Dagli archivi dei francescani di Gerusalemme la testimonianza di un anonimo pellegrino italiano. Il racconto di un Natale a Betlemme quasi settant’anni fa.
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Non so se per innato ottimismo o altro, ho sempre ritenuto di essere un «fortunato» nella vita. Se dovessi raccontarvi tutti i casi di «drammi a lieto fine» occorsimi, non la finirei più. Ma quella volta pensai davvero che la fortuna mi avesse sdegnosamente voltato le spalle. E fu in occasione dell’ultimo Natale, che, dopotutto, fu il più bello che abbia passato in vita mia. Ma sapete dove? A Betlemme.
Era la vigilia della festa. Un seguito di contrattempi, causati dalla attuale critica situazione della Palestina, non aveva permesso, a noi pellegrini provenienti dall’Italia, di passare prima di mezzogiorno la linea di confine tra arabi ed ebrei. Ciò equivaleva praticamente ad impedirci di assistere alla fantasiosa funzione del solenne ingresso del Patriarca di Gerusalemme nella cittadina di Betlemme. A Betlemme, infatti, la solennità natalizia incomincia nel pomeriggio della vigilia con tale cerimonia, e chi vi ha assistito assicura di non aver mai visto funzione più suggestiva per la maestosità e per la caratteristica cornice coreografica orientale.
Ma i guai non vengono mai isolati. Sbrigate le noiose formalità di lunghi controlli — degli ebrei prima, degli arabi poi, accampati in casematte distanti sì e no un cento metri — si entra finalmente in Gerusalemme, tirando un sospiro di sollievo, «come quei» ch’esce «fuor dal pelago alla riva». Dopo qualche oretta di ristoro nella accogliente «Casa-Nova», un bel pullman aspetta i pellegrini per condurli a Betlemme. Indugio un momento per cercare un padre missionario che vuole venire con noi, e il pullman parte, lasciandomi a terra. Disdetta! Mi andranno tutte male questa volta?
Ma il buon padre sorride e mi invita a seguirlo fino alla Porta di Damasco, ove ci sono gli autobus di linea. E li tra un formicolio di gente malvestita che urla in arabo, vi sono quattro o cinque autobus stracarichi, su uno dei quali in qualche modo riusciamo a salire.
– Dove va tutta questa gente?
– Betlemme, mi risponde il padre missionario.
– E dove alloggerà questa notte?
Un arabo, volgendosi sorridente a me: «Allah karim». Guardo il padre, con occhi interrogativi. E il buon padre mi assicura che questo arabo aveva risposto a me, dicendomi: «Dio provvede». Imparo così una frase araba, l’unica che ancora ricordi.
Viaggio fantastico, anche se fatto su un traballante autobus antidiluviano. Betlemme dista circa otto chilometri da Gerusalemme, ma la strada attuale, snodandosi tra vallette e falsipiani, ne conta più di sedici. Ciò perché il confine ebraico s’incunea nella vecchia via, tagliando il passaggio e costringendo a un giro vizioso.
Il padre mi spiega che quella è la strada che i Re Magi, guidati da una stella, avevano percorso venti secoli addietro, dopo che il re Erode aveva detto loro che il Messia doveva essere nato a Betlemme. Poco dopo, la mia guida mi indica la tomba di Rachele, madre inconsolata che raffigura tutte le madri di Betlemme piangenti sui loro figli innocenti massacrati da un re geloso e sanguinario.
Intanto, a distanza, appare la cittadina di David adagiata dolcemente su una verde collina; indorata dall’ultimo raggio di sole, sembra messasi a festa. I campi che attraversiamo sono fiorenti e fecondi. E il padre mi spiega che etimologicamente Beit Leḥem significa «Casa del pane», perché i suoi campi avevano sempre fornito abbondantemente il «re della mensa»; ma anticamente Betlemme era chiamata Efrata, ossia «la fruttifera» per l’abbondanza dei suoi frutteti.
A un tratto la strada s’impenna, il motore rulla faticosamente, entriamo nella vaga cittadina. Le case non sono diverse da quelle di altri centri arabi, ma nei riflessi della luce crepuscolare sembrano aver rimesso a nuovo il loro candore per intonarsi alla festa. La piazza è gremita di gente festante e chiassosa. Qualche attimo per gustarmi con uno sguardo d’assieme tutto il paesaggio e poi entro nella vasta e sontuosa basilica costantiniana. Ma non è qui che si provano le emozioni maggiori. È quando si scende per una dozzina di rustici scalini e si arriva a una semi-oscura grotta, un’autentica caverna al di sotto del livello stradale attuale, dove Gesù volle nascere. Ci si trova dinanzi all’altare della Natività, ove è incastonata una stella d’argento, su cui spicca l’iscrizione latina Hic de Virgine Maria Jesus Christus natus est.
«Qui è nato!». Le ginocchia si piegano, il cuore batte forte, un’onda di dolcezza invade l’anima. Bacio la lucente stella e resto in ginocchio, non so quanto, come preso da un’estasi ineffabile e mi pare di udire il canto degli Angeli: Gloria in excelsis Deo! No, non sono gli Angeli, sono le campane di Betlemme che chiamano i fedeli alle funzioni che culmineranno nella Messa di mezzanotte.
Dirvi dello splendore del solenne pontificale alla presenza delle autorità diplomatiche e consolari? Parlarvi della dolcezza dei canti liturgici, che emularono quelli angelici di una notte lontana venti secoli? Narrarvi lo svolgimento della processione alla Santa Grotta, per deporvi il Bambino Gesù? Descrivervi la bellezza del Bambinello, con le manine giunte, gli occhi che incantano, con le labbra dischiuse in un sorriso affascinante? Retorica, retorica!
Ciò che si prova a Betlemme in una notte di Natale è impossibile a dirsi. Se non lo credete… provate!
Tratto da: Almanacco della Terra Santa 1955, Tipografia dei Padri Francescani, Gerusalemme
Fonte: centrostudifederici.org