di Rita Bettaglio
Un amico lettore mi ha scritto per dirmi che la vita monastica è solitudine.
Sto facendo una certa esperienza di vita solitaria, perciò qualche assaggio l’ho gustato anch’io.
Il primo mito da sfatare è quello secondo cui quando si è in solitudine si è soli. Non è vero. Non si hanno altre persone intorno, questo sì. Ma si è in compagnia, anzitutto, di se stessi. Ed è un attimo accorgersi di quanto traffico e rumore ci siano dentro di noi.
Avete mai provato a stare in silenzio, magari in una chiesa vuota (le chiese in realtà non sono mai vuote perché c’è il Santissimo, la presenza reale di Dio nel tabernacolo)? Il silenzio esterno si popola immediatamente di mille voci che sfrecciano come automobili in autostrada o ronzano come mosconi intorno al capo.
Se uno fa un ulteriore passo avanti e, per scelta o disposizione della divina Provvidenza, abbraccia la vita ritirata e solitaria inizierà in breve una serie d’esperienze che non avrebbe mai immaginato.
Nella solitudine si combatte infatti la battaglia decisiva dell’uomo: nel deserto egli si trova faccia a faccia con se stesso, con i propri limiti e con tutto ciò che il clamore della vita nel mondo copriva. E incontra Dio. E spesso vi combatte per tutta la notte, come Giacobbe.
Voi mi direte: ma quelli erano i padri del deserto, quelli che lasciavano tutto e s’avviavano nella Tebaide, quello era san Benedetto che si ritirò in una grotta a Subiaco e vi rimase tre anni in assoluta solitudine: robe d’altri tempi, impossibili oggi!
Invece no. Non bisogna andare fino a Subiaco per trovare una grotta come quella del santo patriarca. Basta una stanza qualunque. Più è vuota, meglio è.
Ognuno, se lo accetta, se lo vuole, ha la sua grotta, la grotta che gli ha preparato Dio, nell’anima e fuori.
Non invita forse tutti Gesù nel Vangelo: intra in cubiculum tuum, et clauso ostio, ora Patrem tuum in abscondito (Mt 6,6), entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto?
Non bisogna solo entrare nella propria camera, ma anche chiudere la porta. Ognuno istintivamente sa cosa significhi per sé chiudere la porta e cosa debba lasciar fuori.
A noi tocca solo questo: entrare nella nostra camera e chiudere la porta. A tutto il resto penserà il Signore: si occuperà lui di guidarci in questo viaggio di cui abbiamo gran paura. Possiamo star certi di essere nelle mani migliori dell’universo, cioè nelle mani di chi l’universo lo ha creato dal niente.
Quali cose il Signore permetterà che ci accadano quando abbracciamo per lui la solitudine e la preghiera? Nessuno può prevedere che forme prenderà il combattimento di oggi: per quali sentieri ci condurrà la meditazione della sua Parola, la recita dell’Ufficio divino?
Quando apriamo gli occhi la mattina (o, ancor meglio, la notte) abbiamo davanti lunghe ore che il Signore riempirà con la sua grazia. Il più delle volte non ce ne accorgeremo neppure e, anzi, avremo in bocca il gusto dell’inutilità, il sapore di non aver concluso nulla di buono. Ma è proprio così che il Signore lavora e purifica. Quando non abbiamo soddisfazioni sensibili, ci pare d’aver perso tempo, di non averne azzeccata una, di essere non al punto di prima, ma indietro, come i gamberi. Ci sentiamo uno straccio, sbattuto qua e là dal vento che soffia in noi. Iniziamo a dire l’Ufficio e subito ci troviamo a combattere contro quella voglia improvvisa di bere un sorso d’acqua o il pensiero che abbiamo dimenticato di fare qualcosa che certamente torneremo a dimenticare se non la facciamo subito. Mille demonietti sorgeranno con altrettanti specchietti per le allodole, e le allodole siamo noi.
Però la cosa più bella è che, pur essendo distanti anni luce da sant’Antonio il Grande, restiamo nella nostra grotta: ci sono momenti in cui gemiamo, piangiamo, o ci annoiamo a morte, ma lì restiamo. Perché c’è qualcosa di unico nella grotta che il Signore ha scelto per noi. C’è lui. E noi desideriamo stare soli con il Solo. Per sempre.
Et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. E il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà.