di monsignor Héctor Aguer*
La Chiesa della Propaganda [così il sacerdote argentino Julio Meinville (1905-1973) definiva la Chiesa che insegue il politicamente corretto, N.d.T.] continua a insistere ossessivamente sulla questione dell’inclusione. Nel suo discorso di apertura della recente sessione del sinodo, il sommo pontefice ha auspicato che “una volta effettuate le necessarie riparazioni la Chiesa torni a essere un luogo di accoglienza per tutti, tutti, tutti”. Questa incredibile dichiarazione è un insulto implicito nei confronti dell’opera dei predecessori e squalifica l’intera storia della katholiké, universale per sua natura. Infatti, il comando di Cristo agli apostoli fu di fare discepoli panta ta ethnē, tutti i popoli, e questa totalità non ha mai escluso nessuno. È il non credere che esclude, ed è il nemico che impedisce l’evangelizzazione. Ma ora Roma fa proprio un criterio sociologico, o di psicologia sociale, sviluppato dal mondo per l’imposizione dei “nuovi diritti”. E così l’argomento del giorno è l’inclusione delle persone transessuali.
Ora, chi è una persona trans? Fondamentalmente, direi, è un omosessuale che ha cercato di cambiare sesso con interventi chirurgici e assunzione di ormoni: un tentativo di cambiare la propria identità. Ma chi si comporta così mostra disprezzo per la biologia come realtà integrale della personalità. E sul piano teologico esprime una ribellione al piano di Dio, in base al quale siamo maschi o femmine. Basti ricordare il passo biblico: “Dio disse: facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza. E maschio e femmina li creò” (Gen 1, 26-27).
Giovanni Paolo II ha splendidamente insegnato che l’essere a immagine e somiglianza di Dio risiede nella diversità dei sessi e nel rapporto fra l’uno e l’altro. Questo rapporto è un valore originario: “Allora il Signore Dio disse: non è bene che l’uomo sia solo. Gli farò un aiuto (un complemento)” (Gen 2,18). E la Bibbia prosegue: “Con la costola che aveva tolto all’uomo, il Signore Dio formò una donna e la presentò all’uomo. L’uomo esclamò: questa è osso delle mie ossa e carne della mia carne! Si chiamerà donna (isha), perché è stata tratta dall’uomo (ish)” (Gen 2,22-23).
Il rapporto reciproco fonda una realtà istituzionale. “Perciò l’uomo lascia suo padre e sua madre e si unisce a sua moglie, e i due diventano una sola carne” (Gen 2,24). Non a caso la scena dell’incontro e l’esclamazione di felicità dell’uomo compaiono nelle rappresentazioni artistiche, ad esempio nei mosaici, che servivano da catechesi per la gente semplice: l’uomo allarga le braccia in segno di accoglienza e di gioia. Tutti elementi, testi e immagini, alla base della cultura cristiana.
La mania inclusiva ispira ora il Dicastero incaricato della dottrina della fede, attento alle voci del mondo, più forti di quelle della Bibbia. La questione posta di recente è la possibile ammissione delle persone trans al sacramento del battesimo, il sacramento che, come sappiamo, costituisce la porta dell’essere cristiani.
Il criterio per affrontare la questione deve essere teologico. Vale quindi la pena ricordare che, secondo la tradizione, l’accesso al battesimo – e non stiamo parlando di bambini – è legato a un processo di conversione, che si concretizza nella decisione di cambiare la propria vita per adottare la forma cristiana. La grazia del sacramento richiede l’esercizio della libertà e la corona con il dono di Dio.
Penso che l’inclusione di una persona trans abbia gli stessi requisiti di quella di un omosessuale. È vero che il primo non può rimediare al danno che ha fatto alla sua identità biologica, ma la sede della conversione è la volontà. Potrebbe dunque decidere di accettare lo stile di vita cristiano che, tra le virtù che lo costituiscono, include la castità. È un cambiamento fondamentale: non voler vivere esercitando la pseudo-identità a cui si è aderito attraverso una decisione sbagliata. Sembra difficile, ma lo richiede la Verità.
Mentre le cosiddette questioni di genere sono al centro dell’attenzione nell’attuale cultura dominante nel mondo, la Chiesa deve pronunciarsi contro il disconoscimento della nozione metafisica di natura e ribadire che il “cambio di sesso” è un comportamento perverso. Su questa base la persona transessuale si esclude da sé perché non soddisfa le condizioni richieste dal dono del battesimo. Il caso è parallelo a quello delle persone omosessuali. La pressione della cultura mondana prende il sopravvento, come accade ad esempio nella Chiesa tedesca e in quella olandese.
Il Catechismo della Chiesa cattolica affronta in modo sintetico e intellettualmente decisivo la questione degli omosessuali ai numeri 2357-2359, nella sezione sul sesto comandamento del Decalogo, dedicata a “castità e omosessualità”. Lì nota che l’origine psicologica di questa depravazione rimane in gran parte inspiegabile. Allo stesso modo, non è facile comprendere il processo che porta una persona al suo tentativo di “cambiare sesso”. In ogni caso la testimonianza della Sacra Scrittura non lascia spazio a dubbi: in mancanza di conversione, queste persone non erediteranno il Regno di Dio (1 Cor 6,10). In questo passo, come in 1 Tim 1, 10, si fa riferimento al caso dei maschi (arsenes) che abbandonano l’ordine naturale: sono chiamati arsenokoitais, cioè maschi che hanno rapporti sessuali con maschi, e in Rm 1,24-27 si dice che disonorano il proprio corpo. Nell’Antico Testamento spicca il giudizio contro Sodoma (Gen 19, 1-29), per cui gli omosessuali sono chiamati anche sodomiti. È una disgrazia, certo, ma non va confusa con la fatalità. Il Catechismo sottolinea che si tratta di una tendenza oggettivamente disordinata. Tali persone vanno trattate con compassione e dolcezza, ma sono chiamate a fare la volontà di Dio nella loro vita. Ecco la base della loro inclusione: sono chiamati alla castità, a educare la libertà interiore e con l’aiuto della Grazia possono avvicinarsi alla perfezione cristiana. La tendenza oggettiva è una cosa, l’esercizio è un’altra.
Oggi si parla di “orgoglio gay”, di esercizio della perversione come ideale di vita. La propaganda pubblica, spesso travolgente, in alcune società impone di cambiare il giudizio della maggioranza della popolazione. Il caso dei transgender e del “cambio di sesso” sta diventando accettato come normalità, quindi se anche l’ufficialità ecclesiastica propone questo ideale c’è un effetto pernicioso sul clima culturale.
L’insegnamento della Chiesa si concentra sull’autentica umanità della persona. A questo proposito si possono citare la dichiarazione Persona humana della Congregazione per la dottrina della fede (dicembre 1975) e il magistero di Giovanni Paolo II, ma oggi l’aria è cambiata: quella sacra congregazione è stata trasformata in un dicastero che deve dedicarsi alla promozione della cattiva teologia astenendosi dal condannare qualcuno. Siamo all’inclusione dell’errore, dell’ambiguità e della confusione contro la grande e unanime tradizione della Chiesa.
C’è una pressione mondiale per legittimare i “nuovi diritti” nelle legislazioni nazionali. Il ruolo della Chiesa è fondamentale per educare le persone a resistere a queste imposizioni, che sono contrarie alla legge e alla libertà. L’Agenda 2030 rappresenta un serio pericolo di diffusione globale di una nuova immagine dell’uomo. Sarebbe sciocco lasciarla passare senza una critica chiara e, peggio ancora, adottarla, anche solo parzialmente. La situazione presenta inquietanti analogie con quella dei fedeli nell’impero romano dei primi tre secoli. La testimonianza (martýria) rischia di essere messa all’angolo e sottilmente perseguitata, come è già successo nel XX secolo nei Paesi dominati dall’impero comunista. Ma in un certo senso ciò che sta per arrivare è peggio.
È logico che i fedeli cattolici guardino a Roma, sperando che dalla Sede di Pietro arrivi la luce della Verità. Una speranza vana?
*arcivescovo emerito di La Plata