di Rita Bettaglio
Mistero grande d’iniquità la strage degli innocenti. La furia di Erode, l’invidia, il timore di perdere il potere, la rabbia belluina di chi vuole distruggere chiunque possa rappresentare una minaccia.
Effudérunt sánguinem eórum tamquam aquam in circúitu Ierúsalem: et non erat qui sepelíret (Sal 78).
Il loro sangue scorreva come acqua intorno a Gerusalemme e nessuno ne seppelliva i resti. Estremo oltraggio, oltre la morte: nessuno si chinava pietoso sui cadaveri, nessuno li componeva cercando in qualche modo di riparare alla morte ingiusta.
Quanti Erodi ci sono ai nostri giorni? Quanti nella nostra anima? Quante volte anche noi siamo preda di istinti cattivi, omicidi magari non nella carne ma nello spirito.
San Paolo mette in guardia i Galati (e anche noi) dal seguire i desideri disordinati della carne ed esorta, invece, a camminare secondo lo Spirito, quello Santo, non quello del mondo.
Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio (Gal 5, 19-21).
Quanti, nella Sposa stessa di Cristo, nel Suo Corpo mistico, si abbandonano a tali condotte… Quanti battezzati e pastori, quanti spargono ogni giorno ancora il sangue di Cristo e il sangue degli innocenti… et non erat qui sepelíret.
Tuona il profeta Isaia, che ci ha accompagnato durante l’Avvento:
Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro (Is 5,20).
Guai a loro perché saranno ritenuti responsabili dei loro peccati e anche di quelli di chi avranno indotto a peccare.
Meglio una macina al collo… o, come diceva mia nonna, che aveva fatto la terza elementare, “meglio venir rossi prima che verdi dopo”.
La correzione, quindi, è una grazia concessa da Dio. Avessero tutti i peccatori un san Giovanni Battista che levasse alta la voce: Non ti è lecito tenere con te la moglie di tuo fratello (Mc 6,18).
Meglio pagare in questa vita, che nella prossima. I nostri nonni lo sapevano bene ed accettavano (soffrendo, certo, perché non è castigo quello che non fa soffrire) di fare penitenza.
Tra gli Erodi spesso ci siamo anche noi, pur se non compiamo evidenti delitti. Ci siamo anche noi quando ci riempiamo di zelo amaro, quello zelus amaritudinis malus qui separat a Deo et ducit ad infernum. È uno zelo pieno di amarezza e che conduce all’inferno, come dice san Benedetto nel penultimo capitolo della sua Regola. Chi di noi, nelle più diverse condizioni di vita, può dire di non averlo provato, di non esserne spesso lambito e sedotto? È quella vocina che ci fa vedere tutto nero, che ci spinge al sospetto, alla mancanza di fiducia, che ci riempie di bile e ci rende continuamente subitterici.
A questo il Santo di Norcia contrappone lo zelo buono, qui separat a vitia et ducit ad Deum et ad vitam aeternam, che ci allontana dai vizi e ci conduce a Dio e alla vita eterna.
I monaci, dunque, ma anche ognuno di noi, si prevengano l’un l’altro nel rendersi onore e gareggino nell’obbedirsi scambievolmente;
Non antepongano assolutamente nulla a Cristo, che ci conduca tutti insieme alla vita eterna. Tutti insieme, don Camillo e Peppone: nella verità, però, e non in una caricatura dell’amore che fa scivolare come la lisciva sul pavimento.
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Il Cristo rimase muto e, in questi casi, a don Camillo veniva la febbre quartana e si metteva a pane e acqua per giorni e giorni fino a quando, impietosito, il Cristo non gli diceva: “Basta”. Quella volta, prima che il Cristo gli dicesse “Basta”, don Camillo stette a pane ed acqua per sette giorni e, proprio la sera del settimo, quando oramai per rimanere in piedi doveva appoggiarsi ai muri e la fame gli urlava nello stomaco, Peppone venne a confessarsi (…) “Povero don Camillo” sussurrò il Cristo commosso (…). “Ora vatti pure a mangiare la tua lepre che Peppone ti ha portata bell’e cucinata in canonica”.
Allora potremmo cantare l’alleluja della festa dei Santi Innocenti:
Anima nostra, sicut passer, erépta est de láqueo venántium.
Láqueus contrítus est, et nos liberáti sumus: adiutórium nostrum in nómine Dómini, qui fecit cœlum et terram.
L’anima nostra come passero è sfuggita al laccio del cacciatore. Il laccio si è spezzato, e noi siamo stati liberati. II nostro aiuto è nel nome del Signore, Egli ha fatto cielo e terra.