando fecero ritorno alla Casa del Popolo era quasi mezzanotte e la gente stava in chiesa per assistere alla Messa.
Ma una delle finestrelle del solaio della Casa del Popolo era illuminata. Tutti guardarono. La luce si spense e poi si riaccese per parecchie volte. I commissari del popolo, truci, salirono sin lassù.
Peppone, il Lungo e lo Smilzo rimasero in agguato trattenendo il respiro: poi, quando al vicino campanile incominciarono a battere i primi tocchi della mezzanotte, si infilarono dentro la porta del solaio e si addossarono al muro. Al dodicesimo rintocco la luce si accese e non si spense più.
Il ragazzino del Lungo stava muto, davanti a una minuscola capanna sistemata su una cassa, a contemplare il presepio.
Peppone si chinò a guardare il Presepino: «Nessuno» spiegò. «Sono statuine di terra cruda pitturata. Se le è fatte da solo. E sono anche belle parecchio. Mica stupido il ragazzino.»
Il Lungo, con una sberla le mandò a sbriciolarsi contro il muro, ma la lampadina rimase accesa nella capannuccia.
La gente usciva dalla chiesa e riempiva di allegre voci la piazza: Peppone si riscosse dallo stupore nel quale il gesto del Lungo l’aveva fatto piombare e raggiunse in fretta la porta, seguito dallo Smilzo, mentre il Lungo rimaneva là a guardare con occhi attoniti quella luce che non si spegneva.
Peppone rientrò a casa, ma non c’era verso di dormire in quella notte santa che si era tanto industriato di cancellare. Dopo un breve sonno agitato, scese in cucina per farsi scaldare un po’ di latte. La tavola era ancora messa e la fondina sporca di minestra stava dove l’aveva lasciata la sera prima. Era ancora buio e Peppone la sollevò per vedere se sotto ci fosse la lettera del piccolino. Ma non c’era più niente.
Un sordo tormento interiore prese Peppone che cercò d’ignorarlo finché poté. Andò anche alla Casa del Popolo per lavorare e continuare a incaponirsi nella sua infelice idea di cancellare il Natale.
Ma non vi riuscì. Arrivato davanti a casa chiamò la moglie: «Vedi di arrangiarti di preparare tutto come se fosse un Natale normale».»
Volatilizzata la letterina della vigilia, Peppone, che aveva fatto pace con se stesso e le bislacche idee del Lungo, sperava nella poesia. Ma il piccolino si rifiutò tenacemente. Adesso non contava più: il Bambino era nato e la poesia parlava del Bambino che deve nascere nella notte.
Nel pomeriggio Peppone portò a spasso il piccolino e, quando furono lontani dal paese, fece l’ultimo tentativo:
«Adesso che siamo soli, me la dici la poesia?».
«No», rispose il piccolino.
«Qui nessuno ti sente!».
«Ma il Bambino Gesù lo sa», sussurrò il piccolino.
Questa era la più bella poesia che il piccolino potesse dire, e Peppone lo capì.
Quindi, signori di Fiesole e consimili: arrendetevi!
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I brani sono tratti da: Giovannino Guareschi, La luce che non si spegne, in Chico e altri racconti