La via della bellezza. Tornare alla liturgia tradizionale dopo settant’anni di esilio
di Anna Kalinowska
Lo scopo della vita dell’uomo è conoscere, amare e servire Dio con tutta la mente, tutto il cuore e tutta la forza. Questa risposta concisa alla domanda più spinosa del mondo racchiude in sé un’irresistibile bellezza poetica. Le sue sillabe, forti e ritmate, sono come il suono di un tamburo di guerra che rinsalda le truppe di fronte alla battaglia.
Eppure, vien da chiedersi, in che cosa si concretizza questa risposta? Come si fa a conoscere, ad amare e servire Dio? Come si fa a dargli realmente “tutto”?
Nel leggere Il rito romano di ieri e di domani. Ritornare alla liturgia latina tradizionale dopo settant’anni di esilio di Peter Kwasniewski, recentemente pubblicato in Italia, la risposta mi è apparsa molto semplice: per realizzare il suo scopo nella vita, all’uomo è sufficiente rivolgersi alla liturgia. La liturgia è l’ambiente per eccellenza in cui l’uomo può sforzarsi di conoscere, amare e servire Dio con ogni fibra del suo essere.
Ma se il compimento ultimo dell’uomo si trova nella liturgia, allora è logico che la forma di questa liturgia sia di importanza cruciale. Scrive Kwasniewski:
L’essenza della liturgia della Chiesa è semplice: sta tutta nel tempio del Cuore di Gesù Cristo, nostro eterno Sommo Sacerdote, dove risiede il perfetto culto del Padre nello Spirito. Ma l’abito di questo culto è di importanza decisiva per noi, che interagiamo con Nostro Signore attraverso il Suo Corpo visibile, la Chiesa, e attraverso i suoi riti visibili. Il modo in cui questi riti sono strutturati, svolti e partecipati influenzerà inevitabilmente la nostra comprensione dei misteri della fede e la nostra capacità di metterli in pratica nella nostra vita (pp. 14-15).
Nel primo capitolo, Kwasniewski svela con argomenti stringenti il ruolo della tradizione nella cura e nello sviluppo dei riti sacri, nella santificazione dell’uomo e, in ultima analisi, nel rendere gloria a Dio. L’autore confuta l’obiezione per cui ciò che conta è soltanto la validità del sacramento, con un’analisi penetrante dei concetti di sostanza e di accidente. “Mi viene in mente un solo caso in cui, per potenza divina, la sostanza è separata dall’accidente”: cioè, scrive, “il miracolo della transustanziazione”, per poi spiegare che la sostanza della liturgia è inestricabilmente legata ai suoi accidenti, il che rende gli accidenti (sui quali ha potere la Chiesa) di vitale importanza (p. 20).
Più avanti, Kwasniewski ricollega quest’analisi alla discussione sul tema della bellezza della tradizione:
La bellezza avviene, per così dire, quando c’è chiarezza su ciò che la cosa in sé stessa è. Quando qualcuno è attratto dalla liturgia tradizionale per ciò che vede o sente, non è a causa di una sua fissazione su queste cose, ma perché queste cose si coagulano intorno ad una realtà, il Sacrificio della Croce, e la mettono in risalto con una chiarezza che appaga. Le qualità esterne (o “accidenti”) tanto si armonizzano con la natura del mistero che il risultato è lo splendore della verità (p. 30).
Kwasniewski svela una realtà sottile ma cruciale, spesso trascurata anche dagli esperti più eruditi: la sublime armonia prodotta dall’unione tra la bellezza metafisica della Croce e quella fisica (percepibile ai sensi) dei riti sacri. I detrattori della liturgia antica minimizzano l’importanza di quest’armonia o, chiudendosi occhi, naso e orecchie, la negano del tutto: per loro, essa altro non è che uno spettacolo di incensi e di campane, una grande distrazione, un’esibizione imbarazzante e irrilevante. Nelle parole del salmista, questi critici “hanno orecchi ma non sentono”. La difesa illuminante che Kwasniewski fa della bellezza della liturgia nel mondo fisico, non come mero piacere estetico, ma come accidente indispensabile (e inscindibile) della sostanza della realtà stessa, è un colpo di genio pedagogico e rende giustizia a quella miriade di fedeli che hanno udito quest’armonia con le orecchie del proprio cuore e hanno quindi cercato di promuoverla e di difenderla.
Ci si può ancora chiedere, tuttavia, da dove venga la liturgia tradizionale e che cosa, esattamente, ne differenzi la genesi rispetto ai riti apparsi dopo il Concilio Vaticano II. Nel secondo capitolo, Kwasniewski fornisce un’ampia trattazione storica e teologica di quel che realmente significa “sviluppo organico”, formulando leggi concrete dello sviluppo organico sulla base della sua vasta conoscenza dei riti tradizionali sia d’Oriente sia d’Occidente. La parte forse più preziosa di questo capitolo è la descrizione del tasso di cambiamento nello sviluppo della liturgia, e di come esso sia variato nel corso dei secoli. Le intuizioni di Kwasniewski sfatano i miti e le convinzioni erronee tanto degli archeologisti quanto dei modernisti.
Altri capitoli affrontano, da diversi punti di vista, che cosa significhi affermare che un rito è “tradizionale” (o meno), e cosa sia realmente necessario perché si abbia il rito romano, come distinto da tutti gli altri riti della cristianità. Il professore argomenta con forza il fatto che il Novus ordo non è e non può essere considerato il rito romano – è un rito del tutto nuovo, costruito con elementi manipolati e trasformati del rito romano e con molto materiale nuovo – e che, di fatto, il rito romano ha più in comune con la liturgia bizantina che con il Novus ordo. Un’affermazione che ad alcuni potrà sembrare sorprendente; ma gli argomenti di Kwasniewski sono dettagliati e convincenti.
L’ultimo e più affascinante capitolo del libro contiene una breve dissertazione sulle modifiche apportate alla Settimana santa nel 1955 e su molti altri cambiamenti, apparentemente piccoli ma in realtà cruciali, che furono apportati al messale romano dopo la Seconda guerra mondiale; il riscaldamento, per così dire, dei futuri architetti del messale del 1969. Finito questo capitolo, non si possono più avere dubbi sui progetti dei principali attori nel campo della liturgia al Concilio Vaticano II, e ci si rende conto di quanto sia insensato aggrapparsi a un messale provvisorio (quello promulgato nel 1962) che era, nella migliore delle ipotesi, soltanto transitorio e costituiva, nelle parole di un suo architetto che parlava della nuova Settimana santa di Pio XII, “un ariete” con l’unico scopo di scardinare e sovvertire la nostra legittima eredità liturgica.
Dedicando la sua vita di studioso, la sua parola e la sua penna eloquenti, nonché i suoi numerosi talenti musicali ai sacri riti della Chiesa, Kwasniewski continua a dimostrare la sua incondizionata devozione di mente, cuore e forza a Dio. Forse, in questo periodo di preparazione alla Passione di Cristo, possiamo riflettere su come fare altrettanto. Non saremo studiosi, ma sappiamo almeno leggere; non saremo musicisti, ma possiamo aprire le orecchie del nostro cuore; e non saremo ancora santi, ma possiamo e dobbiamo gettarci anima e corpo nella vita liturgica come i bambini si gettano nelle braccia delle loro madri. La liturgia è nostra madre in quanto ci porta Cristo. Non dobbiamo forse a nostra madre l’amore più profondo? Non dobbiamo forse lavorare e lottare per difenderla? Per Kwasniewski, la risposta è chiara:
Alla fine, o i cattolici saranno tradizionali o non saranno affatto. Questa consapevolezza ci conforta nella prova e, allo stesso tempo, suscita un senso sempre crescente di responsabilità: la tradizione non è qualcosa che, in noi, prevale automaticamente, senza alcun nostro sforzo, come del resto non lo sono l’ortodossia o la buona morale. Proprio come dobbiamo educarci nella dottrina cattolica e lottare contro la nostra natura umana decaduta attraverso l’ascesi e la cosciente aspirazione alla virtù, così dobbiamo imparare (o re-imparare) le nostre tradizioni in tutta la loro ampiezza e ricchezza, o esse evaporeranno nei venti roventi della tarda modernità. Un autore contemporaneo, Lewis Hyde, ha coniato l’espressione “la fatica della gratitudine”: fare veramente propria un’eredità significa essere consapevoli del suo valore, esserne grati a Dio, faticare per conoscerla sempre meglio e adoperarsi perché si mantenga viva e vegeta e perché, malgrado ogni ostacolo, sia trasmessa ai posteri (pp. 34-35).
Il rito romano di ieri e di domani, edito da Os Justi Press, contiene dodici capitoli che approfondiscono questi e altri argomenti, come il Canone Romano e il ruolo del papato. Il volume è arricchito da numerose e gradevoli illustrazioni e da una bella prefazione di Martin Mosebach. Kwasniewski conclude il suo libro con un epilogo di accese, quasi poetiche “opposizioni”, una lunga appendice costituita da discorsi altamente rivelatori di Paolo VI sulla riforma liturgica e un indice dettagliato. Raccomando questo libro a tutti coloro che sono interessati a discutere seriamente del rito romano, del suo glorioso passato e del suo garantito futuro.
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Testo riadattato della recensione di Anna Kalinowska all’edizione originale del libro, The Once and Future Roman Rite: Returning to the Traditional Latin Liturgy after Seventy Years of Exile, pubblicata da Onepeterfive