di Marco Radaelli
Tommaso d’Aquino sostiene che la felicità terrena, quella accessibile all’uomo qui, su questa terra, consiste nella realizzazione della propria natura. Ma se questo è vero, e lo è, oso affermare che la scuola ha a che fare con la felicità. Sembra un’esagerazione, soprattutto oggi che si tende a percepire la scuola come un fastidio o, al massimo, come un contenitore di sperimentazioni socio-psico-pedagogiche alle quali sottoporre alunni e professori come fossero cavie da laboratorio. In realtà è la chiave di volta per comprendere tutta l’importanza della questione educativa: se la scuola, tramite l’insegnamento, ha il compito di aiutare gli studenti alla scoperta e alla maturazione di quel che portano in sé, cioè della propria natura, allora ha a che fare con la loro felicità.
Per rispondere alla domanda sulla felicità, abbiamo una sola strada percorribile: capire quale sia la nostra natura. Chi siamo? Di quale stoffa siamo fatti? Che cosa vuol dire vivere alla nostra altezza, cioè vivere da uomini? E dunque: in cosa consiste questa felicità possibile? Che cosa vuol dire, per noi, in questo mondo, essere felici?
Per descrivere la natura di ciascuno i medievali utilizzavano la parola trascendentali, indicando con questo termine quelle qualità che trascendono l’essere specifico di ciascuno e che pertanto appartengono a tutti. Ognuno nasce diverso, con qualità proprie, con semi propri potremmo dire, con specificità che ci differenziano l’uno dall’altro. Ma i trascendentali li possediamo tutti perché sono le componenti costitutive di ogni essere. Le dimensioni, diciamo così, senza le quali nemmeno esisteremmo. Dio ci ha creati così: se esistiamo, le abbiamo. I trascendentali sono pertanto quelle realtà radicate nel profondo che ci rivelano la stoffa di cui siamo fatti. Se la felicità terrena consiste nella realizzazione della propria natura, allora essa consiste nella realizzazione di queste dimensioni umane. San Tommaso l’ha intesa come felicità “solamente” terrena, identificando la felicità vera, quella piena, con la visione di Dio. Ma è già felicità, non è un po’ meno. Quando l’uomo realizza in questa vita le sue tre dimensioni, è già dentro la felicità. E queste dimensioni sono essenzialmente tre: vero, buono, bello.
Ognuno di noi è innanzitutto vero, cioè è venuto al mondo per corrispondere al progetto per il quale è stato creato, proprio perché c’era bisogno di lui e di nessun altro al suo posto. Che meraviglia: ognuno di noi è necessario. Dio ha voluto esattamente noi, e nessun altro al posto nostro, perché ha ritenuto che solamente noi, portando a frutto quello che siamo, possiamo contribuire per quel che possiamo a realizzare il suo progetto, cioè a rendere un po’ migliore il mondo. Ognuno di noi è unico e insostituibile, ed è prezioso agli occhi di Dio. Tutto sta nel capire come potremo fare questo, ovvero nella scoperta delle nostre qualità e nella loro fioritura.
Ma se le cose stanno così, ognuno di noi è anche buono, perché frutto di una Volontà Buona, che lo ha desiderato e creato. Sant’Agostino lo dice magnificamente nelle Confessioni: ognuno di noi, se esiste, è un bene; se non fosse un bene, nemmeno esisterebbe.
Discendendo infine da un atto creativo di Dio, sommo artista, ognuno di noi è “per forza” bello, innanzitutto ai suoi occhi. Ritenendoci necessari per la realizzazione del suo progetto sul mondo e sulla storia, tanto da volere noi e soltanto noi in questo luogo, in questo tempo, così come siamo, siamo certamente anche bellissimi perché artista perfetto può compiere solamente capolavori.
Noi siamo veri, buoni e belli. E non lo siamo perché qualcuno ce lo dice o perché ci vengono riconosciute questa qualità. Lo siamo e basta, è la nostra natura. Certo, possiamo essere più o meno veri, buoni e belli a seconda delle nostre decisioni e della nostra capacità di far fiorire la nostra natura. Ma siamo costitutivamente e potenzialmente veri, belli e buoni per nascita. Ognuno di noi lo è. Quanta stima dovremmo avere di noi, e quanta fiducia nelle nostre potenzialità!
Siamo veri, e dunque portiamo in noi l’esigenza di conoscere la verità. Siamo buoni, e dunque siamo attratti dal bene e abbiamo l’esigenza di poterlo compiere. Siamo belli, e dunque è naturale in noi l’esigenza di vedere realizzata la bellezza ovunque, intorno a noi. Siamo fatti per conoscere il vero; siamo fatti per praticare il bene; siamo fatti per costruire il bello. Conoscere la verità, praticare il bene, amare e costruire la bellezza: questo è ciò che portiamo inciso nella nostra natura, questo è ciò che siamo chiamati a realizzare per vivere da uomini e iniziare ad entrare nella felicità.
La felicità è però allora anche una responsabilità personale. Essa infatti non ci è già data. Ci è data però la possibilità di realizzarla. Il seme può certamente diventare albero, ma solo se debitamente curato e innaffiato. Così è per noi: possiamo certamente raggiungere la felicità su questa terra, ma solo, per così dire, innaffiando noi stessi, scoprendo e facendo fiorire quello che siamo e che è inciso nella nostra natura, diventando così sempre più veri, sempre più buoni, sempre più belli. Cioè sempre più noi stessi.
Davvero, allora, la scuola c’entra con la felicità. Tramite un lavoro serio sulle discipline, facendo bene quel che c’è da fare tutti i giorni, con serietà, gli studenti possono giungere a scoprire un po’ di più la loro natura. E allora anche l’allenamento, la fatica, il sacrificio a cui sono chiamati acquista il suo vero valore. L’educazione può aiutare i ragazzi alla scoperta delle proprie qualità, che sono le armi uniche di cui ciascuno è dotato, i talenti che ognuno possiede per realizzare a suo modo, secondo la propria specie, quello a cui tutti sono chiamati, ossia la realizzazione e la pienezza. Sviluppare le proprie qualità e i propri semi è la strada che ciascuno è chiamato a percorrere per diventare sempre più se stesso, cioè sempre più vero, sempre più buono, sempre più bello. Se la scuola non guarda a questo, se non cerca di raggiungere questo con tutte le sue forze, non vedo davvero per quale motivo dovrebbe esistere ancora. Ma il punto forse è proprio questo: la scuola – e chi dovrebbe guidarla – è consapevole del motivo per cui lei stessa esiste?