di Gaetano Masciullo
All’indomani di Fiducia supplicans tantissimi sono i cattolici amareggiati e perplessi: com’è possibile che la Chiesa sia arrivata a tanto? Come è possibile che un Papa, nella figura di Jorge M. Bergoglio (Francesco), possa inserire nel proprio magistero ordinario tesi che sanno di vere e proprie eresie? Non è ormai la prima volta che accade.
Ricordiamo nell’ordine:
- In Amoris laetitia 301: “Non è più possibile dire che tutti coloro che si trovano in situazione irregolare siano in stato di peccato mortale, privi della grazia santificante”. Questa tesi è indubbiamente eretica. L’ammissione poi della possibilità di dare la Comunione ai divorziati risposati – implicitamente suggerita nel documento, poi esplicitamente confermata dallo stesso Francesco nel luglio 2023, mediante il Dicastero per la dottrina della fede, in risposta a un dubbio del cardinal Duka ed ancor prima con la lettera di risposta ai vescovi della regione ecclesiastica di Buenos Aires, presentata, mediante un rescritto della Segreteria di Stato, come “magistero autentico” – mette in crisi, se accolta, non solo la dottrina cattolica di sempre sul Matrimonio, ma anche quella sull’Eucarestia e sulla Confessione.
- In Evangelii gaudium: “L’Eucarestia […] non è un premio per i perfetti, ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli”. Frase ambigua, che può essere interpretata in senso ereticale, secondo il quale sia possibile per il singolo comunicarsi in stato di peccato grave.
- Nel Documento sulla fratellanza universale (nome quanto mai massonico): “Il pluralismo e le diversità di religione […] sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano”. Qui, con grande maestria modernista, Francesco fa derivare una conclusione giusta (l’impossibilità morale di imporre la religione a chicchessia) da una premessa eretica: “tutte le religioni sono volute da Dio”.
- Nel 2019 viene permesso un rito pagano in Vaticano alla dea amerindia pachamama (letteralmente: “Madre spazio-tempo”, una rappresentazione panteistica della divinità). Un atto che sembra dunque assecondare una visione immanente di Dio, che è una visione ovviamente eretica.
- Per ultimo (non certo per gravità), con Fiducia supplicans si dichiara che la relazione omosessuale, così come qualunque altra relazione affettiva “irregolare”, (ricordiamo che una relazione è cosa ontologicamente distinta dagli individui coinvolti nella relazione stessa) può avere in se stessa “qualcosa di vero, buono e umanamente valido”, contraddicendo pertanto l’insegnamento perenne della Chiesa, secondo il quale le relazioni omosessuali sono intrinsecamente disordinate, e quindi cattive. Sorvoliamo poi sulla teologia dei sacramentali, che in questo documento appare stravolta per una serie di ragioni.
Che cosa fare? Cosa aspettarsi dalla gerarchia? Cosa può fare la gerarchia di fronte a questi pronunciamenti? Ma, ancora prima, ci poniamo la domanda: un papa può sbagliare? Può egli arrivare a proferire eresie? Perché se la risposta è negativa, allora diviene evidente e lampante che Francesco non è papa, e resta tuttavia da appurare se non è papa perché eretico oppure, cosa non da escludere, se sia eretico perché non è papa (in altre parole, se la sua elezione sia stata invalida e i suoi pronunciamenti in odore di eresia ed erronei fossero solo una manifestazione pubblica del suo statuto canonico di antipapa, che lo priva dell’assistenza divina dello Spirito Santo, ma di questo parleremo più avanti).
Ora, secondo quanto insegnatoci dal Concilio Vaticano I circa l’infallibilità pontificia, bisogna rigettare due errori opposti: il conciliarismo e l’iper-papalismo (da taluni chiamato anche papolatria). Secondo il primo errore, che è stato esplicitamente condannato come eresia, il papa sarebbe infallibile solo quando parli in unione con tutti i vescovi. Secondo l’errore opposto, invece, il papa sarebbe infallibile ogni qualvolta esprima un giudizio.
La Costituzione dogmatica Pastor aeternus ha invece insegnato che l’infallibilità pontificia risponde a quattro condizioni: (1) Quanto al soggetto. Il Papa parla qua Papa: cioè può darsi che il Papa parli come dottore privato, e in quel caso è fallibile come ogni dottore privato nella Chiesa: è importante avere sempre a mente che nella persona del Pontefice convivono due figure, quella dell’uomo e quella del Papa; (2) quanto all’oggetto. Il Papa parla esclusivamente di fede e/o morale; (3) quanto all’atto. Il Papa definisce in maniera inequivocabile, vincolante e universale le verità da credere e/o condanna allo stesso modo le falsità da rigettare; (4) quanto all’intenzione. Non è richiesta al Papa né la buona fede né l’ortodossia in foro interno al momento della definizione, e questo è molto importante: la Chiesa insegna che le definizioni pontificie non possono essere eretiche; non insegna invece che i singoli papi non possano essere eretici, sicché, nella malaugurata probabilità che vi sia un papa “occultamente eretico”, lo Spirito Santo garantirebbe che egli mai si pronunci ex cathedra (cioè secondo le prime tre condizioni) secondo le sue personali ed erronee convinzioni o che possa abitualmente insegnare eresie.
Oggi si fa tanto scalpore (giustamente) per Fiducia supplicans, dimenticando però che il problema teologico (e canonistico) è presente almeno sin dal 2016, quando è stata promulgata Amoris laetitia come atto di magistero autentico di Francesco, il quale documento contiene, come abbiamo visto, almeno un’oggettiva eresia. È chiaro, pertanto, che di fronte abbiamo non un pontefice “occultamente eretico”, ma uno manifestatamente tale, sì da aver costretto alcuni principi della Chiesa a presentare al papa per ben due volte dei dubia, in due diverse circostanze, cui rispondere. Non solo. Già all’indomani di Amoris laetitia si moltiplicarono una serie di appelli e correzioni filiali, sottoscritte da insigni cattedratici cattolici (tra i quali il compianto monsignor Livi, il professor Pierantoni, padre Lanzetta eccetera), che mettevano il dito nella piaga, evidenziando gli errori sostenuti da Francesco nei suoi interventi magisteriali. In caso di papa eretico, allora, che cosa fare? È legittimo deporlo? Nel corso della storia della Chiesa, molti hanno risposto affermativamente, ma è consenso maggioritario ritenere l’opposto, ossia che non sia possibile, e questo perché “la Prima Sede non è giudicata da nessuno”, neanche in caso di errore teologico. I conciliaristi erravano dicendo che il papa sia sempre deponibile perché inferiore al concilio (cioè all’unione di tutti i vescovi); ma erravano anche i cosiddetti conciliaristi mitigati, secondo i quali il papa è sì superiore al concilio, tranne nel caso in cui questi cadesse in eresia, divenendo così giudicabile e deponibile dallo stesso concilio. Se è vero che Prima Sedes a nemine judicatur, mai è possibile deporre il Pontefice, e questo in realtà era evidente a tutti i grandi teologi della storia della Chiesa, tanto che san Tommaso d’Aquino insegna una cosa molto interessante.
Interrogandosi circa il giusto atteggiamento da assumere da parte di un sacerdote che assiste al comportamento “dannoso per la Chiesa” da parte di un suo superiore (il Doctor communis non parla di eresia), e chiedendosi se sia lecito per il religioso non solo denunciare, ma persino punire il proprio superiore, san Tommaso risponde che è lecito soltanto denunciare il superiore per il suo comportamento a colui che è al di sopra del religioso colpevole, ma non gli è mai lecito punirlo, cosa che ovviamente spetta a chi è più in alto nella gerarchia. E poi aggiunge una cosa interessante: “Se non c’è un superiore [ovverosia: se si tratta del Papa, l’unico a non avere superiore], si dovrebbe rivolgere a Dio, affinché possa correggerlo o toglierlo di mezzo” (cfr. Super Sent., lib. 4 d. 19 q. 2 a. 2 qc. 3 ad 2). In tal modo, san Tommaso si pone in continuità con il principio canonistico del Prima Sedes a nemine judicatur, neanche in casi così gravi.
Ricordava monsignor Nicola Bux in un’intervista al giornalista Aldo Maria Valli, nel 2018: “Nel dipinto di Raffaello [si allude al celebre affresco del giuramento del papa Leone III nelle celebri Stanze del Palazzo apostolico, ndr.] compare una scritta: Dei non hominum est episcopos iudicare, cioè: Tocca a Dio, non agli uomini giudicare i vescovi. Si tratta di un’allusione alla conferma, data nel 1516 dal Concilio Lateranense V, della bolla Unam sanctam di Bonifacio VIII, in cui si sanzionava il principio secondo il quale la responsabilità del pontefice è giudicabile solo da Dio”.
Rimane un caso: capire se il papa eretico sia in realtà davvero un papa. Dopo le dimissioni di Benedetto XVI, diversi canonisti e studiosi hanno riscontrato problematicità nella Declaratio del Pontefice. Il caso più famoso è quello di Andrea Cionci, autore del discusso e divisivo libro Codice Ratzinger, ma non è certo l’unico. Per esempio, l’avvocato Francesco Patruno all’interno del saggio Non era più lui – che si presenta come una risposta al libro di Cionci, ma è anche di più, ed ha come autore anche l’esperto di diritto canonico Federico Michielan – avanza parimenti critiche alla validità della Declaratio di Benedetto XVI e, conseguentemente, dell’elezione di Bergoglio come papa Francesco. Nonostante le polemiche e le visioni spesso contrapposte, è a mio avviso importante riscontrare che ci sono almeno due punti in cui sembra esserci comune accordo circa la problematicità canonica della Declaratio ratzingeriana, e sono nell’ordine di importanza:
- Le dimissioni sono un atto giuridico puro (actus legitimus), il che significa – analogamente alla dichiarazione di un matrimonio – che l’effetto sarebbe immediato, simultaneo con il pronunciamento, non potendosi rinviare gli effetti ad un momento successivo. Sappiamo invece, al di là delle interpretazioni e delle cabale che sono state fatte su questo dato, che la Declaratio di Benedetto XVI apponeva come termine – almeno “apparente” – le ore 20:00 del 28 febbraio 2013.
- Benedetto XVI ha rinunciato esplicitamente alla Sede, cioè al ministero dell’episcopato romano, ma non altrettanto esplicitamente all’ufficio primaziale. Se il primo è di diritto positivo ecclesiastico, e quindi umano, il secondo è invece di diritto divino. Se si confrontasse la Declaratio di Benedetto con quelle predisposte, per esempio, da Paolo VI e da Giovanni Paolo II nel 1989, come ci raccontano rispettivamente monsignor Leonardo Sapienza e monsignor Oder (postulatore della causa di canonizzazione del papa polacco), in entrambe si legge chiaramente che i due Pontefici dichiaravano esplicitamente, in caso fossero impediti per malattia inguaribile o di lunga durata di svolgere il loro ministero, di “rinunciare al nostro sacro e canonico ufficio, sia come Vescovo di Roma, sia come Capo della medesima Santa Chiesa cattolica“. Insomma, i predecessori di Benedetto XVI esplicitamente rinunciavano tanto all’ufficio come vescovo di Roma quanto a quello di capo della Chiesa cattolica, a differenza del papa tedesco, che, invece, menzionava solo l’ufficio di vescovo di Roma.
Se questa Declaratio non fosse giuridicamente valida, sorgerebbe spontanea una domanda a cui solo i canonisti possono rispondere con cognizione di causa: l’intenzione manifesta di Benedetto XVI supplisce all’invalidità dell’atto giuridico? In altri termini, la Declaratio sarebbe valida anche se difettosa poiché papa Benedetto XVI avrebbe comunicato alla Chiesa, o almeno “lasciato credere” alla Chiesa, di essersi dimesso (poi se le sue intenzioni intime corrispondevano o meno a quanto manifestato mi sembra irrilevante, proprio perché gli atti pontifici – come insegna il Vaticano I – devono essere inequivocabili agli occhi del popolo di Dio, non ambigui)? Oppure le intenzioni manifeste di Benedetto XVI verrebbero meno dinanzi a un difetto di forma e quindi, volenti o nolenti, questa Declaratio sarebbe nulla? Questo è un primo quesito importante, a mio avviso. Chi avrebbe il primato in questi casi? L’intenzione del soggetto o il difetto dell’atto? I canonisti rispondano!
Già monsignor Nicola Bux, nella ricordata intervista del 2018 al giornalista Valli, osservava: “Forse – e lo dico proprio da un punto di vista pratico – sarebbe più agevole esaminare e studiare più accuratamente la questione relativa alla validità giuridica della rinuncia di papa Benedetto XVI, se cioè essa sia piena o parziale (“a metà”, come qualcuno ha detto) o dubbia, giacché l’idea di una sorta di papato collegiale mi sembra decisamente contro il dettato evangelico. Gesù non disse, infatti, “tibi dabo claves …” rivolgendosi a Pietro e ad Andrea, ma lo disse solo a Pietro! Ecco perché dico che, forse, uno studio approfondito sulla rinuncia potrebbe essere più utile e proficuo, nonché aiutare a superare problemi che oggi ci sembrano insormontabili”.
Poi viene un’ulteriore considerazione: se la Declaratio è nulla, allora Benedetto XVI sarebbe rimasto papa fino al 31 dicembre 2022, e Francesco sarebbe un antipapa. Gli atti magisteriali di Francesco sono automaticamente nulli in virtù della condizione canonica di Bergoglio? La risposta non è così immediata. Secondo quanto riportato dal canonista Francesco Patruno in un’intervista privata con il sottoscritto, bisogna distinguere due tipologie di atti: quelli che rientrano nella potestà di ordine e quelli che invece sono nella potestà di giurisdizione. Per quanto riguarda i primi, tutto ciò che Francesco avrebbe compiuto da supposto antipapa sarebbe valido: ordinazioni sacerdotali ed episcopali, consacrazioni, battesimi di bambini, amministrazioni di sacramenti vari, in quanto amministrati non come papa ma come sacerdote e vescovo. Per quanto riguarda gli atti di giurisdizione, bisogna distinguere i casi particolari. In alcuni casi essi sarebbero invalidi, altri potrebbero essere ritenuti sanati (a certe condizioni) o comunque validi. Tra questi rientrano le canonizzazioni. L’esempio più emblematico è la canonizzazione dell’imperatore Carlo Magno, avvenuta in San Pietro, ad opera dell’antipapa Pasquale III all’epoca dell’imperatore Federico Barbarossa. Quella canonizzazione ex se sarebbe invalida, ma a seguito di questa si è tributato alla figura dell’imperatore Carlo Magno un culto pubblico in varie parti d’Europa (essenzialmente l’area franco-germanica), di talché il cardinale Lambertini, futuro Benedetto XIV, indicò nel caso di Carlo Magno un tipico esempio di equivalenza fra una venerazione tradizionale e una regolare beatificazione (De servorum Dei beatificatione, I, cap. 9, n. 4). Ed ancor oggi è tributato a questo imperatore un culto come beato.
Ma c’è di più. Cosa di maggiore interesse sarebbero le nomine cardinalizie. Nella storia della Chiesa si è già verificato, al termine dello Scisma d’Occidente, che aveva lacerato la Cristianità per quarant’anni con una serie di diversi antipapi, che un papa legittimo (nella fattispecie, Martino V) venisse eletto da cardinali di sicura nomina papale e da pseudo-cardinali (nominati cioè da antipapi), che furono tuttavia legittimati da papa Martino ex post. Questo perché, fino a che la Chiesa nella persona del papa non avvalli il giudizio dei canonisti e degli storici, e sia dichiarata con una sentenza che l’antipapa sia davvero tale, non c’è evidenza di pseudo-cardinalato. A ciò si aggiunga che tutti i cardinali nominati da Francesco sono stati sempre presentati a Benedetto XVI – cosa curiosa e singolare, in verità – al quale i neonominati cardinali hanno prestato omaggio, e da questi sono stati “approvati”. Il problema non sembra porsi. Inoltre, la Universi Dominici Gregis (legge speciale del diritto canonico) stabilisce che “nessun Cardinale elettore potrà essere escluso dall’elezione […] per nessun motivo o pretesto”, dunque neanche per possibile invalidità della nomina cardinalizia in quanto compiuta da un antipapa o ritenuto tale. In altre parole, in concreto, qualora si presentassero al prossimo conclave i cardinali di nomina bergogliana, i cardinali (superstiti) di nomina ratzingeriana non potrebbero giammai rifiutare l’ingresso in conclave anche ai primi, accampando come motivo il fatto che sarebbero di nomina bergogliana e non ratzingeriana, poiché ciò si tradurrebbe in una violazione della costituzione Universi Dominici Gregis, anche laddove è sancito – nella legge canonica – che i cardinali, in sede vacante, non possano cambiare nulla per quanto riguarda “le norme per l’elezione del nuovo Pontefice secondo le disposizioni della presente Costituzione” (e l’esclusione di questo o quel cardinale, sulla base della sua nomina, sarebbe una norma innovativa riguardante l’elezione del nuovo Pontefice).
Questo ci aiuta a rispondere all’altra domanda cruciale. Se questa situazione di presunto antipapato di Francesco non sarà chiarita prima della sua morte, ammesso che Francesco sia davvero un antipapa, sarà eletto un altro antipapa dal prossimo conclave? Si instaurerà, per così dire, una “linea antipapale”? I canonisti rispondono negativamente. Dal momento che l’ultimo papa legittimo (Benedetto XVI) sarebbe morto, un qualsivoglia conclave eleggerebbe un papa legittimo, anche se composto da 99 o più cardinali nominati dall’antipapa Bergoglio, e questo sia perché l’ufficio primaziale e la sede romana rimarrebbero vacanti (essendo morti sia Benedetto XVI sia Francesco) sia perché, come abbiamo detto, gli pseudo-cardinali non sono da considerare davvero tali fino a sentenza avvenuta. Siamo realisti: è altamente improbabile (attenzione: non impossibile) che questa condizione canonica eventualmente irregolare di Francesco, se appurata, salti fuori all’indomani della sua morte, o addirittura prima di essa. Andrebbe contro il dogma dell’indefettibilità della Chiesa pensare che Dio permetta la prosecuzione di una “linea antipapale”, che sopravviva ai cardinali, ai vescovi e agli abati nominati o ordinati dall’ultimo papa legittimo: sarebbe come ammettere un corpo senza testa, un vero e proprio monstrum teologico, ancor prima che canonistico.
Ulteriore considerazione: ammesso che Francesco sia antipapa, a chi spetta dichiararlo tale? È di necessità per i sacerdoti proclamare dai pulpiti che Francesco non è papa, che il vero papa è morto, e che bisogna eleggere un nuovo papa? È di necessità per i sacerdoti smettere di celebrare Messe una cum Francisco? Fino a che la situazione non venga chiarita dai canonisti e dagli storici, la risposta è negativa: non solo i sacerdoti non hanno il diritto di smettere di celebrare Messe una cum Francisco, ma rischiano anche di peccare di temerarietà e soprattutto di usurpazione del giudizio, il quale solo compete alla Chiesa nella persona di un prossimo papa o al massimo delle autorità a lui più prossime, cioè i cardinali, o al limite i vescovi. San Tommaso d’Aquino scrive, a tal proposito, che è peccato mortale per i sacerdoti celebrare Messa in unione con un eretico (si sottintende: papa eretico) dopo che ci sia una sentenza della Chiesa. Ci si chiede se lo stesso valga per la comunione con un antipapa. La Universi Dominici Gregis sostiene che, se non vengono osservate tutte le condizioni giuridiche del Conclave, “l’elezione è per ciò stesso nulla e invalida, senza che intervenga alcuna dichiarazione in proposito e, quindi, essa non conferisce alcun diritto alla persona eletta” (n. 76). Attenzione però: che non debba esserci alcuna dichiarazione in proposito non è qualcosa che riguarda ogni singolo fedele della Chiesa, ma solo i cardinali elettori del conclave. Sono questi, infatti, i destinatari della legge speciale, non tutti i cattolici del mondo. In altre parole, la Universi Dominici Gregis sta dicendo ai cardinali che, se non vengono osservate le norme, l’elezione del papa è invalida e non c’è bisogno che qualcuno di loro lo notifichi in qualche modo, ma si può procedere direttamente per un nuovo conclave. Per quanto riguarda invece il governo prolungato nel tempo di un antipapa, è necessaria certamente la sentenza della Chiesa, non necessariamente una sentenza solenne: basta un atto, compiuto in via di fatto, come l’espunzione del pontificato in questione dall’Annuario pontificio, come già fatto negli Anni Quaranta del secolo scorso. Prima di tale espunzione, era lecito per tutti (papi legittimi inclusi) ritenere i futuri “espunti” come papi romani. Ed ancora oggi i ritratti di questi fanno bella mostra tra quelli dei pontefici nella basilica romana di San Paolo fuori le Mura.