Sabato 3 febbraio 2024 alle ore 17, nella Sala Rossa di Palazzo Trinci a Foligno (Perugia), si terrà la presentazione dell’opera di Bernardo di Chiaravalle L’esercito di Dio. Regola e apologia dei Cavalieri di Cristo (introduzione, traduzione e note di Isacco Tacconi, prefazione di Massimo Viglione). Interverranno Isacco Tacconi, docente di religione cattolica, e Agostino Cetorelli, assessore alle Politiche familiari e sociali del Comune di Foligno.
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di Isacco Tacconi
Il 13 gennaio 1128 un vecchio cavaliere franco, da tempo ramingo e mendico in Terra Santa, riceveva finalmente dalle mani dell’abate di Clairvaux la tunica bianca del suo nuovo ordine religioso insieme alla regola di un monachesimo fino ad allora inedito, un monachesimo militare. Anche se la sua stirpe di media nobiltà avrebbe voluto per lui un feudo nella Champagne a seguito di giuste nozze, Ugo, così si chiamava il vecchio uomo d’arme, scelse per sé la povertà e il celibato per Cristo. Non rinunciò tuttavia a ciò che sapeva fare meglio: maneggiare la spada.
Uomo di fede profonda, viva e pulsante, unita a una carità schietta e semplice, volle porsi al servizio della Chiesa e dei cristiani frapponendo il proprio corpo a ogni nemico che avesse voluto impedire a chiunque, uomo o donna, vecchio o bambino, di prostrarsi, come lui da molti anni, adoranti ai piedi del Sepolcro che, sebbene per poche ore, custodì il venerabile corpo del Cristo Nazareno.
La sua storia si intrecciò come la trama avventurosa di una chanson de geste a quella di altri otto cristiani, primo fra tutti un cavaliere fiammingo, tale Goffredo della contea di Saint Omer nelle Fiandre sud-occidentali, il cui mestiere era maneggiar le armi e menar le mani. I due cavalieri si erano ritrovati anni prima fianco a fianco sotto le mura di Gerusalemme con un unico scopo, liberare il Santo Sepolcro. Quando l’esercito crociato si sciolse dopo la presa di Ascalona, pochi uomini d’arme, stanchi e smarriti, senza padrone e senza casa rimasero nella Terra Santa privi di uno scopo. I più tornarono in patria, alcuni si accasarono con donne locali e misero mano all’aratro. Altri ancora, meno nobili, pur non abbandonando il mestiere delle armi si misero in affari con i predoni di Damasco o del deserto d’Egitto. Una sparuta e male equipaggiata guarnigione di crociati rimase a presidiare il neonato e poverissimo regno di Gerusalemme. Fu così che la leggenda dei Due Compagni ebbe inizio.
Ugo e Goffredo avevano preso la loro decisione: non sarebbero mai più tornati nelle terre di Francia né alle loro case né alle loro famiglie. Dopo la Crociata nulla aveva più senso. Le canzoni, i banchetti e i lazzi di corte apparivano loro come vanità. Vanitates et insanias falsas li avrebbe definiti il santo abate Bernardo citando il Salmo. Come potevano tornare alla vacua banalità degli affari del secolo dopo aver versato sangue per i Luoghi del Cristo e della Vergine? Luoghi che ora più che mai si trovavano in pericolo di essere profanati ancora una volta dai seguaci del falso profeta. Gerusalemme era liberata, sì, ma per quanto tempo ancora? Erano ormai lontani i giorni di entusiasmo ardente quando Pietro l’Eremita, pochi giorni dopo la liberazione della Città Santa, guidava una immensa processione di chierici latini e greci, anche scismatici unitisi ai liberatori con spirito di riconoscenza, dal Sepolcro al Tempio. Il ricordo dell’incoronazione di Goffredo di Buglione quale sovrano di Gerusalemme, circondato dalla gioia per la vittoria, dalla incontenibile gratitudine al Dio dei Cieli e dai numerosi e affollatissimi uffici liturgici nelle chiese di Terra Santa, apparteneva ormai al passato. Anche se tutti conservavano ancora nel cuore l’immagine di Goffredo di Buglione che per umiltà verso il Cristo coronato di spine rifiutò di portare la corona, il fervore estatico di quei momenti si era affievolito e lo spirito dei Maccabei, denso di zelo per il Tempio e la Legge di Dio che aveva animato i primi crociati, quasi del tutto svanito. Bisognava fare qualcosa, ma cosa? Tale era l’indigenza dei due raminghi che potevano spostarsi in groppa di un solo cavallo, quello di Goffredo, l’unico ancora in grado di sopportare il peso di due uomini. Così malconci, fecero ciò che i cristiani sogliono fare nello sconforto e alla vigilia delle grandi decisioni: orazione. Ai piedi del Sepolcro, umiliati ma pieni di fiducia, chiesero lumi dall’Alto. E fu, lì nella semioscurità densa di voci bisbiglianti e arcane melodie sacre, tra lacrime di compunzione e una ferrea concentrazione della volontà che una voce risuonò nel cuore di Ugo: la povertà del Cristo. Nella nudità della fredda tomba illuminata da flebili candele il Signore dell’Universo, il Kyrios o, come dicevano i romani, il Dominus, li chiamava al servizio, a una unzione sacra.
La spada deposta ai piedi dell’altare, le mani serrate come un pugno di ferro e il sudore inesorabile solcava la fronte e la schiena. “C’è un tempo per la pace e un tempo per la guerra” ripeteva la voce. “Un tempo per riporre la spada nel fodero e un tempo per vendere il mantello e comprarne una”. Ma dove andare? A chi offrire i propri servigi, a un signore qualunque o al Signore dei signori? Soltanto ottant’anni dopo un giovane cavaliere avrebbe porto l’orecchio alla medesima domanda ma il suo destino era diversamente segnato. Entrambi poveri, eppure l’inesauribile ricchezza del Cristo li avrebbe diversamente accontentati. L’uno dalla Francia veniva e l’altro dalla Francia prese il nome. L’uno le crociate le predicò, l’altro le praticò. Ugo fu chiamato maestro del Tempio, Francesco l’araldo del Gran Re. Le loro gesta hanno tracciato la Storia e il loro ricordo è in benedizione, ma prima di giungere ai poveri fratelli della penitenza bisogna che si racconti dei poveri cavalieri di Cristo.
Si alzarono dunque e usciti dal Sepolcro, quasi risorti dai morti, radunarono gli altri sette compagni d’arme e fecero voto di proteggere per sempre, fino alla morte, la Tomba del Redentore e tutti i Luoghi in cui il Verbo di Dio fatto uomo era passato sanando e beneficando tutti. Tutti gli uomini dovevano avere diritto di venerare liberamente e in sicurezza quei luoghi di grazia e giustizia e nessuno avrebbe dovuto mai più impedire ai piccoli di andare a Dio.
Privi di equipaggiamento pesante, con cavalcature non sufficienti (cavalieri senza cavalli!), poveri di mezzi e senza un castello dove potersi organizzare. La loro divisa era dunque chiara, anzi splendente, secondo l’intuizione di Ugo non poteva che essere una e una soltanto: pauperes commilitones Christi, i poveri cavalieri di Cristo. Il motivo era semplice. A differenza dei loro coevi, spesso schiavi della cupidigia e delle vanità cortigiane, nulla cercavano per sé se non la grazia di servire il Dio degli eserciti. Niente che ricordasse la superbia del mondo. Volevano possedere solo il Cristo e loro stessi appartenere a Lui. Come un cuor solo dichiararono Ugo loro guida e capo, magister, secondo l’uso antico. Si diressero perciò senza indugio alla Fortezza di Davide ove risiedeva a quel tempo Baldovino II re di Gerusalemme cugino del grande Buglione.
Da poco eletto al trono di Gerusalemme, Baldovino mise mano a una grande e saggia riforma dell’organizzazione interna del regno. Regolò i conti dello Stato, distribuì feudi e rafforzò i presidi militari ai confini del regno. Ma nonostante i suoi sforzi sapeva bene che le terre a lui affidate vivevano all’ombra di un’invasione incombente. Il regno di Gerusalemme era fragile come un sogno e quando Baldovino si vide innanzi i nove cavalieri poveramente vestiti fu investito da un fremito del cuore. La devozione e la forza d’animo di quegli uomini gli ricordarono le gesta di quelle imprese d’Oltre Mare che di lì a poco Guglielmo di Tiro avrebbe messo per iscritto e di cui lui stesso era stato protagonista quando franchi e normanni marciavano, quasi miracolosamente, fianco a fianco verso la liberazione dei Luoghi sacri.
Si alzò dallo scranno, gli andò incontro sorridendo e sollevò Hugues De Payns, così lo chiamavano in terra di Francia: lo abbracciò in segno di pace e accolse i nove compagni con ogni riguardo. Quelli gli esposero con umiltà il loro proposito di mettersi al servizio del regno per difendere i pellegrini e presidiare i confini vasti fin negli avamposti più lontani del deserto. Mostrarono al re i carteggi e le mappe che avevano avuto modo di comporre fin da quando avevano fatto ingresso in Terra Santa con la loro esperienza militare e l’aiuto delle guide carovaniere. Baldovino non li lasciò neppure terminare, tale era la riconoscenza per questi uomini che sembravano stati mandati dal Cielo in suo aiuto, e offrì loro di occupare un’ampia ala della vecchia residenza reale che sorgeva sul pendio sud-orientale del Monte Moria in quella che un tempo era stata la moschea detta “Lontana”. I saraceni la chiamavano al-Aqsà. In realtà prima delle distruzioni romane di Tito e Adriano quel luogo era stato la sede del Templum Salomonis. I crociati lo sapevano bene e tale lo consideravano: il Tempio. D’altra parte avevano scavato per anni per rafforzarne le fondamenta portando alla luce le antiche scuderie di re Salomone.
Dal momento in cui i Nove si furono stanziati là furono da tutti conosciuti più con il soprannome di Cavalieri del Tempio (comunemente Templari) che non con quello originario di Poveri Cavalieri di Cristo. Ben presto i nove divennero trenta e trovandosi nella necessità di alloggiare i propri cavalli, pochi e poveramente equipaggiati, di ferrarli e di nutrirli, il re li beneficò con larghe donazioni. Da qui innanzi incomincerà il cammino che li porterà fino a Troyes, in Francia, alla presenza di un concilio di vescovi e abati, dove san Bernardo con l’approvazione di papa Onorio II consegnerà loro la Regola che li inserirà a pieno titolo nel corpus ecclesiae non più soltanto come cavalieri al servizio del re di Gerusalemme, ma come un esercito al servizio della Chiesa. L’esercito di Dio.
Tuttavia per essere tale un esercito cristiano doveva anche essere un esercito che prega. Combattere sì, ma non soltanto con le armi belliche ma anche e in special modo con le armi dello spirito. Soltanto così la battaglia cristiana può dirsi “buona”. Ma a questo aveva già pensato san Benedetto con la regola monastica.
Ed è precisamente questo in verità l’autentico e sorprendente “tesoro dei templari”. La Regola che li rende al contempo monaci e cavalieri nella quale si chiarisce semel pro semper che nulla di più caro di Cristo questi combattenti hanno né potrebbero avere. Il Sommo Re, colui che abbatte i potenti e innalza gli umili, che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote.
Chi avrà l’ardire di leggere la Regola scritta per loro da san Bernardo che qui vi offriamo finalmente in una nuova e fedele traduzione insieme alla Apologia che ne fece lo stesso Bernardo, dopo lunghe e insistenti richieste da parte del primo templare Ugo di Payns, avrà l’opportunità di scoprire chi furono in realtà i Poveri Cavalieri di Cristo.