Lettera da Bruxelles / Il mondo distopico dell’Ue e quello reale. Dove la fede, nonostante tutto, non è scomparsa
di James Jeffrey
Lavorare e vivere a Bruxelles può sembrare, sotto certi aspetti, come ritrovarsi abbandonati in territorio nemico. Un amico che un tempo lavorava lì (si occupava di legislazione sui diritti umani) mi avvertì: la città è piena di reti che ti possono intrappolare, e di satanisti. Difficile capire se lo dicesse in senso figurato o letterale. L’attuale Commissione europea sta promuovendo la legislazione più progressista nella storia dell’Unione, come ho sentito dire da un eurodeputato dei democratici nazionalisti svedesi. Non molto tempo dopo il mio arrivo, nell’aprile dell’anno scorso, il Parlamento europeo ospitò una mostra fotografica che includeva immagini di un Cristo omosessuale circondato da accoliti in abiti di pelle tipicamente associati alla schiavitù e al feticismo. Ovvia obiezione: provate a farlo con il profeta Maometto aspettandovi che i musulmani acconsentano tranquillamente a tale licenza artistica.
Durante il mese dell’orgoglio omosessuale, l’inchino istituzionale al cosiddetto pride e l’uso della bandiera arcobaleno hanno un che di surreale. Camminando per la città in quei giorni, sembra che uno strano esercito, dopo aver invaso e conquistato l’intera Bruxelles, mostri i suoi colori in ogni strada, in stile distopico e senza fantasia. Non c’è dubbio: un cambio di regime.
Per molti di coloro che hanno appoggiato la Brexit, Bruxelles è il fulcro del Big Government del peggior tipo, dove un assortimento di tecnocrati stranamente raggruppati emana diktat di contenuto utopico per più di 477 milioni di persone di ventisette nazioni diverse. Non posso negarlo: più assisto a questo spettacolo, più mi trasformo in Margaret Thatcher.
Eppure, nonostante le parole d’ordine progressiste siano sostenute da un sistema super-centralizzato che risveglia la Maggie che è in me, Bruxelles rimane anche una “città della speranza”, come ha osservato lo stesso amico. Una città in cui il cattolicesimo non è scomparso.
L’ho notato anch’io, quando sono arrivato. Ovunque si vedono guglie di chiese che si innalzano sopra i tetti. Nel fine settimana le campane suonano. E sembra che ovunque ci siano conchiglie che decorano edifici, portali, fontane e l’interno delle chiese.
Dopo aver percorso tantissimi chilometri lungo i diversi cammini di Santiago, ho sviluppato una certa capacità nell’individuare la conchiglia, simbolo di san Giacomo e del pellegrinaggio alla sua tomba, a Santiago di Compostela. Ho scopetto così che a Bruxelles c’è una grande conchiglia proprio dietro la famosa scultura in bronzo del Manneken Pis, il ragazzino nudo che fa la pipì nella vasca della fontana. E anche nella famosa Grand Place una conchiglia placcata in oro brilla al sole in cima a uno degli edifici decorati che circondano la piazza.
Agli angoli delle strade di Bruxelles ho persino incontrato edicole dedicate a san Rocco nella sua posa classica, mentre indica la ferita sulla coscia e un cane fedele gli offre una pagnotta portata in bocca.
Vedere san Rocco è come imbattersi in un vecchio amico. Per chi fa il cammino di Santiago è una figura di spicco, per la sua vita piena di peregrinazioni. L’ho incontrato molte volte, in piccole chiese spagnole e portoghesi, anche mentre ero alle prese con dolori e ferite e venivo aiutato da perfetti sconosciuti.
Un grosso problema a Bruxelles sono le patatine fritte. Lunghe code di gente del posto e di turisti si formano davanti alle friterie più famose. Non lontano dalla Grand Place, di fronte alla chiesa di Santa Caterina che si affaccia su una piazza piccola ma vivace, c’è il mio posto preferito. Le frites sono eccellenti e la friterie è meno affollata o costosa delle altre.
Per due volte la chiesa di Santa Caterina ha rischiato di essere demolita: negli anni Cinquanta a favore di un parcheggio all’aperto e più recentemente, nel 2011, quando il vescovo la chiuse perché doveva essere trasformata in una sorta di mercato coperto. Ma un movimento popolare di parrocchiani la fece riaprire e la rimise in ordine.
A Santa Caterina la messa domenicale è solenne e lunga, con gruppi di chierichetti, sia bambini sia adolescenti, armati di turibolo dondolante con dentro l’incenso. Ogni messa si conclude con sacerdoti e chierichetti riuniti davanti a una statua di Maria, a lato dell’altare, mentre viene cantato il Salve Regina. Dopo la messa, tra le candele accese, i fedeli si fermano in preghiera silenziosa davanti a una miriade di statue di santi sparse per la chiesa. Di tanto in tanto sul sagrato c’è un aperitivo e i parrocchiani si mescolano, si stringono la mano e parlano con il sacerdote o fanno la fila per ricevere una benedizione. Come descrivere tutto ciò? Direi che è molto cattolico.
Durante la messa alcuni parrocchiani scelgono di non sedersi sui banchi ma di rimanere in fondo alla chiesa, in piedi o in ginocchio sulle lastre di pietra del pavimento. Guardandoli, si ha la sensazione di essere tra quei primi cristiani che si riunivano per pregare nelle catacombe di Roma.
In contrasto con le giovani donne dal volto severo che camminano svelte nel quartiere europeo, evidentemente impegnate in importanti affari, nel centro della città ci sono statue raffiguranti belle fanciulle dalla grazia femminile e materna, qualità nutritive per la vita. Ci sono molti seni nudi, esibiti in un modo che non posso che definire orgoglioso e nobile, e c’è anche una cospicua presenza di neonati sotto la protezione di queste figure materne. Una versione sorprendentemente diversa del matriarcato rispetto a quella modellata da femminismo moderno.
L’11 luglio mi sono imbattuto in un gruppo di allegri fiamminghi che organizzavano un’improvvisata festa di strada per celebrare la Battaglia degli speroni d’oro, quando le forze ribelli della Contea delle Fiandre inflissero una disastrosa sconfitta all’esercito reale francese, nel 1302. Il nome della battaglia nasce dagli speroni raccolti sul campo e appartenuti ai soldati della cavalleria francese: radunati dai vincitori, vennero trionfalmente appesi alle pareti della chiesa abbaziale di Courtrai.
Durante la festa incontro un giovane. Mi racconta che la sua ragazza lavora per l’Unione europea, che lei è politicamente più a sinistra di lui ma che la forza della loro relazione trascende le differenze politiche. La cosa venne messa alla prova quando lui si unì alla ragazza per una cena con i colleghi di lavoro di lei. Si parlò dell’aborto e lui ebbe la netta impressione che tutti avessero subito il lavaggio del cervello: sul “diritto” all’aborto un consenso acritico, ripetuto a pappagallo. La ragazza però rimase in silenzio e in seguito si scusò per quella “discussione miope”. Però nello stesso tempo spiegò di non essere intervenuta perché se avesse espresso le sue idee avrebbe avuto problemi nel lavoro.
“C’è qualcosa di profondamente sinistro in questo Paese”, ha affermato Tracey Rowland, ex preside dell’Istituto Giovanni Paolo II di Melbourne, che nel 2014 in Che fine ha fatto il Belgio? Lamento per una nazione cattolica, ha scritto: “La sua cultura cattolica è stata distrutta da un paio di generazioni di intellettuali in guerra con la propria eredità”.
In realtà non sembra che si tratti solo del Belgio, a giudicare da quanto succede in tutta l’Ue e anche nel Regno Unito. Ma nonostante una situazione così cupa, resta la speranza. La Bruxelles cattolica non è morta.
Fonte: catholicherald.co.uk