Domenica scorsa, alla messa alla quale ho partecipato nella chiesa centrale della mia città, è stata presentata la missione cittadina per i giovani che si svolgerà nel prossimo mese di ottobre. Si è parlato ovviamente di accoglienza, ma nessunissimo accenno (che d’altra parte non mi aspettavo) alla regalità sociale di nostro Signore Gesù Cristo, un’omissione che, a mio avviso, non solo rende vano, o per lo meno assai fiacco, ogni serio progetto missionario, ma svuota l’idea stessa di evangelizzazione.
Così, per una concatenazione di idee che può forse sembrare strana, mentre il giovane sacerdote parlava, ho pensato al fatto che in Francia le edizioni Contretemps [qui] hanno appena pubblicato, con il titolo Après la chrétienté, gli atti della XXII Università estiva di Renaissance catholique. Un’occasione per tornare su una domanda tanto fondamentale quanto trascurata: dobbiamo rassegnarci a vivere sotto il dominio di uno Stato religiosamente “neutrale” ma in realtà ostile alla nostra fede?
Che ci piaccia o no, viviamo in una società post-cristiana. “Sedici secoli di cristianesimo stanno per finire”, scrive Chantal Delsol nel suo La fin de la chrétienté, e Patrick Buisson, in due opere illuminanti quali La fin d’un monde e Décadanse, mostra come la società francese abbia radicalmente messo in discussione nel giro di pochi decenni la sua tradizionale art de vivre e i suoi valori più profondi, fondati sul cristianesimo. Chi avrebbe immaginato, colo cinquant’anni fa, la totale accettazione del matrimonio omosessuale o l’aborto inteso come diritto costituzionalmente garantito?
Le cose non sono molto diverse da noi, e a fronte della scomparsa di una società le cui istituzioni, più o meno consapevolmente, erano ancora intrise dei valori del Vangelo e del cristianesimo, tra i cattolici si fronteggiano due grandi scuole.
La prima è quella che ritiene che tutto ciò costituisca un’evoluzione positiva. Rispondendo alla domanda di un seminarista sul problema posto dai tradizionalisti, monsignor de Moulins-Beaufort, arcivescovo di Reims e presidente della Conferenza episcopale di Francia, ha dichiarato di recente: “Il decreto del Vaticano II sulla libertà religiosa è molto chiaro. Cristo non è venuto per edificare nazioni cattoliche ma per fondare la Chiesa. Non è la stessa cosa. Portandoci dietro la nostalgia di uno Stato cattolico, perdiamo la nostra energia per l’evangelizzazione”.
In queste parole troviamo l’eco di quanto sosteneva uno dei predecessori dell’arcivescovo alla guida della Conferenza episcopale francese, il cardinale Etchegaray, il quale, all’epoca arcivescovo di Marsiglia, diceva che lo Stato laico, neutrale, non schierato religiosamente, “è stato certamente un progresso”.
Ecco dunque una Chiesa che, per dirla con Chantal Delsol, in sostanza “si vergogna del cristianesimo come potere” e legittima lo Stato ateo. Un punto di vista secondo il quale la fine della cristianità non è solo un dato di fatto, ma una benedizione.
Questa opinione, tuttavia, non è generale. Veniamo così alla seconda scuola di pensiero, che formula due importanti obiezioni.
Innanzitutto una dottrinale. Nella sua enciclica Quas primas dell’11 dicembre 1925 sulla regalità sociale di Cristo, papa Pio XI invitava “gli uomini e le società” a “riconoscere in particolare e in pubblico il potere regale di Cristo”. Dunque, sulla base di tale documento del Magistero, il cattolico non può accettare uno Stato “neutrale”, apparentemente non schierato religiosamente, che però in concreto non riconosce la regalità sociale di Cristo.
Lasciando agli specialisti il compito di esaminare la continuità tra l’enciclica Quas primas (di cui celebreremo il centenario l’anno prossimo) e la dichiarazione conciliare sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, veniamo alla seconda obiezione, che è di ordine non dottrinale ma storico: non è forse vero che interi popoli entrarono in massa nella Chiesa seguendo i loro governanti (Costantino, Clodoveo, Carlo Magno, Vladimir, Stefano eccetera)? I fatti storici possono non piacere, ma parlano: la conversione di un popolo al cristianesimo non è mai avvenuta senza il sostegno, o almeno la neutralità benevola, delle autorità pubbliche.
In questo senso, la situazione del cattolicesimo in Asia è illuminante. Vediamo infatti che lì cattolicesimo è molto presente nei paesi storicamente e politicamente legati al cristianesimo (Filippine, Vietnam), ma del tutto marginale nei paesi (Cina, Giappone) in cui le autorità pubbliche si sono opposte al suo sviluppo.
Dunque, il tema al centro degli atti della XXII Università estiva di Renaissance catholique è più che mai di attualità. Due le questioni. La prima: la nozione stessa di cristianesimo costituisce oggi un ideale da perseguire pubblicamente o può essere soltanto un fatto del tutto privato? La seconda: come vivere concretamente il cristianesimo nella sua totalità, senza ridurlo a esperienza sentimentale, in una società in cui non solo lo Stato, fintamente neutrale, impone una legislazione sempre più lontana dal semplice rispetto della legge naturale, ma addirittura la Chiesa condivide ufficialmente questa posizione ritenendola un bene?
L’evangelizzazione, in un contesto come l’attuale, è possibile o si tratta di un concetto vuoto? “Dopo la cristianità” possiamo ancora rimanere pienamente cristiani, senza accontentarci di coltivare la nostra fede nel privato ma sostenendo la regalità di Cristo? Possiamo ancora sostenere, con Pio XI, che “Egli regna nelle menti degli uomini non solo per l’altezza del suo pensiero e per la vastità della sua scienza, ma anche perché Egli è Verità ed è necessario che gli uomini attingano e ricevano con obbedienza da Lui la verità”?
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