di Michela Di Mieri
Immaginate un eremita del IV secolo, con il saio e i sandali, il bastone e la lunga barba, che passa la maggior parte del tempo in una grotta sulla cima di un monte della Val di Non, in Trentino, per raggiungere la quale si deve percorrere un sentiero a picco su uno strapiombo, nel cui fondo scorre impetuoso un torrente. Quell’ascetico eremita è l’erede di una nobile e ricca famiglia di Thaur, nel Tirolo, che, trascorsa la prima parte della vita tra agi e spensieratezza, divenuto adulto, decide di condurre un’esistenza sul modello dei Padri del deserto: devolve la sua parte di eredità alla diocesi locale, perché sovvenga ai bisogni dei poveri, e si ritira a vivere su un costone roccioso, sotto la guida spirituale di Vigilio, il vescovo di Trento, con la sola vicinanza di un paio di amici, Davide e Abramo, e di qualche altro solitario compagno. Il suo nome è Romedio, il patrono dei pellegrini e degli escursionisti. Buona lettura!
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Il cielo prometteva tepore. Quella mattina sembrava proprio che la primavera fosse giunta sulle montagne del Trentino, per incominciare a risvegliare dal sonno invernale ogni creatura vi si trovasse a vivere. Romedio, dopo la consueta preghiera che accompagnava l’alba, si alzò barcollante sulle gambe intorpidite, si pulì il saio dalla terra e si diresse fuori dalla piccola e semplice cappella, ricavata in una delle numerose grotte che fendevano la roccia in quella parte del monte. Il vecchio eremita, nonostante la mitezza dell’aria, fu stranamente colpito da uno schiaffo gelido e percosso da un fremito violentissimo lungo la schiena. Quella nuova e inusitata debolezza del corpo gli parlò chiaramente, andandosi ad aggiungere agli altri segni che in quegli ultimi giorni gli avevano parlato: lui sapeva. Pochi giorni ancora e avrebbe salutato quel suo oramai malconcio involucro di ossa e pelle. Si soffermò a guardarsi i piedi e le mani. Le dita bitorzolute e paonazze, i calli, le cicatrici, le ferite mal rimarginate: ogni millimetro raccontava di una vita trascorsa nella foresta, tra le rocce, a svolgere lavori pesanti e faticosi. Quanti anni erano passati da quando aveva lasciato il suo imponente castello di Thaur, con i suoi amici Davide e Abramo, per raggiungere il cuore della cristianità, Roma? Come li aveva impiegati? Era pronto per l’imminente, fatale e sommo giudizio? Aveva bisogno di lui, del suo vescovo Vigilio, colui che, dopo quel primo, decisivo incontro sulla via di Roma, l’aveva sempre paternamente seguito, sostenuto, protetto, non facendogli mai mancare il consiglio spirituale e mettendogli a disposizione quel vecchio castello della Val di Non, in cui poter condurre la sua vita eremitica. Sentiva la necessità di parlare con lui, per prepararsi al meglio, ricevere la sua benedizione e accomiatarsi dal mondo con l’animo in pace. Decise, dunque, di scendere fino a Trento, per incontrarlo. Non era impresa da poco: non vi erano sentieri che portavano verso la valle, e il monte, in quel tratto, si trasformava in una parete rocciosa che scendeva a picco su una forra in mezzo al bosco, in cui pullulavano gli animali selvatici tipici delle zone alpine, tra i quali alcuni grandi predatori, dai lupi agli orsi. E infatti, proprio mentre Romedio era tutto assorto nei suoi pensieri, uno di questi ultimi, appena uscito dal letargo, sicuramente spinto dalla cieca fame che gli comandava di avvicinarsi anche alle bestie domestiche, stava dilaniando il cavallo che gli eremiti usavano per riuscire a muoversi in quel luogo impervio. I compagni di Romedio, arrivati nella piccola stalla per sellarlo su sua richiesta, alla vista del povero quadrupede che stava rovinando a terra sotto le rasoiate dell’orso, non sapevano se essere più disperati o più atterriti dalla paura. Terrorizzati, si precipitarono ad avvertire Romedio, che accorse in tutta fretta, per quanto le sue gambe gli permettevano, nella speranza di salvare il fido cavallo. Al suo arrivo, trovò la misera bestia squartata, esanime, in una pozza di sangue fumante, mentre l’orso si cibava delle sue carni. Il plantigrado barrì furiosamente e si levò minaccioso sulle zampe posteriori, deciso a difendere la preda. Nonostante la sua mole sovrastasse di parecchio l’esile eremita, tuttavia questi non sembrava temerlo. I suoi compagni, che osservavano da lontano, temettero il peggio e si coprirono gli occhi per non guardare. Ma non successe nulla di quanto paventavano, o di quello che ci aspetteremmo. Romedio, con tono pacato e sereno, iniziò a parlare all’orso, e a mano a mano che il discorso proseguiva, l’animale pareva farsi sempre più calmo e innocuo.
“Orso – gli disse – io lo so perché tu hai sbranato il nostro cavallo. Ti sei svegliato poco fa dal letargo e avevi tanta fame. Magari hai passato l’inverno in una grotta qui vicino e il nostro povero cavallo è stata la prima preda che ti sei trovato sotto il naso. A me dispiace molto che tu l’abbia ucciso, ma non posso prendermela con te, perché capisco che tu hai ubbidito al tuo istinto: è la tua natura, e tu devi assecondarla. Però, ora ci hai lasciati senza il mezzo con cui noi eremiti riusciamo ad andare e tornare dalla valle, magari anche trasportando qualcosa che ci possa servire. Quindi, non volermene, ma adesso ti devo chiedere di sdebitarti con noi, prendendo il posto del nostro povero cavallo. Vieni qui, ora, e lasciati sellare e infilare le briglie. Sai, devo andare a Trento con una certa urgenza. Non mi rimane più molto tempo, e ho proprio bisogno di te”.
Gli altri, con la bocca aperta e stentando a credere ai loro occhi, videro l’orso, con il muso ancora sporco di sangue, farsi incontro a Romedio e porgergli la testa per farsi mettere le briglie. Poi, mansueto come un agnellino, lasciarsi guidare dove ancora resisteva una macchia di neve, e permettere che il religioso gli mondasse il muso e lo accarezzasse con dolcezza dietro alle orecchie. Infine, accucciatosi, guardarono Romedio mentre lo sellava, lo montava e, datogli un colpetto sul fianco con la mano, si avviava sulla sua groppa alla volta della valle. Egli fece un cenno di saluto con il braccio e sparì in mezzo al bosco, lasciando dietro di sé silenzio e stupore.
Mentre procedevano verso la valle, li accompagnava un numero via via più nutrito di uccellini, che con cinguettii e volteggi sembravano annunciare il loro passaggio. E la notizia si diffuse in un batter d’ali di casa in casa, di campo in campo, di strada in strada, perché i pastori e i contadini che li incrociavano, al vedere l’orso, che tanto temevano, così ammansito e lasciarsi cavalcare dal sant’uomo, gridavano al miracolo. E fu così che la fama del prodigio precedette l’entrata dell’eremita in città, tanto che, al suo arrivo, le campane del duomo iniziarono a suonare a festa e il popolo lodava l’Onnipotente per aver concesso loro di vivere a fianco di un tale uomo.
Il vescovo Vigilio, già prontamente informato dell’accaduto, gli si fece incontro, e lo scortò, tra due ali di folla, presso la sua abitazione, dove si chiusero per lunghe ore. Nessuno sa cosa si dissero durante quel tempo, nel quale l’orso aspettava il suo cavaliere accucciato come un cagnolino, mansueto e tranquillo, senza arrecare la minima noia ad essere vivente. Ma possiamo facilmente immaginare che Romedio tornò alla sua grotta con l’animo molto più sereno di quando era partito, pronto per affrontare l’ultimo, decisivo e fondamentale viaggio che ogni creatura è destinata a compiere. E io me lo figuro, il santo Romedio, che arriva sul suo monte alla luce obliqua e calda del tramonto, smontare dalla groppa dell’orso, soffermarsi un istante a guardare lontano, mentre una mano affonda nella lunga barba grigia, per poi entrare nella dispensa e portare al suo improvvisato destriero qualche buona mela. E lo vedo chinarsi verso di lui, per raccomandarsi di continuare a essere, in futuro, altrettanto mansueto e docile anche con i suoi compagni, e di non fare più del male a nessuna creatura, ché ora non ce n’è più necessità, e poi fargli un’ultima carezza dietro le orecchie, alla quale l’orso risponde lambendogli la mano ossuta, come a dirgli che sì, poteva partire sereno, che lui non avrebbe messo in subbuglio il suo commiato dal mondo.
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