Fra Cristoforo e la conversione. Una storia che parla anche a noi

di Paolo Gulisano

Nel corso di quest’anno, 150° anniversario della morte di Alessandro Manzoni, in cui si sono tenuti e si stanno ancora svolgendo convegni e celebrazioni di prammatica, è uscito un piccolo ma prezioso saggio del giornalista e saggista Mauro Faverzani, dedicato alla figura di Fra Cristoforo, uno dei più significativi personaggi dei Promessi sposi.

Padre Cristoforo da Cremona (Editrice Velar 2023, 48 pagine, 8 euro), è una breve monografia, e allo stesso tempo una riflessione sul tema della conversione presente nel romanzo di Manzoni in diversi momenti e in diverse figure. Certamente quella che più ha avuto modo di attrarre l’attenzione del pubblico e della critica è stata l’Innominato, tragica, potente, narrata con toni lirici e commoventi. Tuttavia, l’intero romanzo – come ben sottolinea Mauro Faverzani – è animato da una continua ricerca di conversione, anche in chi è già credente, a differenza dell’empio Innominato. Conversione significa cambiamento di mentalità, da cui deriva un cambiamento di vita, e questo è mostrato in maniera toccante dal personaggio di Fra Cristoforo.

Il cremonese Faverzani si mette sulle tracce del personaggio realmente esistito che ispirò Manzoni, ovvero Lodovico de’ Picenardi, membro di una potente famiglia cremonese. Una famiglia protagonista di una faida infinita e sanguinosa, nel corso del XVI secolo, con un’altra nobile progenie cremonese, quella dei Marchesi Aliberti.

Picenardi e Aliberti si erano più volte affrontati, con i loro scherani, a colpi di spade e fucili. Lodovico fu protagonista di un episodio che Manzoni, attento lettore di antiche cronache, riportò nel romanzo. Il Picenardi, dopo aver compiuto un omicidio, sulla spinta della rabbia, dell’orgoglio e di un carattere fumantino, si rende conto dell’enormità di ciò che ha compiuto: togliere la vita a un essere umano, a una creatura di Dio. Da questa consapevolezza nasce un profondo pentimento, e il desiderio di riparare al male commesso con una vita di compunzione e riparazione.

Il saggio di Faverzani intreccia mirabilmente le due vite, quella reale di Lodovico, che diventa frate cappuccino col nome di Cristoforo da Cremona, e il personaggio manzoniano a lui ispirato.

La scelta di entrare nell’ordine dei Cappuccini, ramo della famiglia francescana, era stata motivata dalla volontà di percorrere un cammino di purificazione, di ascesi, di riparazione, in un ordine che era caratterizzato, un tempo, da una intensissima vita spirituale, fatta di preghiera e carità. Una via per anime forti e intensamente attratte da Dio.

Padre Cristoforo aveva conservato una delle caratteristiche del proprio antico carattere: la fermezza e la determinazione con la quale affrontava il male. Quando affronta l’arrogante e prepotente don Rodrigo, non esita a ricordargli l’esistenza della giustizia di Dio: “Verrà un giorno…”. Non è una minaccia, non è una profezia, è un atto della carità suprema che chiede ai peccatori di ravvedersi, di pentirsi, di evitare la dannazione dell’anima. Il Picenardi lo aveva imparato molto bene, e con dolore. Nell’ammonizione del frate cappuccino c’è il desiderio di difendere Dio, fin troppo offeso dall’arroganza degli uomini, dalla loro pretesa di sentirsi onnipotenti, e superiori a Dio. Una bestemmia che il frate un tempo spadaccino non può tollerare.

Da qui la straordinaria attualità di questo personaggio, a nostro avviso il meglio riuscito del romanzo di don Lisander, la figura che si staglia più bella, e la più efficace testimonianza di fede dell’opera: quanto è perseguitato oggi Dio, quanto è offeso, quanto è negato, deriso? Al contrario, fin dal proprio nome, Cristoforo, il frate cremonese è portatore di Cristo, testimone del suo amore, e fino alla fine del romanzo non si stanca di richiamare il suo amore, e la necessità di chiedere e offrire perdono. Il suo è un esempio che ci mostra la potenza della autentica misericordia cristiana, fatta soprattutto di purificazione delle colpe, non di facili colpi di spugna.

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