di Michela di Mieri
Uberto di Liegi, erede del duca Bertrando di Aquitania, nipote di re Cariberto II, nasce a Tolosa nel 656 circa e muore a Teruven (Belgio) nel 727. Cresce a Metz, alla corte del re Teodorico III di Neustria, come conte palatino, e sposa la figlia del conte di Lovanio, da cui ha il figlio Floriberto. Fonda la diocesi di Liegi, di cui diviene primo vescovo, e dedica gli ultimi anni della vita all’evangelizzazione dei popoli ancora in parte pagani del Brabante e delle Ardenne. È patrono di cacciatori, macellai e pellicciai, guardie forestali e cani da caccia e protettore dal loro morso e dalla rabbia. In questa favola vera, si racconta di quando, in una memorabile battuta di caccia, la sua vita cambiò, e di come, dismessi i panni del gaudente rampollo dell’alta nobiltà merovingia, si avviò a diventare colui che sarà ricordato come l’apostolo delle Ardenne.
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Per il giovane Uberto, primogenito del duca di Aquitania, non c’era attività più gradita della caccia. E, tra le varie caccie, la più consona al suo rango era quella al cervo. In sua vece, ci si poteva sempre accontentare del cinghiale, ma quello era pur sempre un maiale, per quanto selvatico; o ripiegare sul lupo, sentita però come attività più che altro difensiva, una faccenda riguardante i pastori, che si ingegnavano per difendere i loro armenti; l’orso poteva dare soddisfazione per via della sua grande mole, certamente; ma nessuna poteva reggere il confronto con la caccia al cervo. Animale nobile, esattamente come il sangue che scorreva nelle vene di Uberto, veloce, silenzioso, agile, per natura libero, tende a prediligere i boschi di montagna, in alto, vicino al cielo, dove l’altezza della latitudine corrisponde esattamente all’altezza del lignaggio.
Uberto si stava preparando per quella battuta di caccia da tempo.
Più volte, nelle settimane precedenti, si era inoltrato da solo, nei boschi attorno a Metz, dove viveva, gaudente e spensierato, alla corte del re di Neustria, Teodorico III. In sella al suo destriero, li aveva accuratamente ispezionati, accompagnato soltanto dai suoi segugi, che tanta fama di infallibile cacciatore gli avevano già procurato, la sua selezionatissima muta guidata dall’infallibile Lelapo. Aveva scovato le tracce del nobile ungulato tra gli sterpi, indovinandone i passaggi tra i rami spezzati, lasciando annusare i segugi, affinché potessero ricostruirne i movimenti e le abitudini, studiando i migliori appostamenti al limitare delle radure, per tendergli un’imboscata dalla quale non sarebbe potuto scappare.
Quella mattina, prima dell’alba, Uberto era inquieto. Sapeva che era il giorno perfetto, quello aspettato da tempo. L’aria era mite al punto giusto e il cielo prometteva una limpidezza assoluta; il vento spirava da occidente, esattamente da quel punto che spinge i cervi a lasciare le zone più impervie delle foreste, per inoltrarsi tra le fresche e tenere erbette di prato. E, soprattutto, quel giorno non ci sarebbe stato nessuno nei boschi. Nessun contadino alla ricerca di un fagiano o di una pernice, nessun pastore con le sue mucche e i suoi cani rumorosi e guardinghi, nessun messo per riscuotere le regalie, nessun chierico vagante in solitaria preghiera, nessun nobile in cerca della sua porzione di gloria. Perché quello era il Venerdì Santo, un giorno speciale, in cui tutti erano impegnati nelle sacre funzioni. Sarebbero stati soltanto lui, i suoi segugi e lui, il grande cervo dalle corna di alabastro, lisce e levigate, che avevano già incrociato furiosi combattimenti primaverili per conquistarsi il diritto di potersi riprodurre, uscendone sempre invitto. Solo loro, nel silenzio, nella quiete perfetta.
La giornata era sua.
Stette meditabondo e inquieto, gironzolando su e giù per la camera: sapeva che tutti si aspettavano la sua presenza in chiesa, dove certo l’erede del duca non poteva mancare, e che suo padre, Bertrando, si sarebbe adirato come solo lui sapeva, e gli avrebbe molto probabilmente inflitto una delle sue indimenticabili punizioni. Ma, al diavolo, quando gli sarebbe ricapitata una simile occasione? Bisogna pur osare, sfidare, se si vuole eccellere! Ruppe gli indugi, si vestì in tutta fretta, e diede ordine che gli sellassero il cavallo. Si recò nel canile, dove Lelapo e gli altri dovevano avere già presentito qualcosa, perché li trovò eccitati e pronti. Scelse con cura le frecce, studiandole una a una, con minuziosa voluttà; infilò le prescelte nella faretra, si avvolse nel mantello e, spronato il cavallo, partì al galoppo che appena albeggiava, seguito dai cani agili e scattanti.
Il bosco era ancora immerso nel silenzio, rotto soltanto dal canto degli uccelli, che salutavano il sole nascente. Le creature selvatiche, avvezze da millenni a riconoscere gli uomini cacciatori, si guardavano dall’uscire dalle tane, e aspettavano che l’uomo a cavallo e i suoi cani fossero lontani, prima di avventurarsi all’esterno.
Ma l’uomo e i cani non avevano occhi, orecchie e naso che per lui. Oggi non ci sarebbe stata strage di volatili, nessuna lepre sarebbe stata infilzata dalla freccia o stritolata dalle mandibole dei segugi. Tutti i sensi erano concentrati in quell’unico sforzo: il grande cervo, dalle lunghe zampe felpate e dalle corna di alabastro. Uberto sapeva dove sarebbe passato. C’era una radura, che si apriva al di là di un folto boschetto di larici, nel mezzo della quale sgorgava un torrente gorgogliante acqua limpida e vivace. L’erba tutt’intorno era di un verde tenero e fragrante. Lo zefiro portava aromi di vita e di frescura. I cani sembravano presentire il passaggio del grande animale, impazzivano di eccitazione ad annusare intorno, quasi aspirando nelle narici il terreno sul quale era passato chissà quante volte nei giorni precedenti.
Ecco, finalmente, il punto giusto, perfetto. Uberto smontò da cavallo e si appostò dietro a un grosso albero, che lo teneva nascosto ma che, al contempo, gli permetteva di avere ben in vista la radura; si calò il cappuccio sulla testa e attese, rendendosi elemento del bosco egli stesso, interrompendo l’immobilità solo per intimare la calma ai cani. I sensi tesi ad ogni minimo movimento, ad ogni fruscio che provenisse dal folto degli alberi, i nervi pronti a scattare, le emozioni annodate, strette nello stomaco, il cacciatore attendeva paziente la sua preda.
A un tratto, e nessuno saprebbe dire quanto tempo fosse trascorso, un brivido percorse visibilmente il pelo ruvido di Lelapo, che non riuscì a trattenere un guaito, la coda si irrigidì vibrante e gli occhi puntarono intensi e fissi verso un punto del bosco prospiciente. Uberto, con movimenti lenti e misurati, mise mano alla faretra, estrasse l’arco, vi infilò la freccia e trattenne il respiro, ben attento a non fare il minimo rumore: un solo passo falso e tutto sarebbe stato perduto. Ed eccolo, il grande cervo, fare capolino tra gli alberi, e poi a grandi balzi dirigersi verso il torrente, maestoso, dal palco possente, fremente nei muscoli asciutti. L’occhio incollato all’animale, Uberto tese l’arco allo spasimo, Lelapo e i segugi immobili, come statue di sale, pronti a scattare non appena la freccia fosse scoccata.
Improvvisamente, proprio quando il cervo fu alla portata della freccia, si fermò, alzò il collo e si girò in direzione dell’uomo. E in quel momento Uberto vide. Tra le corna dell’animale, proprio sopra la fronte che avrebbe dovuto colpire, stava illuminato, sospeso a mezz’aria, un crocifisso che irradiava una luce vividissima. Caddero l’arco e la freccia, ed egli, senza capacità di muoversi, guardò il cervo negli occhi, da cui uscì una sola, singola lacrima. E in loro vide Gesù che andava a morire carico della croce, vide gli ebrei che lo insultavano lungo il calvario e i soldati romani che lo incitavano a camminare e lo sferzavano. Vide la sua pelle lacerata dalle piaghe, la tunica intrisa di sangue e attaccata ai brani di carne devastata dal flagellum. Gesù si girò e lo guardò. E i suoi erano gli occhi del cervo. Uberto non poté fare altro che crollare in ginocchio, mentre Lelapo si acquattò al suo fianco, incapace di decifrare cosa stesse succedendo.
Fu un attimo. Il cervo, con due balzi veloci, scappò al sicuro, tra gli alberi, tra i lecci e i pruni, lasciando Uberto a piangere con le mani sul volto.
Il figlio del signore di Aquitania tornò dalla caccia, quel giorno, che era un altro. Ben altra gloria ora aveva in animo di conquistare, ben altri pensieri gli occupavano la mente. Accarezzò Lelapo, e gli disse che non l’avrebbe più accompagnato nelle battute di caccia, ché lui non avrebbe più dato la caccia agli animali dei boschi per voluttà. Si accomiatò dal suo fedele segugio e dall’uomo vecchio nel medesimo momento.
Nei giorni seguenti, diede disposizioni per rimettere i suoi titoli nobiliari, i suoi diritti e anche la cura del suo unico figlio al fratello minore, Ottone. Poi si recò a Liegi, dal vescovo Lamberto, per essere istruito in teologia. Da Lamberto sarà ordinato sacerdote, di lui prenderà poi il posto e raggiungerà le genti pagane delle Ardenne per portar loro l’immagine e il verbo di Cristo, ancora vagando per molti anni nei boschi, quei boschi in cui un tempo andava a cercare trofei, e nei quali ora cercava anime da battezzare.
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